Articolo sui filosofi giapponesi e la logica pubblicato dal blog Discutiamo del Giappone.
I filosofi giapponesi e la logica
di Cristiano Martorella
10 agosto 2010. L'epoca d'oro della filosofia giapponese ebbe il suo apice nella prima metà del XX secolo, e coincise con la rivolta contro il modello culturale occidentale (1). L'idea che la civiltà giapponese dovesse avere un proprio pensiero autonomo fu sostenuta con forza dai filosofi giapponesi, tuttavia il risultato corrispose a una sintesi della filosofia europea con la tradizione orientale, cioè con lo sviluppo della filosofia nippo-europea (tetsugaku) che era stata già fondata nel secolo precedente da Nishi Amane (2).
In questo quadro si inserisce l'analisi e la critica alla logica occidentale avanzata dai filosofi giapponesi (3). Essendo il principio di non-contraddizione uno dei punti fondamentali della logica del pensiero occidentale, è naturale che sia anche uno dei più contestati. La critica più autorevole al principio di non-contraddizione nella filosofia contemporanea giapponese è stata esposta da Nishida Kitaro (1870-1945).
Il pensiero di Nishida non è un tentativo di elaborazione isolata della filosofia giapponese, ma al contrario, deve molto alla filosofia idealista tedesca, in particolare Hegel, Fichte, Schelling, Schleiermacher ma anche a Kant, Hume, Locke, Spinoza, Leibniz, Schopenhauer, Lotze e Hartmann (abbiamo documentazione certa nei diari e nella corrispondenza che ci testimoniano i suoi interessi) (4).
Si sa quanto Nishida fosse impegnato nello studio dei testi filosofici europei, tanto da essere diventata leggendaria la sua figura di studioso che trascorreva le notti immerso nella lettura. Non c'è quindi motivo di sorpresa se si trova in Nishida una ripresa di Hegel in opposizione al principio di non-contraddizione (5).
Per Nishida la contraddizione fa parte della dialettica della realtà. Essendo la contraddizione costitutiva dell'essere, non la si può considerare come un qualcosa a parte. La contraddizione non va esclusa dalla realtà, così come interpreta il senso comune, poiché è posta proprio al suo interno. Perciò Nishida prova un autentico senso di rifiuto nei confronti della contraddizione come presentata dalla tradizione occidentale. E come ha anche mostrato Löwith, abbiamo dovuto attendere Hegel e Nietzsche perché avvenisse un cambiamento profondo nel pensiero filosofico in Occidente.
Il fatto storico che per millenni la filosofia europea sia rimasta immutata nei suoi principi, non può passare inosservato. E anche la riflessione che queste forme del pensiero hanno finito per entrare nel pensiero comune occidentale. Questa sedimentazione è diventata talmente profonda e antica da passare inosservata. Infine si è creduto che certi pensieri fossero addirittura lo specchio della realtà.
Mentre in Occidente si era consolidata tale situazione, in Giappone la filosofia rivolgeva la sua attenzione su se stessa. Miki Kiyoshi, allievo di Nishida, è l'autore di un singolare testo filosofico intitolato Kosoryoku no ronri (6) (La logica del concepimento del pensiero) che analizza lo sviluppo delle idee nel mondo storico e la loro capacità di interagire con la realtà.
Dunque la resistenza del principio di non-contraddizione ha motivi più storici che logici-filosofici. Nishida era pienamente consapevole di ciò e decise di ricorrere a una terminologia che distinguesse la logica occidentale dalla logica giapponese. Egli coniò il termine toyoteki ronri, letteralmente "logica orientale". Qui non vi sono dubbi di traduzione poiché la parola ronri significa logica, e indica appunto la logica come intesa in Occidente, ossia lo studio delle condizioni del ragionamento corretto.
Nel pensiero di Nishida ci sono state diverse tappe di evoluzione. L'ultima è costituita dall'elaborazione di una "logica del luogo" (basho no ronri), alternativa alla logica tradizionale occidentale e rielaborazione del pensiero filosofico contemporaneo. La logica del luogo (basho no ronri) comporta anche "l'identità di contraddizioni" (mujunteki doitsu). Infatti, secondo Nishida l'uno e il molteplice sono soltanto due punti di vista della stessa realtà (7).
Egli parla anche di una determinazione lineare e di una determinazione circolare, anch'esse aspetti diversi di una stessa realtà. Nishida analizza la concezione dello spazio e del tempo. Il pensiero comune concepisce il tempo come lineare, esso va dal passato al futuro. Ma se il passato è quel che è stato, e il futuro è quel che deve venire, il presente, determinato dal passato e dal futuro, non ha senso.
Il presente non può essere determinato dal passato e dal futuro in questo modo. Ciò che conosciamo è soltanto l'attimo presente. Dunque, il presente, il passato e il futuro esistono simultaneamente. Siccome la simultaneità è la caratteristica dello spazio, secondo Nishida anche il tempo è spaziale. Quindi il tempo può essere determinato in due modi, l'uno lineare, rappresentato da una linea verticale, l'altro da uno spazio orizzontale, rappresentato da un cerchio che si chiude. "L'esterno è l'interno, l'interno è l'esterno, l'uno è il molteplice, il molteplice è l'uno" è l'affermazione che Nishida ritiene essenziale. Se per Kant, il tempo è il senso interno e lo spazio il senso esterno, allora, secondo Nishida, l'interno sarà la forma dentro il tempo e l'esterno la forma dentro lo spazio.
La logica del luogo propone un'alternativa alla concezione lineare del tempo considerando il tempo in modo spaziale e circolare. In questa maniera anche le operazione logiche sono stravolte. Il modus ponens, per esempio, implica una linearità che la logica di Nishida non concede con tanta facilità. Nishida non si fermerà a una valutazione epistemica, ma estenderà queste osservazioni a considerazioni storiche e sociali. L'opposizione individuo/società sarà riportata alla relazione interno ed esterno, dunque a una identità.
Come già si può vedere, l'abbandono del principio di contraddizione prevede un rifiuto del principio d'identità. Nel sistema filosofico di Nishida è molto chiaro nell'esposizione dell'identità contraddittoria che è impensabile senza rinunciare al principio d'identità. Vedremo specificamente nel prossimo paragrafo il rifiuto da parte della filosofia giapponese del principio di identità.
Dopo Nishida altri importanti filosofi giapponesi hanno seguito questa distinzione fra logica occidentale (in cui è tenuto il principio di non-contraddizione) e logica orientale (in cui non è accettato il principio di non-contraddizione). Miki Kiyoshi (1897-1945), allievo di Nishida, elaborò una logica speculativa molto originale. Partendo dagli studi su Pascal (8), e riconoscendo dunque la distinzione fra spirito de finesse e spirito de géométrie, Miki cercò di elaborare una logica alternativa alla logica della ragione che spiegasse la forza delle idee messe in opera nella formazione del mondo storico. Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero) (9) è l'opera più significativa che realizza questo intento filosofico di Miki Kiyoshi.
Anche Tanabe Hajime (1885-1962) partì dalla logica nishidiana per criticare la logica occidentale. Ma la formazione iniziale di Tanabe è anche fortemente intrisa di interessi per la filosofia della scienza. Negli studi dedicati alla filosofia della scienza, come Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza) (10), egli dimostra di destreggiarsi abilmente nell'ambito dell'epistemologia. Ma come già accaduto per gli altri filosofi giapponesi, si accorge ben presto che la logica occidentale non è conciliabile con il pensiero giapponese.
Anche per Tanabe, come per Nishida, la contraddizione si risolve in una unità indissolubile. Ma Tanabe si distacca subito dalle soluzioni proposte da Nishida, ed elabora una sua logica alternativa. L'intento di Tanabe è chiaramente quello di opporsi alla soluzione nishidiana proponendone una nuova elaborazione.
Secondo Tanabe Hajime la filosofia deve fornire una mediazione fra la logica filosofica e l'irrazionalità della realtà. Non possiamo accontentarci di restare spettatori della contraddittorietà del mondo. Questa logica sarà la "dialettica della mediazione assoluta" (zettai baikai no benshoho). La "logica della specie" (shu no ronri) sviluppata da Tanabe si sostituisce alla "logica del luogo" di Nishida.
Secondo Tanabe, Nishida sbaglierebbe quando analizza l'individuale e l'universale senza considerare che fra questi c'è la mediazione della specie (shu). Tanabe ritiene di aver corretto la logica di Nishida, ma continua a ritenersi un continuatore del filosofo di Kamakura. Tanabe attraverso la "logica della specie" perviene a una definizione storico-politica dello stato che sarebbe mediatore fra l'universale, l'individuale e la cultura. Così Tanabe crede di aver dato concretezza alla logica di Nishida che rischiava di restare troppo astratta. Ma gli eventi del conflitto mondiale colpiranno profondamente Tanabe che sottoporrà il suo sistema a una revisione. Egli ritiene di aver dato troppa importanza allo stato nazionale, dimenticando i punti di partenza.
Anche in Shu no ronri no bensho (La dialettica della logica della specie) (11) sono espressi questi ripensamenti. Nella sua autocritica, Tanabe affermerà che la sua logica era eccessivamente permeata del principio di identità, trascurando la relativizzazione di ogni prospettiva (ciò che Nishida aveva fatto in modo superbo). Perciò egli approderà con Zangedo toshite no tetsugaku (Filosofia come penitenza) (12) a una filosofia che indica i limiti della ragione rispetto all'esistenza. In quest'opera, Tanabe indica il male come una assolutizzazione della prospettiva dell'individuo. Invece, vedere e riconoscere le diversità sarebbe l'atto di libertà che permetterebbe la serena esistenza dell'essere umano.
La vicenda filosofica di Tanabe è dunque travagliata. Partita dagli studi sulla scienza termina in una riflessione esistenziale. Egli però ci lascia un sistema che ammette una logica alternativa e le implicazioni etiche e storiche che ne derivano.
Anche Takahashi Satomi (1886-1964), autore di un saggio su Edmund Husserl (13) e traduttore di Henri Bergson (14), si è occupato della logica giapponese. Takahashi riconosceva diversi sistemi dialettici e ne tentò una sintesi. I risultati sono raccolti nella sua opera dedicata a questo problema specifico: Ho benshoho (La dialettica avvolgente) (15). La dialettica di Takahashi Satomi ingloba la dialettica hegeliana, la dialettica nishidiana, ma anche la logica formale, in un tentativo audace e inusitato di sintesi. Così come espresso dal suo nome, "dialettica avvolgente" comprende tutte le dialettiche elaborate dalle filosofie occidentali e orientali.
La proposta di Watsuji Tetsuro (1889-1960) è ancora più originale (16). Egli afferma in Fudo: ningengakuteki kosatu (Il clima: analisi della natura umana) che esiste uno stretto rapporto fra la natura e il carattere umano. L'influenza dei diversi climi porterebbe alla formazione di culture diverse (17). Watsuji riconosce un clima del tifone, un clima del deserto, un clima della prateria che corrispondono alle culture estremo-orientale, medio-orientale e occidentale.
La fine sensibilità e passionalità, il senso di rassegnazione nei confronti destino, la dignità, la tenacia del giapponese sono comprensibili, secondo Watsuji, attraverso l'influenza del clima del tifone. Watsuji, comunque, non tralascia di dire che l'esistenza umana è influenzata anche fortemente dalle relazioni sociali. Il pensiero di Watsuji, scaturisce quindi in un sistema filosofico che determina l'uomo come prodotto di due forze, una naturale e l'altra sociale. In questo sistema, come in quello di Miki, le leggi del pensiero sono il prodotto di processi ambientali, storici e sociali. Quindi i principi della logica non sono considerati come assoluti e indipendenti dalla realtà.
Anche Mutai Risaku (1890-1974) ha cercato di costruire una logica per il pensiero orientale. Partito dall'intenzione di elaborare una logica per il pensiero di Nishida (18), Mutai si accorse dell'ampiezza del suo lavoro e delle implicazioni che ne derivavano. Mutai critica l'opinione che la logica occidentale rappresenti la forma più corretta del pensiero (19). Secondo Mutai Risaku, la logica occidentale è semplicemente una costruzione che è congeniale al modo di pensare degli occidentali. A questa Mutai oppone una logica dell'intuizione, ma anche Nishida aveva parlato spesso di intuizione, e così molti altri filosofi giapponesi.
In questo articolo, che è la rielaborazione di precedenti testi già pubblicati e discussi, abbiamo mostrato le posizioni di alcuni filosofi giapponesi sulla questione della forma logica. In conclusione, secondo questi autori non esiste una "logica universale", e sicuramente essa non è quella elaborata e proposta in Europa e America. Infatti la logica occidentale sarebbe soltanto una fra le tante possibili forme della logica, e ciò ha drammatiche conseguenze storiche e politiche, come è facile appurare.
Note
1. Frattolillo, Oliviero, Il Giappone e l'Occidente: dalla rivolta culturale al simposio sul superamento della modernità, L'Orientale Editrice, Napoli, 2006.
2. Fu Takano Choei a suggerire la prima traduzione della parola occidentale "filosofia" (dal greco philosophia). Era sua intenzione rendere il significato di un "sapere generale e fondamentale". Perciò coniò il termine gakushi, traducibile all'incirca come conoscenza, sapienza, insegnamento. Ma nel 1874 si preferì adottare ufficialmente la parola tetsugaku inventata dal filosofo Nishi Amane (1829-1897). Il nuovo termine era composto da due kanji: tetsu (saggezza) e gaku (scienza). Cfr. Nishi, Amane, Nishi Amane zenshu, Nippon Hyoronsha, Tokyo, 1944.
3. Le affinità e le divergenze della filosofia giapponese sono state già spiegate nel seguente articolo: Martorella, Cristiano, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19.
4. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu bekkan 1, Nikki, Iwanami Shoten, Tokyo, 1951, p. 4.
5. Sul valore della dialettica hegeliana da un punto di vista logico si legga Marsonet, Michele, Logica e linguaggio, vol.1, Pantograf, Genova, 1993, p. 59.
6. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946 .
7. Cfr. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1949, vol. 7, p. 204 e vol. 1, p. 86.
8. Miki, Kiyoshi, Pascal ni okeru ningen no kenkyu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1980.
9. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.
10. Tanabe, Hajime, Kagaku gairon, Iwanami Shoten, Tokyo, 1918.
11. Si consulti Tanabe, Hajime, Tanabe Hajime zenshu, Chikuma Shobo, Tokyo, 1976.
12. Tanabe, Hajime, Zangedo toshite no tesugaku, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.
13. Takahashi, Satomi, Husserl no genshogaku, Nipponsha, Tokyo, 1931.
14. Bergson, Henri, Busshitsu to kioku, Iwanami Shoten, Tokyo, 1936.
15. Takahashi, Satomi, Ho benshoho, Risosha, Tokyo, 1947.
16. Watsuji, Tetsuro, Watsuji Tetsuro zenshu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1992.
17. Watsuji, Tetsuro, Fudo: ningengakuteki kosatu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1979.
18. Mutai, Risaku, Basho no ronrigaku, Kobundo, Tokyo, 1944.
19. Mutai, Risaku, Shisaku to kansatsu, Keiso Shobo, Tokyo, 1971.
martedì 10 agosto 2010
mercoledì 4 agosto 2010
La forma logica del pensiero giapponese
Estratto del cap. 4 della tesi di laurea di Cristiano Martorella.
Cristiano Martorella, Il concetto giapponese di economia dal punto di vista epistemologico, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Genova, A.A. 1999-2000.
Capitolo 4. La forma logica del pensiero giapponese
4.1 La diversità concettuale come problema epistemologico
4.2 Sayonara al principio di non-contraddizione
4.3 Il frutto proibito del principio d’identità
4.4 La rigidità del principio di non-contraddizione
4.5 La forma giapponese della verità
4.6 Uso della negazione nella lingua giapponese
4.7 Il principio dell’ombra
Capitolo 4. La forma logica del pensiero giapponese
4.1 La diversità concettuale come problema epistemologico
A questo punto della nostra indagine, ci imbattiamo in un quesito che riguarda direttamente l'epistemologia e che non possiamo rimandare oltre. Il nostro è un approccio radicale che si basa sull'individuazione di precisi modelli di pensiero. L'apporto della filosofia è fondamentale, anche se qualche volta non appare nelle nostre analisi, ed è quindi importantissimo essere chiari sull'impostazione dei problemi che stiamo affrontando. La filosofia della scienza ha elaborato la nozione di schema concettuale come strumento dello sviluppo culturale fondato sui concetti che permettono di giudicare la realtà.
Il contributo maggiore allo studio e alla critica della definizione di schema concettuale è stato fornito da Donald Davidson, autore che quindi dovremo prendere in massima considerazione (1). Secondo Davidson, uno schema concettuale completamente alternativo sarebbe inintelligibile. Come sarebbe possibile capire ciò che è concettualmente diverso, dice Davidson, se gli strumenti della conoscenza sono totalmente diversi? Anche se uno schema concettuale alternativo esistesse, esso sarebbe intraducibile in un altro schema concettuale. Effettivamente molte espressioni giapponesi risultano intraducibili, e quasi soddisfano i criteri di inintelligibilità richiesti da Davidson.
Ma non è nostro scopo dimostrare l'incomprensibilità dello schema concettuale giapponese, anzi è il contrario, si tenta di spiegarlo. E nemmeno è nostro intento confutare Davidson perché ha sollevato un'obiezione. Infatti Davidson conclude il capitolo "Sull'idea stessa di schema concettuale" contenuto in Verità e interpretazione, assumendo una posizione abbastanza equilibrata:
"[...] Infatti non abbiamo trovato una base intelligibile su cui poter affermare che due schemi sono diversi. Altrettanto errato sarebbe annunciare la buona notizia per cui l'umanità intera - o almeno tutti quelli che possiedono un linguaggio - ha in comune uno schema concettuale e un'ontologia. Infatti, se non possiamo dire intelligibilmente che due schemi sono diversi , non possiamo dire intelligibilmente che sono una sola cosa. [...] Dal dogma del dualismo tra schema e realtà, segue la relatività concettuale e la verità relativa a quello schema. Senza quel dogma, questo genere di relatività scompare dal campo." [D. Davidson, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 282]
Le obiezioni sollevate da Donald Davidson sono interessanti, ma possono trovare risposta solo in uno schema concettuale diverso. Paradossalmente Davidson ci dice che si deve rinunciare alla distinzione fra schema e contenuto, ma nel fare ciò non stiamo definendo un diverso paradigma? Evidentemente per Davidson non esiste uno schema concettuale, o almeno la sua definizione non corrisponde a quella consueta. Vedremo come affrontare tale questione ardua ma stimolante alla fine dell'intero lavoro. Solo possedendo un'idea chiara del sistema di pensiero giapponese potremo fare dei confronti. Per il momento tentiamo di definire la diversità concettuale giapponese seguendo ciò che ci dicono i filosofi e gli studiosi giapponesi. Alla fine trarremo le dovute conclusioni. Per il momento però è utile definire come sia possibile la comunicazione fra schemi concettuali diversi superando i problemi di inintelligibilità.
Già Ludwig Wittgenstein aveva dimostrato implicitamente che poteva esistere comunicazione fra schemi concettuali diversi quando propose l'esempio del coleottero in una scatola (Cfr. Ricerche filosofiche, Par. 293). La comunicazione può avvenire anche se il concetto di coleottero è diverso, se le nostre esperienze differiscono, perfino se la nostra scatola è vuota. "Usare una parola senza giustificazione non vuol dire usarla senza averne il diritto", ci dice chiaramente Wittgenstein (Ibidem, Par. 289). La condivisione di pochi elementi linguistici permette comunque la continuazione della conversazione, indipendentemente dai giudizi, dalle credenze e quindi dagli schemi concettuali. Wittgenstein, infatti, riconosce la comprensione (condivisione dei giudizi e delle credenze) come un passo ulteriore della comunicazione (Ibidem, Par. 242). La comunicazione non è affatto l'approdo finale del linguaggio, è soltanto il cominciamento.
Riguardo ai problemi di traduzione della lingua giapponese, molti autori giapponesi ne hanno scritto a bizzeffe. Il problema, come sempre, è che la maggior parte di questi testi non sono stati tradotti in lingue occidentali e sono rimasti sconosciuti sia in Europa che in America. Qui citiamo il bel libro, semplice ed essenziale, di Morimoto Tetsuro intitolato Nihongo omote to ura (La lingua giapponese, davanti e dietro) (2). Il titolo è già significativo, intendendo che esiste una facciata, gli aspetti superficiali della lingua, ma anche un dietro, gli aspetti profondi e nascosti che sono difficili da percepire. A dispetto di tali supposte difficoltà, Moritomo fornisce un quadro molto semplice e naturale che spiega la lingua in connubio con la sensibilità giapponese restando nell'ambito della vita quotidiana.
Secondo i giapponesi, le difficoltà della lingua giapponese sono da imputare a un modo di percepire la realtà totalmente diverso. Ma come abbiamo prima detto, questa diversità dipende dai fondamenti (in giapponese kiso) del pensiero e delle sue leggi logiche. Se le differenze di significato e di credenze che riscontriamo nel pensiero giapponese sono solo la parte che emerge di un immenso iceberg, differenze che nascono dai fondamenti e dall'elaborazione del pensiero, ossia dalle strutture e leggi logiche, preoccuparsi solo dell'aspetto interpretativo dei significati e delle credenze senza capire da dove scaturiscano è abbastanza limitativo.
Per questo motivo abbiamo scelto di rispolverare la teoria weberiana che non è stata mai usata in ambito epistemologico con la portata e le conclusioni che noi stiamo ottenendo(3). Franco Ferrarotti ha sostenuto che Max Weber sia stato tremendamente sottovalutato(4). Anche noi siamo di questo avviso e intendiamo dimostrarlo utilizzando il metodo weberiano in maniera nuova e pratica.
Il "comprendere" (verstehen) è per Max Weber un processo che utilizza gli schemi concettuali diversi grazie al principio dell'avalutività. Al contrario l'interpretazione sembra un procedimento di accomodamento fra il nostro schema concettuale ed l'espressione verbale. Noi abbiamo detto fin dall'inizio che avremmo rinunciato al nostro schema concettuale per cercare di afferrare la razionalità giapponese, seguendo l'esempio del metodo tracciato da Weber. In tal modo da tentare di "comprendere" piuttosto che "interpretare".
L'unica maniera per impossessarsi di uno schema concettuale è usarlo. Tentare di limitare i problemi di traduzione ricorrendo a qualche facile scappatoia ci farebbe cadere in errore. A questo proposito hanno ragione i giapponesi nel criticare gli occidentali per la loro superficialità quando si accostano alla cultura e società giapponese.
Il rimprovero alla superficialità e presunzione dell'occidentale proviene dalla constatazione di un atteggiamento che ignora l'esistenza di un sentire e pensare diverso. O peggio, lo etichetta come una "diversità inferiore" che è destinata a sparire travolta dal progresso occidentale.
Per restare nell'ambito della filosofia, anche Ludwig Wittgenstein si era accorto che il pericolo era confondere la prassi con l'interpretazione (5). Quando parliamo con un interlocutore, ci aspettiamo che abbia un comportamento consono alle nostre aspettative, non certo che si impegni a interpretare le nostre parole secondo il suo schema concettuale. Così come quando ordiniamo una pietanza al cameriere ci aspettiamo di essere serviti e non attendiamo un discorso di apprezzamento sui nostri gusti raffinati. Questa è la differenza fra prassi e interpretazione che fu esposta più volte da Wittgenstein e ripresa e rielaborata da Austin (6).
Per questo rifiutiamo l'idea di "interpretare" attraverso il nostro schema concettuale, anche perché ci sembra inconciliabile con la filosofia del linguaggio ordinario di Wittgenstein, Austin e Grice. Se la parola è anche azione, usare parole diverse spesso, ma non sempre, significa eseguire azioni diverse. Numerose volte abbiamo citato direttamente in giapponese molti termini con l'intento di mostrare la diversità d'uso della parola. È Wittgenstein che ci insegna che il significato è l'uso di una parola. Se avessimo usato direttamente una nostra o altre traduzioni, avremmo forse fornito un'idea falsa su quei termini.
Il problema dell'inintelligibilità degli schemi concettuali è ripreso anche da Richard Rorty nel saggio Il mondo finalmente perduto(7). Il suggestivo titolo intende con "mondo perduto" quello del realista ingenuo. In questo saggio, egli analizza la posizione di Davidson e Stroud nei confronti dello "schema concettuale alternativo". Partendo da Hegel e Kant fino a giungere a Heidegger e Dewey, tracciando una particolare storia della filosofia nello stile tipico di Rorty, si descrivono le possibilità che provengono dall'accettazione dell'esistenza di uno schema concettuale alternativo.
Rorty è concorde con Davidson circa l'inintelligibilità dello schema concettuale alternativo e utilizza una serie di esempi. Fra le tante situazioni bizzarre proposte da Rorty, una sembra molto simile al nostro caso, ed è quello degli abitanti del pianeta Mongo. Essi avrebbero uno schema concettuale alternativo che includerebbe una diversa nozione di morale, di arte, di scienza, etc. Se nell'esempio di Rorty sostituissimo "pianeta Mongo" con "società giapponese", ci troveremmo in una situazione non dissimile. Il fatto che Rorty ricorra a esempi immaginari tratti dalla fantascienza e non citi casi concreti disponibili e documentati, sembra indicativo della necessità di non confondere il piano teorico con esempi concreti che necessitano di studi approfonditi.
Infatti la conclusione di Rorty non è l'affermazione di uno schema concettuale unico, ipotesi prontamente respinta anche da Davidson, ma l'auspicio di un superamento di idealismo e realismo.
"Ma se potremo giungere a considerare sia la teoria della coerenza sia quella della corrispondenza delle banalità non antagonistiche, allora potremo andare finalmente oltre il realismo e l'idealismo. Potremo raggiungere un punto in cui, per dirla con Wittgenstein, saremo in grado di cessare di fare filosofia come e quando vogliamo." (8)
Anche qui Rorty sembra indicare una soluzione simile a quella di Davidson: la necessità di un paradigma filosofico diverso. Sembra chiaro che questi autori ci stiano indicando che i problemi circa lo schema concettuale dipenderebbero da cattive definizioni filosofiche, ciò che Wittgenstein indicava come pseudo-problemi. Queste difficoltà dovrebbero essere risolvibili in un diverso sistema filosofico.
Per quanto riguarda il presente lavoro, noi abbiamo deciso dall'inizio di seguire il pensiero giapponese fino in fondo, e anche nei confronti di tali questioni scegliamo di studiare la soluzione giapponese. Soltanto conoscendo la posizione filosofica giapponese potremo affermare se essa si inserisce in un quadro già esistente nella tradizione occidentale, se ha rapporti con le posizioni dell'epistemologia contemporanea e quanto sia diversa e proponga di nuovo.
Però una riflessione non può certo mancare. La filosofia giapponese (9), con il suo magnificente sviluppo di dodici secoli, da Kobo Daishi a Nishida Kitaro, non ha nulla da invidiare alla filosofia americana, con i suoi vivaci due secoli da Ralph Waldo Emerson a John Dewey. Forse è ridicolo continuare a sostenere che lo sviluppo della filosofia giapponese sia viziato da dei limiti intellettuali. Anche perché sono veramente pochi gli studiosi occidentali che si sono occupati della filosofia contemporanea giapponese. Quindi è insensato dare un giudizio su ciò che non si conosce.
Più interessante è invece, guardando dal punto di vista giapponese, scoprire i contorcimenti che affliggono il pensiero occidentale. Continuamente ascoltiamo discorsi vari sulla globalizzazione del pianeta. Per una volta facciamo in modo che questa globalizzazione e integrazione avvenga anche con la filosofia. Se questo mondo non deve avere più confini, questi devono però essere abbattuti anche nelle nostre menti. In questo caso ha forse ragione Hashizume quando vede in Ludwig Wittgenstein una ribellione nei confronti del pensiero occidentale (10). Non è del tutto avventato riconoscere nell'ultimo sviluppo del pensiero di Wittgenstein un abbandono della logica vero-funzionale in favore del gioco linguistico, delle somiglianze di famiglia e del seguire una regola (11).
Se dovessimo fornire una nostra visione dello sviluppo della filosofia giapponese, ci sembra di poter dire che i filosofi giapponesi siano partiti da quelle che sono state le mete conclusive della filosofia occidentale: rifiuto del principio di non-contraddizione (Hegel) e abbandono della logica vero-funzionale (Wittgenstein).
Ci rendiamo conto che affermare che il pensiero giapponese obbedisce ad altre leggi logiche è talmente dirompente da costituire una rivoluzione copernicana dell'odierno concetto di razionalità. Fino a oggi è stata un'idea comune che le leggi della logica fossero universali, e anche se la filosofia ha ampiamente dimostrato l'esistenza di logiche "altre", non si è considerato con troppo credito la possibilità che esseri umani utilizzassero logiche differenti (12).
Nessuno si è preoccupato di verificare le leggi logiche del pensiero umano tranne gli etnologi. Ma il fatto che il lavoro degli etnologi fosse condotto su popoli primitivi, ha fatto etichettare quel tipo di pensiero come pre-logico, ossia in una fase antecedente e dunque non ancora sviluppato. In questa maniera l'epistemologia ha volutamente ignorato dei risultati scientifici screditandoli (13).
Il caso giapponese è però differente. Nonostante si tenti di spiegare ancora il pensiero giapponese come il residuo di una mentalità tradizionale, ipotesi che ormai non regge più davanti all'evidenza, si sta dimostrando l'infondatezza di tutte le teorie che si limitano a definire la differenza come culturale. Noi affermiamo che esiste una razionalità giapponese con sue precise leggi e intendiamo anche individuarle.
Il problema della razionalità giapponese ha degli epigoni che non possono essere trascurati. Le alternative contemplate sono due. O quello che stiamo affermando è completamente infondato, e dunque stiamo raccontando la più grande frottola che sia mai stata sostenuta in un ambito scientifico (usando un'espressione in inglese: "the pie in the sky"). In tal caso andrebbe a nostro merito l'incredibile fantasia adoperata, e sarebbe quindi da cogliere l'opportunità al volo cambiando immediatamente professione, passando dalla filosofia alla novellistica.
Oppure abbiamo trovato un nodo cruciale che rimette in discussione il concetto ormai consolidato di razionalità. Capire quale delle due alternative sia quella corretta, è importantissimo da un punto di vista scientifico. Se ciò che stiamo sostenendo è sbagliato, significa che è più plausibile una forma logica del pensiero unica e universale. E questa sarebbe una conquista scientifica ragguardevole. Altrimenti dobbiamo constatare, dando ragione alla nostra tesi, che esiste una pluralità di logiche alla base dell'agire umano.
4.2 Sayonara al principio di non-contraddizione
Essendo il principio di non-contraddizione uno dei punti fondamentali della logica del pensiero occidentale, è naturale che sia anche uno dei più contestati. La critica più autorevole al principio di non-contraddizione nella filosofia contemporanea giapponese è stata esposta da Nishida Kitaro (1870-1945).
Il pensiero di Nishida non è un tentativo di elaborazione isolata della filosofia giapponese, ma al contrario, deve molto alla filosofia idealista tedesca, in particolare Hegel, Fichte, Schelling, Schleiermacher ma anche a Kant, Hume, Locke, Spinoza, Leibniz, Schopenhauer, Lotze e Hartmann (abbiamo documentazione certa nei diari e nella corrispondenza che ci testimoniano i suoi interessi) (14).
Si sa quanto Nishida fosse impegnato nello studio dei testi filosofici europei, tanto da essere diventata leggendaria la sua figura di studioso che trascorreva le notti immerso nella lettura. Non c'è quindi motivo di sorpresa se si trova in Nishida una ripresa di Hegel in opposizione al principio di non-contraddizione (15).
Per Nishida la contraddizione fa parte della dialettica della realtà. Essendo la contraddizione costitutiva dell'essere, non la si può considerare come un qualcosa a parte. La contraddizione non va esclusa dalla realtà, così come interpreta il senso comune, poiché è posta proprio al suo interno. Perciò Nishida prova un autentico senso di rifiuto nei confronti della contraddizione come presentata dalla tradizione occidentale. E come ha anche mostrato Löwith, abbiamo dovuto attendere Hegel e Nietzsche perché avvenisse un cambiamento profondo nel pensiero filosofico in Occidente.
Il fatto storico che per millenni la filosofia europea sia rimasta immutata nei suoi principi, non può passare inosservato. E anche la riflessione che queste forme del pensiero hanno finito per entrare nel pensiero comune occidentale. Questa sedimentazione è diventata talmente profonda e antica da passare inosservata. Infine si è creduto che certi pensieri fossero addirittura lo specchio della realtà.
Mentre in Occidente si era consolidata tale situazione, in Giappone la filosofia rivolgeva la sua attenzione su se stessa. Miki Kiyoshi, allievo di Nishida, è l'autore di un singolare testo filosofico intitolato Kosoryoku no ronri (16) (La logica del concepimento del pensiero) che analizza lo sviluppo delle idee nel mondo storico e la loro capacità di interagire con la realtà.
Dunque la resistenza del principio di non-contraddizione ha motivi più storici che logici-filosofici. Nishida era pienamente consapevole di ciò e decise di ricorrere a una terminologia che distinguesse la logica occidentale dalla logica giapponese. Egli coniò il termine toyoteki ronri, letteralmente "logica orientale". Qui non vi sono dubbi di traduzione poiché la parola ronri significa logica, e indica appunto la logica come intesa in Occidente, ossia lo studio delle condizioni del ragionamento corretto.
Nel pensiero di Nishida ci sono state diverse tappe di evoluzione. L'ultima è costituita dall'elaborazione di una "logica del luogo" (basho no ronri), alternativa alla logica tradizionale occidentale e rielaborazione del pensiero filosofico contemporaneo. La logica del luogo (basho no ronri) comporta anche "l'identità di contraddizioni" (mujunteki doitsu). Infatti, secondo Nishida l'uno e il molteplice sono soltanto due punti di vista della stessa realtà (17).
Egli parla anche di una determinazione lineare e di una determinazione circolare, anch'esse aspetti diversi di una stessa realtà. Nishida analizza la concezione dello spazio e del tempo. Il pensiero comune concepisce il tempo come lineare, esso va dal passato al futuro. Ma se il passato è quel che è stato, e il futuro è quel che deve venire, il presente, determinato dal passato e dal futuro, non ha senso.
Il presente non può essere determinato dal passato e dal futuro in questo modo. Ciò che conosciamo è soltanto l'attimo presente. Dunque, il presente, il passato e il futuro esistono simultaneamente. Siccome la simultaneità è la caratteristica dello spazio, secondo Nishida anche il tempo è spaziale. Quindi il tempo può essere determinato in due modi, l'uno lineare, rappresentato da una linea verticale, l'altro da uno spazio orizzontale, rappresentato da un cerchio che si chiude. "L'esterno è l'interno, l'interno è l'esterno, l'uno è il molteplice, il molteplice è l'uno" è l'affermazione che Nishida ritiene essenziale. Se per Kant, il tempo è il senso interno e lo spazio il senso esterno, allora, secondo Nishida, l'interno sarà la forma dentro il tempo e l'esterno la forma dentro lo spazio.
La logica del luogo propone un'alternativa alla concezione lineare del tempo considerando il tempo in modo spaziale e circolare. In questa maniera anche le operazione logiche sono stravolte. Il modus ponens, per esempio, implica una linearità che la logica di Nishida non concede con tanta facilità. Nishida non si fermerà a una valutazione epistemica, ma estenderà queste osservazioni a considerazioni storiche e sociali. L'opposizione individuo/società sarà riportata alla relazione interno ed esterno, dunque a una identità.
Come già si può vedere, l'abbandono del principio di contraddizione prevede un rifiuto del principio d'identità. Nel sistema filosofico di Nishida è molto chiaro nell'esposizione dell'identità contraddittoria che è impensabile senza rinunciare al principio d'identità. Vedremo specificamente nel prossimo paragrafo il rifiuto da parte della filosofia giapponese del principio di identità.
Dopo Nishida altri importanti filosofi giapponesi hanno seguito questa distinzione fra logica occidentale (in cui è tenuto il principio di non-contraddizione) e logica orientale (in cui non è accettato il principio di non-contraddizione). Miki Kiyoshi (1897-1945), allievo di Nishida, elaborò una logica speculativa molto originale. Partendo dagli studi su Pascal (18), e riconoscendo dunque la distinzione fra spirito de finesse e spirito de géométrie, Miki cercò di elaborare una logica alternativa alla logica della ragione che spiegasse la forza delle idee messe in opera nella formazione del mondo storico. Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero) (19) è l'opera più significativa che realizza questo intento filosofico di Miki.
Anche Tanabe Hajime (1885-1962) partì dalla logica nishidiana per criticare la logica occidentale. Ma la formazione iniziale di Tanabe è anche fortemente intrisa di interessi per la filosofia della scienza. Negli studi dedicati alla filosofia della scienza, come Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza) (20), egli dimostra di destreggiarsi abilmente nell'ambito dell'epistemologia. Ma come già accaduto per gli altri filosofi giapponesi, si accorge ben presto che la logica occidentale non è conciliabile con il pensiero giapponese.
Anche per Tanabe, come per Nishida, la contraddizione si risolve in una unità indissolubile. Ma Tanabe si distacca subito dalle soluzioni proposte da Nishida, ed elabora una sua logica alternativa. L'intento di Tanabe è chiaramente quello di opporsi alla soluzione nishidiana proponendone una nuova elaborazione.
Secondo Tanabe Hajime la filosofia deve fornire una mediazione fra la logica filosofica e l'irrazionalità della realtà. Non possiamo accontentarci di restare spettatori della contraddittorietà del mondo. Questa logica sarà la "dialettica della mediazione assoluta" (zettai baikai no benshoho). La "logica della specie" (shu no ronri) sviluppata da Tanabe si sostituisce alla "logica del luogo" di Nishida.
Secondo Tanabe, Nishida sbaglierebbe quando analizza l'individuale e l'universale senza considerare che fra questi c'è la mediazione della specie (shu). Tanabe ritiene di aver corretto la logica di Nishida, ma continua a ritenersi un continuatore del filosofo di Kamakura. Tanabe attraverso la "logica della specie" perviene a una definizione storico-politica dello stato che sarebbe mediatore fra l'universale, l'individuale e la cultura.
Così Tanabe crede di aver dato concretezza alla logica di Nishida che rischiava di restare troppo astratta. Ma gli eventi del conflitto mondiale colpiranno profondamente Tanabe che sottoporrà il suo sistema a una revisione. Egli ritiene di aver dato troppa importanza allo stato nazionale, dimenticando i punti di partenza.
Anche in Shu no ronri no bensho (La dialettica della logica della specie) (21) sono espressi questi ripensamenti. Nella sua autocritica, Tanabe affermerà che la sua logica era eccessivamente permeata del principio di identità, trascurando la relativizzazione di ogni prospettiva (ciò che Nishida aveva fatto in modo superbo).
Perciò egli approderà con Zangedo toshite no tetsugaku (Filosofia come penitenza) (22) a una filosofia che indica i limiti della ragione rispetto all'esistenza. In quest'opera, Tanabe indica il male come una assolutizzazione della prospettiva dell'individuo. Invece, vedere e riconoscere le diversità sarebbe l'atto di libertà che permetterebbe la serena esistenza dell'essere umano.
La vicenda filosofica di Tanabe è dunque travagliata. Partita dagli studi sulla scienza termina in una riflessione esistenziale. Egli però ci lascia un sistema che ammette una logica alternativa e le implicazioni etiche e storiche che ne derivano.
Anche Takahashi Satomi (1886-1964), autore di un saggio su Edmund Husserl(23) e traduttore di Henri Bergson(24), si è occupato della logica giapponese. Takahashi riconosceva diversi sistemi dialettici e ne tentò una sintesi. I risultati sono raccolti nella sua opera dedicata a questo problema specifico: Ho benshoho (La dialettica avvolgente)(25). La dialettica di Takahashi Satomi ingloba la dialettica hegeliana, la dialettica nishidiana, ma anche la logica formale, in un tentativo audace e inusitato di sintesi. Così come espresso dal suo nome, "dialettica avvolgente" comprende tutte le dialettiche elaborate dalle filosofie occidentali e orientali.
La proposta di Watsuji Tetsuro (1889-1960) è ancora più originale(26). Egli afferma in Fudo: ningengakuteki kosatu (Il clima: analisi della natura umana) che esiste uno stretto rapporto fra la natura e il carattere umano. L'influenza dei diversi climi porterebbe alla formazione di culture diverse (27). Watsuji riconosce un clima del tifone, un clima del deserto, un clima della prateria che corrispondono alle culture estremo-orientale, medio-orientale e occidentale.
La fine sensibilità e passionalità, il senso di rassegnazione nei confronti destino, la dignità, la tenacia del giapponese sono comprensibili, secondo Watsuji, attraverso l'influenza del clima del tifone. Watsuji, comunque, non tralascia di dire che l'esistenza umana è influenzata anche fortemente dalle relazioni sociali. Il pensiero di Watsuji, scaturisce quindi in un sistema filosofico che determina l'uomo come prodotto di due forze, una naturale e l'altra sociale. In questo sistema, come in quello di Miki, le leggi del pensiero sono il prodotto di processi ambientali, storici e sociali. Quindi i principi della logica non sono considerati come assoluti e indipendenti dalla realtà.
Anche Mutai Risaku (1890-1974) ha cercato di costruire una logica per il pensiero orientale. Partito dall'intenzione di elaborare una logica per il pensiero di Nishida (28), Mutai si accorse dell'ampiezza del suo lavoro e delle implicazioni che ne derivavano. Mutai critica l'opinione che la logica occidentale rappresenti la forma più corretta del pensiero (29). Secondo Mutai, la logica occidentale è semplicemente una costruzione che è congeniale al modo di pensare degli occidentali. A questa Mutai oppone una logica dell'intuizione. In un altro paragrafo vedremo nei particolari cosa si intende per logica dell'intuizione. Anche Nishida aveva parlato spesso di intuizione, e così anche gli altri filosofi giapponesi.
Cercheremo di fornire una spiegazione di ciò in termini più formali e meno legati al discorso della filosofia giapponese, così da evitare al lettore uno studio approfondito della secolare tradizione filosofica giapponese.
In questo capitolo abbiamo mostrato le posizioni di alcuni filosofi giapponesi sulla questione della forma logica. Secondo questi autori non esiste una "logica universale". E sicuramente essa non è quella elaborata e proposta in Europa e America. La logica occidentale è soltanto una fra le tante possibili forme della logica.
4.3 Il frutto proibito del principio di identità
Per usare un'immagine biblica, la filosofia occidentale ha mangiato il frutto proibito del principio di identità. Ma la filosofia orientale non è occorsa in questo incidente. Per essere precisi, l'accettazione del principio di identità che afferma che ogni cosa è uguale a se stessa, non è stato accettato con tanta ovvietà nemmeno in Occidente, finché non è stato, per l'appunto, morso il frutto proibito. E con ciò, l'uomo cacciato dall'Eden ha creduto di aver acquisito la conoscenza.
Prima di questo incidente, la condizione della filosofia era differente. Eraclito sosteneva che non si potesse nuotare due volte nello stesso fiume e anche le posizioni di molti sofisti, quali Gorgia, Protagora, Zenone, si rifacevano a un relativismo che sembra non ammettere il principio d'identità. Con Socrate, Platone e Aristotele, un terzetto senza dubbio invidiabile, la musica cambiò radicalmente. Socrate insisteva sulla precisione delle definizioni e ricorreva a stringenti confutazioni che non permettevano di evadere il principio di identità.
Platone collegò gli enti materiali alle idee, fissando stabilmente la loro identità. Aristotele costruì una logica che fissava il principio di identità e altre regole che non potevano farne a meno.
Ma l'inizio del XX secolo ha visto rimettere in discussione il principio di identità da Ludwig Wittgenstein. Il fatto che si è dovuto aspettare un paio di millenni prima di criticare il principio di identità è abbastanza sconcertante. Ma si può comprendere la situazione se si apprezzano le capacità intellettuali del terzetto terribile composto da Socrate, Platone e Aristotele. Pensare liberamente senza l'influsso del prodigioso terzetto è stato abbastanza difficile per gli occidentali. E lo è tuttora.
Wittgenstein si è posto in una condizione molto semplice: prima di mordere il frutto proibito, dovremmo sapere che cosa stiamo per mangiare. Cos'è realmente il principio di identità? Wittgenstein afferma che è qualcosa di superfluo.
"Che l'identità non sia una relazione fra oggetti è evidente. [...] La definizione, data da Russell di " = " non basta; infatti, secondo essa, non si può dire che due oggetti abbiano in comune tutte le proprietà. [...] Detto approssimativamente: dire di due cose, che esse siano identiche, è un nonsenso; e dire di una cosa che essa sia identica a se stessa, non dice nulla. [...] Il segno d'equivalenza non è dunque parte costitutiva essenziale dell'ideografia." (30)
Con il Tractatus, Wittgenstein ricacciava fuori dalla logica formale il principio di identità. Ovviamente i logici occidentali si sono affrettati nel cercare di dimostrare che Wittgeinstein stesse soltanto scherzando. Quindi si è pervenuti a diverse neutralizzazioni, ma non tutte con la stessa portata e uguali risvolti. Le posizioni sono molto differenziate e corrispondono all'odierno panorama filosofico.
La situazione storica che vede una molteplicità di correnti è dovuta appunto a non aver saputo fornire una risposta unitaria ai problemi logici sollevati all'inizio del XX secolo. Certamente il principio di identità richiede anche una capacità di astrazione che rende assoluto, e quindi separato dalla realtà, un aspetto del mondo fenomenico. Ma è difficile sostenere che esisti una realtà immutabile e che qualcosa resti assolutamente immodificabile. Perciò, nel tentativo di costruire con il Tractatus una logica che fosse immagine del mondo, Wittgenstein conclude che il principio di identità non ha ragione d'essere. Inoltre, questi problemi filosofici hanno delle ripercussioni religiose non indifferenti.
Gli occidentali hanno sempre avuto un pessimo rapporto con l'idea della morte. Il fatto che non accettino con facilità la propria natura transitoria è indice di una concezione dell'esistenza immutabile. L'insistenza sull'attesa di una vita ultraterrena perfetta è stata dunque la ripercussione di tale concezione.
Le religioni orientali ricorrono invece all'immagine della reincarnazione (in giapponese tensei) per indicare il continuo mutamento dell'esistenza. Per un occidentale è ancora difficile rinunciare alla sua identità e ammettere la vanità della propria personalità.
Queste osservazioni ci mostrano l'efficacia del metodo di Weber. Le credenze non sono soltanto un apparato accessorio, ma la manifestazione dei meccanismi di forme diverse di pensiero. Se riusciamo a ricondurre gli atteggiamenti e l'agire sociale a un modello di pensiero abbiamo afferrato ("compreso" direbbe Weber) la razionalità di quel sistema sociale.
Come indicato dai filosofi giapponesi, scegliere un principio logico come quello dell'identità non è solo un problema formale, le implicazioni sono storiche e sociali. Perciò in Giappone si è teorizzato con la filosofia contemporanea un diverso sistema logico. Da questa elaborazione dipendeva l'esistenza stessa del sistema culturale e sociale giapponese.
Difendere la specificità del pensiero giapponese è stato il più grande risultato raggiunto dalla filosofia giapponese nel XX secolo.
Quando si può affermare la propria indipendenza intellettuale, tutti gli attacchi alla propria identità culturale sono vani.
4.4 La rigidità del principio di non-contraddizione
Blaise Pascal è un pensatore a torto trascurato, essendogli riservato spesso uno spazio limitato nei manuali di filosofia. In Giappone, invece, è stato al centro di importanti studi da parte di Miki Kiyoshi che lo riteneva un autore fondamentale (31).
Questa osservazione preliminare è necessaria per far comprendere l'esistenza di un filone di studi sulla filosofia occidentale che sono completamente ignorati in Europa e in America. Esiste una storia della filosofia ancora sconosciuta che attende soltanto di essere portata alla luce.
Forse abbiamo dato per scontato ciò che non lo è. Non si può dire che la storia della filosofia sia completa finché non sarà integrata dall'opera degli studiosi giapponesi.
Come abbiamo detto in precedenza, Pascal è un filosofo trascurato, e molto spesso si dimentica quanto fosse radicato in lui lo spirito del matematico e del logico. Così molte delle sue affermazioni vengono lette solo dal punto di vista religioso.
In questo modo è sfuggita alla maggior parte degli interpreti una affermazione di Pascal che non riguardava esclusivamente la morale, ma era un'autentica critica del principio di non-contraddizione.
"Contraddizione è un cattivo marchio di verità. Molte cose certe sono contraddette. Molte false passano senza contraddizione. Né la contraddizione è marchio di falsità né la non contraddizione è marchio di verità." (32)
Un altro pensiero riguarda ancora la falsità:
"Immaginazione. È la parte dominante dell'uomo, questa maestra d'errore e di falsità, e tanto più traditrice che non sempre lo è, poiché sarebbe regola infallibile di verità, se lo fosse infallibile di menzogna." (33)
Il secondo di questi pensieri è la soluzione tout court del paradosso del mentitore che ha ossessionato generazioni di logici fino a giungere alle forme più sofisticate proposte da Bertrand Russell (34).
Pascal afferma con forza che la contraddizione non permette di determinare la verità. Non si può affermare che una proposizione sia falsa perché contraddittoria, e viceversa vera perché non contraddittoria. Sembra anche che Pascal non accetti l'uso dell'operatore logico della negazione come ci è insegnato dalla tradizione.
Dunque la negazione di una verità non sarebbe sempre una falsità e viceversa. Se sembra strano che la negazione di una proposizione non fornisca il valore di verità inverso, è il caso di riflettere un po' con qualche esempio.
Esiste un buffo modo di presentare un caso di ambiguità dicendo che "un bicchiere è mezzo vuoto" o "un bicchiere è mezzo pieno". Apparentemente i due enunciati esprimono concetti opposti, ma in realtà descrivono l'identico fenomeno fisico. Usando questo esempio possiamo costruire due proposizioni: "Il bicchiere non è mezzo vuoto, è mezzo pieno" e "Il bicchiere non è mezzo pieno, è mezzo vuoto".
Si tratta di un'ambiguità che non permette un giudizio univoco. Si potrebbe dire che sono entrambe vere? Ma c'è da notare che la seconda è la negazione perfetta della prima. In questo caso non sempre la negazione di un proposizione fornisce un valore di verità inverso. E non si può dire che esistano sempre situazioni in cui determinare il valore di verità sia ovvio.
La vita concreta offre più spesso situazioni intermedie e quasi mai degli estremi. Affrontare la realtà vedendo le cose in due soli modi, bianco o nero, è alquanto pericoloso e irrealistico. La logica usa un criterio binario della verità, ma gli esseri umani sono costretti a usare strutture logiche ben meno rigide.
Il secondo esempio è il più eloquente ed è quello del paradosso del mentitore: "Io sono un mentitore". Questa affermazione è vera o falsa? Se usiamo una struttura rigida della verità cadiamo nel paradosso. Ma se ascoltiamo il suggerimento di Pascal, considerando che non sempre la menzogna è menzognera altrimenti sarebbe regola infallibile di verità, il paradosso svanisce.
E così appare la realtà concreta: siamo davanti alla confessione di un bugiardo oppure allo scherzo di un onesto. Come ci indica anche John McDowell (35), la soluzione si trova nel contesto e non nella frase. Non c'è alcun paradosso se si scelgono bene i criteri di giudizio.
Oggi possiamo formalizzare queste osservazioni di Pascal, cosa che non era possibile ai suoi tempi. Se allora consideriamo senza indugio queste indicazioni, non accettando l'operatore di negazione come funzione inversa, ne ricaviamo quattro tavole di verità che corrispondono ai vari mondi possibili (36).
p ~ p
------
V F V
F V F
p ~ p
------
V V V
F F F
p ~ p
------
V V V
F V F
p ~ p
------
V F V
F F F
Utilizzando queste tabelle per l'operatore di negazione insieme al connettivo della congiunzione si ricava:
p ^ ~ p
-------
V F F V
F F V F
p ^ ~ p
-------
V V V V
F F F F
p ^ ~ p
-------
V V V V
F F V F
p ^ ~ p
-------
V F F V
F F F F
La prima tabella corrisponde al principio di non-contraddizione classico, le altre tre alle conseguenze della logica pascaliana. Come ci dice Pascal, la contraddizione non sarebbe "marchio di falsità" (marque de fausseté) e la non-contraddizione "marchio di verità" (marque de vérité). Seguendo le tavole derivate dall'osservazione di Pascal si ricava che con il connettivo della congiunzione una verità può anche essere contraddetta, mentre la falsità è sempre contraddetta. Dinanzi alla contraddizione non sappiamo se ci troviamo in presenza di una verità o di una falsità, anche se le probabilità che sia una falsità sono più alte. Che Pascal volesse suggerire una visione probabilistica della verità non è una supposizione infondata se si considera l'argomento della scommessa e tutti i suoi studi inerenti. In conclusione la verità non può essere dedotta tramite la contraddizione che può parlarci solo della falsità.
Un esempio può mostrare la validità della logica pascaliana. Cercheremo anche di essere fedeli alla spiegazione del filosofo francese che abbiamo prima riportato. Vediamo che accade con la deduzione: "Il pesce ha le pinne e vive nell'acqua", "Il delfino ha le pinne e vive nell'acqua", "Il delfino è un pesce".
In queste proposizioni la prima e la seconda sono vere, ma anche la terza è vera secondo la logica, mentre è falsa secondo la realtà. Se assumiamo la logica tradizionale commettiamo una deduzione sbagliata perché tentiamo di evitare la contraddizione (il delfino ha le pinne e vive nell'acqua, ma non è un pesce), ritenendo che la contraddizione sia nemica della verità.
Soltanto un uso non rigido della negazione e del principio di non-contraddizione, così come indicato da Blaise Pascal, ci permette una conoscenza non fallace. Infatti la logica pascaliana ammette la contraddizione là dove non è consentita dalla logica tradizionale. In tal caso la logica pascaliana è più vicina alla realtà.
La logica tradizionale aveva invece fornito una formulazione della contraddizione che era troppo orientata all'esclusione. E fu talmente tanto esclusiva che il principio di non-contraddizione fu considerato insufficiente e accostato dal principio del terzo escluso.
Ovviamente, come sanno bene i logici, si è tentato di risolvere questi problemi con un uso più attento dei quantificatori. Ma tutto ciò ha finito per complicare la situazione con i risvolti descritti ampiamente nei manuali di storia della logica. I quantificatori possono essere usati correttamente se abbiamo una conoscenza perfetta degli insiemi su cui stiamo operando. Ma nei confronti della realtà noi non abbiamo una conoscenza completa degli elementi che la compongono. Cercare di salvaguardare la logica dandole uno statuto assoluto che la ponesse in un mondo separato da quello reale non è stata una soluzione soddisfacente. Che scopo avrebbe una scienza che non abbia alcun rapporto con la realtà? La matematica e la geometria hanno avuto nascita e sviluppo da esigenze molto concrete. Difficilmente si può accettare di chiamare scienza ciò che si distacca dalla realtà. Si è mai visto qualcosa che è conoscenza di ciò che non è nella realtà?
Ma cosa ha a che fare tutto ciò con il modo di ragionare dei giapponesi? Qui abbiamo voluto formalizzare ciò che adesso vedremo descritto in termini più discorsivi. Questa premessa era necessaria perché il livello di complessità a cui ci stiamo accostando è sempre maggiore e abbiamo bisogno di strumenti logici sempre più affinati per afferrare la razionalità giapponese.
Avevamo detto anche nell'introduzione che studiare il problema della diversità giapponese avrebbe comportato la rimessa in discussione del concetto di razionalità. E finora abbiamo rispettato quanto detto.
4.5 La forma giapponese della verità
Nel compiere la nostra esplorazione avventurosa, abbiamo spesso la fortuna di incontrare altri viaggiatori che ci fanno doni preziosi. Questa volta spetta a Karl Löwith. Nel 1936 il filosofo tedesco Karl Löwith, per sfuggire alle persecuzioni razziali, soggiornò in Giappone, dove insegnò all'Università di Sendai fino al 1941, anno in cui il Giappone entrò in guerra.
Questa esperienza di Löwith non fu marginale, ma influenzò non poco la sua concezione della storia della filosofia, soprattutto nella sua critica all'impostazione teologica ebraico-cristiana. Ciò gli fu possibile grazie all'esperienza in Giappone che gli aveva permesso di vedere la filosofia occidentale in modo distaccato e diverso.
Löwith fu un attento osservatore del mondo giapponese e scrisse interessanti saggi sulla mentalità dei giapponesi, attualmente riordinati e pubblicati in maniera più unitaria (37).
Löwith afferma che la verità giapponese non coincide con la verità occidentale. Ma soprattutto è l'uso che si fa del concetto di verità che è totalmente diverso. "In Giappone, comunque, la gentilezza - o meglio una bugia convenzionale - è il criterio di ciò che chiamiamo verità", ci spiega Löwith (38).
Egli aggiunge che i giapponesi sono "incapaci di rispondere in modo adeguato a domande che per loro sono troppo dirette e insistenti". Perciò la verità diventa qualcosa che è contrattato: "Che la verità si debba esprimere in modo franco rispecchiando un'opinione personale, è agli occhi del giapponese un segno di rozzezza e egoismo, perché non tiene in minimo conto i sentimenti dell'altro. Una verità negoziata in modo socievole, agevola un'atmosfera di reciprocità nel tacito accordo sulle regole del gioco".
Ma soprattutto Löwith ci indica con chiarezza cos'è la verità per i giapponesi: "Per loro la verità è una cosa tutta pragmatica, che può essere modificata a seconda della situazione concreta".
Löwith ci fornisce una definizione del concetto di verità giapponese davvero pregnante che diventa essenziale per il nostro modello di comprensione del pensiero giapponese. La verità occidentale si basa su una adaequatio rei et intellectus, un confronto e paragone con la realtà, mentre la verità giapponese è in relazione con la comunità degli individui in cui essa è condivisa. Il rapporto è completamente diverso.
Verità occidentale
Adeguatezza alla realtà
La verità è una sola
La verità è esterna al soggetto
Il criterio di giudizio è in rapporto ai fatti
Verità giapponese
Uso strumentale
Le verità sono molteplici
La verità è interna al soggetto
Il criterio di giudizio è in rapporto alla comunità
La verità giapponese non può usare il criterio della adaequatio rei et intellectus perché, come abbiamo visto in precedenza, non esiste una concezione della realtà come quella occidentale. La realtà del giapponese è la sua anima e il suo sentire, non altro.
Non esistendo una realtà oggettiva, non può esistere una verità oggettiva. Perciò la verità è qualcosa che è contrattato. Il risultato è una concezione relativistica della verità.
Questa concezione del relativismo della verità ha avuto un'esposizione artistica nel celeberrimo film Rashomon di Kurosawa Akira (39). Kurosawa mise in scena alcuni episodi tratti dall'omonimo libro di Akutagawa Ryunosuke (40). Uno di questi episodi è quello del racconto intitolato Yabu no naka (Nella boscaglia).
In un bosco è stato trovato il cadavere di un samurai, e per il delitto sono processati il bandito Tajomaru e la moglie del samurai. Essi sono interrogati. Il bandito dice di aver aggredito la coppia e di aver legato il samurai. Dopo aver avuto un amplesso con la donna, fu ella a suggerirgli di uccidere l'uomo e di scappare insieme. La moglie del samurai afferma invece che dopo essere stata violata, il marito la guardava con disprezzo. Ella lo uccise per punirlo. Ma attraverso una sciamana viene interrogato anche lo spirito del samurai. Il samurai dice di essersi ucciso per disperazione e per riscattare l'onore perso dopo aver visto la donna mettersi d'accordo con il bandito. Chi mente? Dov'è la verità nei tre racconti? La morale di questa vicenda è che "ricordiamo solo quello che ci fa comodo, e ci abbellisce agli occhi degli altri" (41).
Questo film di Kurosawa ebbe un enorme successo, tanto da essere premiato con il Leone d'oro nel settembre 1951. Per noi ha un immenso valore perché è la rappresentazione artistica del concetto di verità giapponese descritto da Löwith. Forse questa è la prima volta che si usa un film come documentazione di un trattato filosofico, ma noi siamo figli dei nostri tempi e sappiamo quanto sia forte l'influenza della cinematografia nella nostra epoca.
4.6 Uso della negazione nella lingua giapponese
Non sempre una negazione porta a un valore di verità contrario. Sarebbe forse sorprendente se si ritrovasse questo aspetto nella lingua giapponese? In effetti le cose stanno proprio così. La negazione nella lingua giapponese non è così forte come nelle lingue occidentali. Questo appare evidente, per esempio, nell'uso delle espressioni "mi piace" e "non mi piace".
Nel giapponese esistono due verbi: suki (essere piacevole) e kirai (essere sgradevole). Ma la negazione di suki non corrisponde pienamente a kirai.
Dire "ringo ga suki dewanai" (Non mi piacciono le mele) non significa che le mele sono sgradite, ma semplicemente che non sono fra la frutta preferita (quella che piace). Quindi è molto probabile che l'interlocutore mangi tranquillamente le mele. Mentre dire "ringo ga kirai da" (le mele mi sono sgradite), significa rifiutare le mele e quindi non mangiarle.
Queste differenze iniziano a diventare grandi in una conversazione reale, quando si esprimono i propri pensieri. I giapponesi si sorprendono apprendendo che in italiano "non piacere" (suki dewanai) corrisponde a "sgradire" (kirai da).
Formalizziamo anche questo aspetto del pensiero giapponese utilizzando suki e kirai.
Espressione Giudizio
suki da (+ + +)
suki dewanai (+ / -)
kirai dewanai (- / +)
kirai da ( - - -)
Con "suki da" si intende un preferenza per quella cosa, con "suki dewanai" che non c'è una preferenza, con "kirai dewanai" che non è sgradita, infine con "kirai da" che ci è sgradita. Queste quattro espressioni sono fra loro molto differenti secondo i giapponesi.
Come nella formalizzazione della logica di Pascal, otteniamo anche qui uno schema con quattro uscite. Il fatto che si ripeta questo "quadruplice sentiero" non è occasionale, ma ha una ragione interna. Non accettando la negazione come l'operatore che fornisce il valore inverso di quello dato, si finisce per sdoppiare i valori di verità di una proposizione che nella logica tradizionale potevano essere solo due.
Quello che può sorprendere è invece la corrispondenza fra logica pascaliana e lingua giapponese. Löwith diceva che la verità giapponese è pragmatica, quindi non dobbiamo stupirci se la forma logica che essa assume è quella quadruplice e non quella binaria della logica tradizionale e classica (che ha avuto il massimo sviluppo con la logica booleana).
Che la negazione non sia usata come nelle lingue occidentali ci è indicato anche da altri studiosi. Come segnalato dallo psicologo Paul Watzlawick(42), il pensiero occidentale ha una tendenza al ragionamento per negazioni (es.: se non è così, allora...), cosa che non avviene con frequenza nel pensiero giapponese(43).
4.7 Il principio dell'ombra
Finora abbiamo esposto quello che il pensiero giapponese non è, esponendo le diversità dal pensiero occidentale. Adesso possiamo dire anche quel che è. Eliminati il principio di identità e il principio di non-contraddizione, dobbiamo necessariamente trovare altri principi che siano alla base della logica giapponese. La ricerca non è difficile, considerando che i filosofi giapponesi hanno dedicato tutti i loro sforzi per individuare questi principi.
Come abbiamo visto in precedenza, Nishida, Tanabe e Mutai hanno fatto riferimento a una certa "logica dell'intuizione". Noi preferiamo usare un approccio sociologico alla teoria della comunicazione per chiarire con la massima scientificità ciò che potrebbe apparire oscuro utilizzando il linguaggio di questi autori.
Quindi useremo una definizione alternativa da quella fornita dai filosofi giapponesi. Ciò non perché vi sia una diversità, ma per semplici motivi di esposizione e semplificazione. Perciò faremo riferiamo alla nozione di "conoscenza tacita".
La nozione di "conoscenza tacita" è stata elaborata in etnologia e sociologia per indicare l'insieme di conoscenze e credenze condivise da una comunità che vengono usate implicitamente, senza una precedente esposizione delle regole. Le teorie sociologiche che fanno riferimento all'interazionismo simbolico hanno permesso di elaborare un modello alternativo a quello normativo (per es. Durkheim).
In questi modelli non esiste un sistema di regole, valori, status, ruoli che guiderebbero l'agire dell'individuo, ma esso nascerebbe dall'autointerazione (44). Tutti i modelli sociologici più recenti hanno messo in dubbio l'esistenza di un sistema di regole esplicito che guiderebbe l'azione dell'individuo. Detto ciò risulta più semplice comprendere la nozione di conoscenza tacita.
Si è sempre detto che il carattere orientale è quello di nascondere le cose rendendosi così misterioso e imperscrutabile. In proposito esiste un'importante opera che descrive minuziosamente questa caratteristica giapponese.
Si tratta del libro di Tanizaki Jun'ichiro intitolato In'ei raisan (Elogio dell'ombra) (45). Secondo Tanizaki tutta la sensibilità ed espressività giapponese nasce nell'ombra, ossia nel nascondere.
Questo principio dell'ombra può essere riportato all'interno del discorso sulla forma logica del pensiero giapponese. Soltanto il principio dell'ombra può spiegare i meccanismi di ragionamento privi del principio di identità e di non-contraddizione che abbiamo prima esposto.
Infatti principio d'ombra, da una parte, e principi d'identità e di non contraddizione, dall'altra, sono due sentieri divergenti. I principi della forma logica giapponese sono inconciliabili con i principi occidentali. Esiste veramente una logica alternativa del pensiero orientale.
I filosofi giapponesi hanno continuamente ripetuto e insistito sull'esistenza di una conoscenza intuitiva. Purtroppo è mancato un linguaggio filosofico che rendesse comprensibile questa nozione evanescente di conoscenza tacita. Oggi sono a nostra disposizione strumenti e teorie della comunicazione che ci permettono di riprendere e rendere accessibili le nozioni che risultavano sfuggevoli ai filosofi giapponesi.
In questo capitolo abbiamo dimostrato che esiste una logica alternativa alla logica occidentale. Questa rifiuta la regola di negazione, il principio di identità e il principio di non-contraddizione. A questi principi si sostituisce un principio intuitivo, il principio dell'ombra, che permette la formulazione di giudizi tramite l'interazione con la realtà.
La nozione di verità giapponese elaborata da Löwith ha fornito una spiegazione più chiara del principio d'ombra e come vengano formulati concretamente i giudizi nel pensiero giapponese. Tutto ciò sembra indicare non solo che esiste una forma di razionalità giapponese, ma che questa fonda talmente l'intero sistema cognitivo da avere leggi logiche proprie.
Note
1. Riguardo alla posizione di Davidson si legga: Davidson, D., Inquieres into truth and interpretation, Oxford University Press, Oxford, 1984. (trad. it. Davidson, D., Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994). Per la nozione di "schema concettuale": Davidson, D., On the very idea of a conceptual scheme, in "Proceedings of the American Philosophical Association", n. 47, 1974, pp. 5-20 (trad. it. Davidson, D., La svolta relativistica nell'epistemologia contemporanea, Franco Angeli, Milano,1988, pp. 151-167). In giapponese si può consultare il volume curato da Hattori Hiroyuki e Shibata Masayoshi: Davidson, D., Koi to dekigoto, Keiso Shobo, Tokyo, 1990. Esiste anche un commento a quest'opera di Davidson: Kashiwabata, Tatsuya, Koi to dekigoto no sonzairon, Keiso Shobo, Tokyo, 1997.
2. Moritomo, Tetsuro, Nihongo omote to ura, Shinchosha, Tokyo, 1985.
3. Ricordiamo che anche Habermas ha fornito una straordinaria elaborazione della teoria di Weber, ma l'epistemologia non ha ben recepito il suo lavoro: Habermas, Jürgen, Teoria dell'agire comunicativo, Il Mulino, Bologna, 1985.
4. Cfr. Franco Ferrarotti nella prefazione alla seconda edizione di Weber, Max, Sociologia delle religioni, UTET, Torino, 1988, pp. 7-11.
5. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967, pp. 9-10 e pp. 102-117.
6. Austin, John L., Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1987, pp. 7-32.
7. Rorty, Richard, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano, 1986, pp. 39-51 (trad. giapp. a cura di Yuroi Hisashi: Rorty, Richard, Tetsugaku no datsuochiku: puragumatizumu no kiketsu, Ochanomizu Shobo, Tokyo, 1985).
8. Rorty, Richard, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano, 1986, p. 51.
9. Le opere in lingue occidentali dedicate alla storia della filosofia giapponese sono davvero poche. Consigliamo per la filosofia giapponese contemporanea: Piovesana, G. K., Recent japanese philosophical thought 1862-1962. A survey, Enderle Bookstore, Tokyo, 1963 (trad. it. Piovesana, G. K., Filosofia giapponese contemporanea, Patron, Bologna, 1968), Oe, S., "Japan", in Les grands courants de la pensée mondiale contemporaine, Marzorati, Milano, 2 voll., 1959, pp. 935-963. Per quanto riguarda la filosofia giapponese antica è invece sufficiente consultare i testi dedicati allo zen, per esempio: Hisamatsu, Shin'ichi, La pienezza del nulla, Il Melangolo, Genova, 1993. Ovviamente i testi in giapponese sono invece numerosissimi, qui ricordiamo Yura, Tetsuji, Tetsugakushisojiten, Fuji Shoten, Tokyo, 1948.
10. Hashizume, Daisaburo, Bukkyo no gensetsu senryaku, in "Gendaishiso", numero speciale, voll. 13-14, pp. 272-291, Seidosha, Tokyo, 1985.
11. Sono tanti i testi che presentano le affinità fra il pensiero di Wittgestein e lo zen, si veda: "Wittgenstein and zen" in Canfield, John V., The philosophy of Wittgenstein, "Elective affinities", Vol. 15, Garland Publishing, 186, pp. 383-408 e Wiehnpahl, Paul, Zen and work of Wittgenstein, in "Chicago Review", Vol. 12, n. 2, 1958, pp. 67-72.
12. Per le logiche devianti si consulti Marsonet, Michele, Introduzione alle logiche polivalenti, Abete, Roma, 1976.
13. Soltanto Feyerabend ha insistito sulla pluralità dei diversi tipi di razionalità. In proposito si legga Marsonet, Michele, Scienza e analisi linguistica, Feltrinelli, Milano, 1994, p. 45.
14. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu bekkan 1, Nikki, Iwanami Shoten, Tokyo, 1951, p. 4.
15. Sul valore della dialettica hegeliana da un punto di vista logico si legga Marsonet, Michele, Logica e linguaggio, Pantograf, Genova, 1993, p. 59.
16. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946 .
17. Cfr. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1949, vol. 7, p. 204 e vol. 1, p. 86.
18. Miki, Kiyoshi, Pascal ni okeru ningen no kenkyu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1980.
19. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.
20. Tanabe, Hajime, Kagaku gairon, Iwanami Shoten, Tokyo, 1918.
21. Si consulti Tanabe, Hajime, Tanabe Hajime zenshu, Chikuma Shobo, Tokyo, 1976.
22. Tanabe, Hajime, Zangedo toshite no tesugaku, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.
23. Takahashi, Satomi, Husserl no genshogaku, Nipponsha, Tokyo, 1931.
24. Bergson, Henri, Busshitsu to kioku, Iwanami Shoten, Tokyo, 1936.
25. Takahashi, Satomi, Ho benshoho, Risosha, Tokyo, 1947.
26. Watsuji, Tetsuro, Watsuji Tetsuro zenshu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1992.
27. Watsuji, Tetsuro, Fudo: ningengakuteki kosatu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1979.
28. Mutai, Risaku, Basho no ronrigaku, Kobundo, Tokyo, 1944.
29. Mutai, Risaku, Shisaku to kansatsu, Keiso Shobo, Tokyo, 1971.
30. Si tratta dei paragrafi 5.5301, 5.5302, 5.5303 e 5.533 del Tractatus logico-philosophicus. Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1989, pp. 120-123.
31. Miki, Kiyoshi, Pascal ni okeru ningen no kenkyu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1980.
32. Pascal, Blaise, Frammenti, Rizzoli, Milano,1983, p. 242. Corrispondono ai pensieri nel catalogo Brunschvicg n. 384 e nel catalogo Lafuma n. 177.
33. Ibidem, p. 121. Catalogo Brunschvicg n. 82 e nel catalogo Lafuma n. 44.
34. Il problema dell'antinomia di Russell fu di importanza capitale per la scienza. Esso mise in crisi il progetto di Frege che tentava di fondare la matematica tramite la logica. E di conseguenza minò anche il tentativo di Hilbert per un programma che formalizzasse le teorie matematiche. Russell cercò di proporre una soluzione all'antinomia con la teoria dei tipi. Infatti l'antinomia russelliana nasce, come egli stesso spiega, da un problema di insiemistica. Russell stimava il lavoro di Cantor sulla teoria degli insiemi, e cercò una soluzione al suo interno, così come dimostra la teoria dei tipi. La nostra soluzione invece si basa sulla non accettazione dei pincipi di identità e non contraddizione. Crf. Russell, Bertrand, I principi della matematica, Longanesi, Milano,1951, pp. 713-721.
35. In questi ultimi anni, John McDowell ha insistito molto sul principio di contestualità rielaborando a suo modo alcune proposte kantiane. In proposito si consulti la seguente relazione: Bezante, Alessandro e Martorella, Cristiano, Sul saggio di McDowell "De re senses", Corso di Filosofia del linguaggio (docente Carlo Penco), Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Genova, A.A. 1998-1999. Le proposte di McDowell sono molto interessanti e originali discutendo anche le idee di Evans e Burge. Si legga McDowell, John, Mind and world, Harvard University Press, Cambridge, 1996 (trad. it. McDowell, John, Mente e mondo, Einaudi, Torino, 1999); Evans, Gareth e McDowell, John, Truth and meaning, Clarendon Press, Oxford, 1976; Evans, Gareth e McDowell, John, The varities of reference. Clarendon Press, Oxford, 1982.
36. Abbiamo scelto di formalizzare attraverso le tavole di verità per rendere più evidente le funzioni che si ottengono eliminando la regola della negazione, il principio di identità e il principio di non contraddizione. Si è scelto di ignorare altre proposte di logiche devianti, come quella molto elegante elaborata da Lukasiewicz, per cercare di essere fedeli ai suggerimenti di Pascal.
37. Löwith, Karl, Scritti sul Giappone, Rubettino, Soveria Mannelli, 1995.
38. Ibidem, p. 27.
39. Kurosawa, Akira, L'ultimo samurai, Baldini & Castoldi, Milano, 1995 pp. 307-308.
40. Akutagawa, Ryunosuke, Rashomon, Hanada Bunka, Taipei, 1995.
41. Kurosawa, Akira, L'ultimo samurai, op. cit., p. 307.
42. Paul Watzlawick lavora al Mental Research Institute di Palo Alto e si occupa soprattutto dei problemi che collegano comunicazione e cognizione. Si veda Watzlawick, Paul, La realtà della realtà, Astrolabio, Roma, 1976.
43. Lezioni di Giorgio Nardone tenute alla Facoltà di Sociologia dell'Università di Napoli nei giorni 14 aprile e 12 maggio 1994, nell'ambito del corso di Psicologia sociale (docente Stanislao Smiraglia).
44. Blumer, Herbert, Symbolic interactionism: perspective and method, Prentice Halls, Englewood Cliffs, 1968 .
45. Tanizaki, Jun'ichiro, In'ei raisan, Chuo Koron Sha, Tokyo, 1975.
Cristiano Martorella, Il concetto giapponese di economia dal punto di vista epistemologico, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Genova, A.A. 1999-2000.
Capitolo 4. La forma logica del pensiero giapponese
4.1 La diversità concettuale come problema epistemologico
4.2 Sayonara al principio di non-contraddizione
4.3 Il frutto proibito del principio d’identità
4.4 La rigidità del principio di non-contraddizione
4.5 La forma giapponese della verità
4.6 Uso della negazione nella lingua giapponese
4.7 Il principio dell’ombra
Capitolo 4. La forma logica del pensiero giapponese
4.1 La diversità concettuale come problema epistemologico
A questo punto della nostra indagine, ci imbattiamo in un quesito che riguarda direttamente l'epistemologia e che non possiamo rimandare oltre. Il nostro è un approccio radicale che si basa sull'individuazione di precisi modelli di pensiero. L'apporto della filosofia è fondamentale, anche se qualche volta non appare nelle nostre analisi, ed è quindi importantissimo essere chiari sull'impostazione dei problemi che stiamo affrontando. La filosofia della scienza ha elaborato la nozione di schema concettuale come strumento dello sviluppo culturale fondato sui concetti che permettono di giudicare la realtà.
Il contributo maggiore allo studio e alla critica della definizione di schema concettuale è stato fornito da Donald Davidson, autore che quindi dovremo prendere in massima considerazione (1). Secondo Davidson, uno schema concettuale completamente alternativo sarebbe inintelligibile. Come sarebbe possibile capire ciò che è concettualmente diverso, dice Davidson, se gli strumenti della conoscenza sono totalmente diversi? Anche se uno schema concettuale alternativo esistesse, esso sarebbe intraducibile in un altro schema concettuale. Effettivamente molte espressioni giapponesi risultano intraducibili, e quasi soddisfano i criteri di inintelligibilità richiesti da Davidson.
Ma non è nostro scopo dimostrare l'incomprensibilità dello schema concettuale giapponese, anzi è il contrario, si tenta di spiegarlo. E nemmeno è nostro intento confutare Davidson perché ha sollevato un'obiezione. Infatti Davidson conclude il capitolo "Sull'idea stessa di schema concettuale" contenuto in Verità e interpretazione, assumendo una posizione abbastanza equilibrata:
"[...] Infatti non abbiamo trovato una base intelligibile su cui poter affermare che due schemi sono diversi. Altrettanto errato sarebbe annunciare la buona notizia per cui l'umanità intera - o almeno tutti quelli che possiedono un linguaggio - ha in comune uno schema concettuale e un'ontologia. Infatti, se non possiamo dire intelligibilmente che due schemi sono diversi , non possiamo dire intelligibilmente che sono una sola cosa. [...] Dal dogma del dualismo tra schema e realtà, segue la relatività concettuale e la verità relativa a quello schema. Senza quel dogma, questo genere di relatività scompare dal campo." [D. Davidson, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 282]
Le obiezioni sollevate da Donald Davidson sono interessanti, ma possono trovare risposta solo in uno schema concettuale diverso. Paradossalmente Davidson ci dice che si deve rinunciare alla distinzione fra schema e contenuto, ma nel fare ciò non stiamo definendo un diverso paradigma? Evidentemente per Davidson non esiste uno schema concettuale, o almeno la sua definizione non corrisponde a quella consueta. Vedremo come affrontare tale questione ardua ma stimolante alla fine dell'intero lavoro. Solo possedendo un'idea chiara del sistema di pensiero giapponese potremo fare dei confronti. Per il momento tentiamo di definire la diversità concettuale giapponese seguendo ciò che ci dicono i filosofi e gli studiosi giapponesi. Alla fine trarremo le dovute conclusioni. Per il momento però è utile definire come sia possibile la comunicazione fra schemi concettuali diversi superando i problemi di inintelligibilità.
Già Ludwig Wittgenstein aveva dimostrato implicitamente che poteva esistere comunicazione fra schemi concettuali diversi quando propose l'esempio del coleottero in una scatola (Cfr. Ricerche filosofiche, Par. 293). La comunicazione può avvenire anche se il concetto di coleottero è diverso, se le nostre esperienze differiscono, perfino se la nostra scatola è vuota. "Usare una parola senza giustificazione non vuol dire usarla senza averne il diritto", ci dice chiaramente Wittgenstein (Ibidem, Par. 289). La condivisione di pochi elementi linguistici permette comunque la continuazione della conversazione, indipendentemente dai giudizi, dalle credenze e quindi dagli schemi concettuali. Wittgenstein, infatti, riconosce la comprensione (condivisione dei giudizi e delle credenze) come un passo ulteriore della comunicazione (Ibidem, Par. 242). La comunicazione non è affatto l'approdo finale del linguaggio, è soltanto il cominciamento.
Riguardo ai problemi di traduzione della lingua giapponese, molti autori giapponesi ne hanno scritto a bizzeffe. Il problema, come sempre, è che la maggior parte di questi testi non sono stati tradotti in lingue occidentali e sono rimasti sconosciuti sia in Europa che in America. Qui citiamo il bel libro, semplice ed essenziale, di Morimoto Tetsuro intitolato Nihongo omote to ura (La lingua giapponese, davanti e dietro) (2). Il titolo è già significativo, intendendo che esiste una facciata, gli aspetti superficiali della lingua, ma anche un dietro, gli aspetti profondi e nascosti che sono difficili da percepire. A dispetto di tali supposte difficoltà, Moritomo fornisce un quadro molto semplice e naturale che spiega la lingua in connubio con la sensibilità giapponese restando nell'ambito della vita quotidiana.
Secondo i giapponesi, le difficoltà della lingua giapponese sono da imputare a un modo di percepire la realtà totalmente diverso. Ma come abbiamo prima detto, questa diversità dipende dai fondamenti (in giapponese kiso) del pensiero e delle sue leggi logiche. Se le differenze di significato e di credenze che riscontriamo nel pensiero giapponese sono solo la parte che emerge di un immenso iceberg, differenze che nascono dai fondamenti e dall'elaborazione del pensiero, ossia dalle strutture e leggi logiche, preoccuparsi solo dell'aspetto interpretativo dei significati e delle credenze senza capire da dove scaturiscano è abbastanza limitativo.
Per questo motivo abbiamo scelto di rispolverare la teoria weberiana che non è stata mai usata in ambito epistemologico con la portata e le conclusioni che noi stiamo ottenendo(3). Franco Ferrarotti ha sostenuto che Max Weber sia stato tremendamente sottovalutato(4). Anche noi siamo di questo avviso e intendiamo dimostrarlo utilizzando il metodo weberiano in maniera nuova e pratica.
Il "comprendere" (verstehen) è per Max Weber un processo che utilizza gli schemi concettuali diversi grazie al principio dell'avalutività. Al contrario l'interpretazione sembra un procedimento di accomodamento fra il nostro schema concettuale ed l'espressione verbale. Noi abbiamo detto fin dall'inizio che avremmo rinunciato al nostro schema concettuale per cercare di afferrare la razionalità giapponese, seguendo l'esempio del metodo tracciato da Weber. In tal modo da tentare di "comprendere" piuttosto che "interpretare".
L'unica maniera per impossessarsi di uno schema concettuale è usarlo. Tentare di limitare i problemi di traduzione ricorrendo a qualche facile scappatoia ci farebbe cadere in errore. A questo proposito hanno ragione i giapponesi nel criticare gli occidentali per la loro superficialità quando si accostano alla cultura e società giapponese.
Il rimprovero alla superficialità e presunzione dell'occidentale proviene dalla constatazione di un atteggiamento che ignora l'esistenza di un sentire e pensare diverso. O peggio, lo etichetta come una "diversità inferiore" che è destinata a sparire travolta dal progresso occidentale.
Per restare nell'ambito della filosofia, anche Ludwig Wittgenstein si era accorto che il pericolo era confondere la prassi con l'interpretazione (5). Quando parliamo con un interlocutore, ci aspettiamo che abbia un comportamento consono alle nostre aspettative, non certo che si impegni a interpretare le nostre parole secondo il suo schema concettuale. Così come quando ordiniamo una pietanza al cameriere ci aspettiamo di essere serviti e non attendiamo un discorso di apprezzamento sui nostri gusti raffinati. Questa è la differenza fra prassi e interpretazione che fu esposta più volte da Wittgenstein e ripresa e rielaborata da Austin (6).
Per questo rifiutiamo l'idea di "interpretare" attraverso il nostro schema concettuale, anche perché ci sembra inconciliabile con la filosofia del linguaggio ordinario di Wittgenstein, Austin e Grice. Se la parola è anche azione, usare parole diverse spesso, ma non sempre, significa eseguire azioni diverse. Numerose volte abbiamo citato direttamente in giapponese molti termini con l'intento di mostrare la diversità d'uso della parola. È Wittgenstein che ci insegna che il significato è l'uso di una parola. Se avessimo usato direttamente una nostra o altre traduzioni, avremmo forse fornito un'idea falsa su quei termini.
Il problema dell'inintelligibilità degli schemi concettuali è ripreso anche da Richard Rorty nel saggio Il mondo finalmente perduto(7). Il suggestivo titolo intende con "mondo perduto" quello del realista ingenuo. In questo saggio, egli analizza la posizione di Davidson e Stroud nei confronti dello "schema concettuale alternativo". Partendo da Hegel e Kant fino a giungere a Heidegger e Dewey, tracciando una particolare storia della filosofia nello stile tipico di Rorty, si descrivono le possibilità che provengono dall'accettazione dell'esistenza di uno schema concettuale alternativo.
Rorty è concorde con Davidson circa l'inintelligibilità dello schema concettuale alternativo e utilizza una serie di esempi. Fra le tante situazioni bizzarre proposte da Rorty, una sembra molto simile al nostro caso, ed è quello degli abitanti del pianeta Mongo. Essi avrebbero uno schema concettuale alternativo che includerebbe una diversa nozione di morale, di arte, di scienza, etc. Se nell'esempio di Rorty sostituissimo "pianeta Mongo" con "società giapponese", ci troveremmo in una situazione non dissimile. Il fatto che Rorty ricorra a esempi immaginari tratti dalla fantascienza e non citi casi concreti disponibili e documentati, sembra indicativo della necessità di non confondere il piano teorico con esempi concreti che necessitano di studi approfonditi.
Infatti la conclusione di Rorty non è l'affermazione di uno schema concettuale unico, ipotesi prontamente respinta anche da Davidson, ma l'auspicio di un superamento di idealismo e realismo.
"Ma se potremo giungere a considerare sia la teoria della coerenza sia quella della corrispondenza delle banalità non antagonistiche, allora potremo andare finalmente oltre il realismo e l'idealismo. Potremo raggiungere un punto in cui, per dirla con Wittgenstein, saremo in grado di cessare di fare filosofia come e quando vogliamo." (8)
Anche qui Rorty sembra indicare una soluzione simile a quella di Davidson: la necessità di un paradigma filosofico diverso. Sembra chiaro che questi autori ci stiano indicando che i problemi circa lo schema concettuale dipenderebbero da cattive definizioni filosofiche, ciò che Wittgenstein indicava come pseudo-problemi. Queste difficoltà dovrebbero essere risolvibili in un diverso sistema filosofico.
Per quanto riguarda il presente lavoro, noi abbiamo deciso dall'inizio di seguire il pensiero giapponese fino in fondo, e anche nei confronti di tali questioni scegliamo di studiare la soluzione giapponese. Soltanto conoscendo la posizione filosofica giapponese potremo affermare se essa si inserisce in un quadro già esistente nella tradizione occidentale, se ha rapporti con le posizioni dell'epistemologia contemporanea e quanto sia diversa e proponga di nuovo.
Però una riflessione non può certo mancare. La filosofia giapponese (9), con il suo magnificente sviluppo di dodici secoli, da Kobo Daishi a Nishida Kitaro, non ha nulla da invidiare alla filosofia americana, con i suoi vivaci due secoli da Ralph Waldo Emerson a John Dewey. Forse è ridicolo continuare a sostenere che lo sviluppo della filosofia giapponese sia viziato da dei limiti intellettuali. Anche perché sono veramente pochi gli studiosi occidentali che si sono occupati della filosofia contemporanea giapponese. Quindi è insensato dare un giudizio su ciò che non si conosce.
Più interessante è invece, guardando dal punto di vista giapponese, scoprire i contorcimenti che affliggono il pensiero occidentale. Continuamente ascoltiamo discorsi vari sulla globalizzazione del pianeta. Per una volta facciamo in modo che questa globalizzazione e integrazione avvenga anche con la filosofia. Se questo mondo non deve avere più confini, questi devono però essere abbattuti anche nelle nostre menti. In questo caso ha forse ragione Hashizume quando vede in Ludwig Wittgenstein una ribellione nei confronti del pensiero occidentale (10). Non è del tutto avventato riconoscere nell'ultimo sviluppo del pensiero di Wittgenstein un abbandono della logica vero-funzionale in favore del gioco linguistico, delle somiglianze di famiglia e del seguire una regola (11).
Se dovessimo fornire una nostra visione dello sviluppo della filosofia giapponese, ci sembra di poter dire che i filosofi giapponesi siano partiti da quelle che sono state le mete conclusive della filosofia occidentale: rifiuto del principio di non-contraddizione (Hegel) e abbandono della logica vero-funzionale (Wittgenstein).
Ci rendiamo conto che affermare che il pensiero giapponese obbedisce ad altre leggi logiche è talmente dirompente da costituire una rivoluzione copernicana dell'odierno concetto di razionalità. Fino a oggi è stata un'idea comune che le leggi della logica fossero universali, e anche se la filosofia ha ampiamente dimostrato l'esistenza di logiche "altre", non si è considerato con troppo credito la possibilità che esseri umani utilizzassero logiche differenti (12).
Nessuno si è preoccupato di verificare le leggi logiche del pensiero umano tranne gli etnologi. Ma il fatto che il lavoro degli etnologi fosse condotto su popoli primitivi, ha fatto etichettare quel tipo di pensiero come pre-logico, ossia in una fase antecedente e dunque non ancora sviluppato. In questa maniera l'epistemologia ha volutamente ignorato dei risultati scientifici screditandoli (13).
Il caso giapponese è però differente. Nonostante si tenti di spiegare ancora il pensiero giapponese come il residuo di una mentalità tradizionale, ipotesi che ormai non regge più davanti all'evidenza, si sta dimostrando l'infondatezza di tutte le teorie che si limitano a definire la differenza come culturale. Noi affermiamo che esiste una razionalità giapponese con sue precise leggi e intendiamo anche individuarle.
Il problema della razionalità giapponese ha degli epigoni che non possono essere trascurati. Le alternative contemplate sono due. O quello che stiamo affermando è completamente infondato, e dunque stiamo raccontando la più grande frottola che sia mai stata sostenuta in un ambito scientifico (usando un'espressione in inglese: "the pie in the sky"). In tal caso andrebbe a nostro merito l'incredibile fantasia adoperata, e sarebbe quindi da cogliere l'opportunità al volo cambiando immediatamente professione, passando dalla filosofia alla novellistica.
Oppure abbiamo trovato un nodo cruciale che rimette in discussione il concetto ormai consolidato di razionalità. Capire quale delle due alternative sia quella corretta, è importantissimo da un punto di vista scientifico. Se ciò che stiamo sostenendo è sbagliato, significa che è più plausibile una forma logica del pensiero unica e universale. E questa sarebbe una conquista scientifica ragguardevole. Altrimenti dobbiamo constatare, dando ragione alla nostra tesi, che esiste una pluralità di logiche alla base dell'agire umano.
4.2 Sayonara al principio di non-contraddizione
Essendo il principio di non-contraddizione uno dei punti fondamentali della logica del pensiero occidentale, è naturale che sia anche uno dei più contestati. La critica più autorevole al principio di non-contraddizione nella filosofia contemporanea giapponese è stata esposta da Nishida Kitaro (1870-1945).
Il pensiero di Nishida non è un tentativo di elaborazione isolata della filosofia giapponese, ma al contrario, deve molto alla filosofia idealista tedesca, in particolare Hegel, Fichte, Schelling, Schleiermacher ma anche a Kant, Hume, Locke, Spinoza, Leibniz, Schopenhauer, Lotze e Hartmann (abbiamo documentazione certa nei diari e nella corrispondenza che ci testimoniano i suoi interessi) (14).
Si sa quanto Nishida fosse impegnato nello studio dei testi filosofici europei, tanto da essere diventata leggendaria la sua figura di studioso che trascorreva le notti immerso nella lettura. Non c'è quindi motivo di sorpresa se si trova in Nishida una ripresa di Hegel in opposizione al principio di non-contraddizione (15).
Per Nishida la contraddizione fa parte della dialettica della realtà. Essendo la contraddizione costitutiva dell'essere, non la si può considerare come un qualcosa a parte. La contraddizione non va esclusa dalla realtà, così come interpreta il senso comune, poiché è posta proprio al suo interno. Perciò Nishida prova un autentico senso di rifiuto nei confronti della contraddizione come presentata dalla tradizione occidentale. E come ha anche mostrato Löwith, abbiamo dovuto attendere Hegel e Nietzsche perché avvenisse un cambiamento profondo nel pensiero filosofico in Occidente.
Il fatto storico che per millenni la filosofia europea sia rimasta immutata nei suoi principi, non può passare inosservato. E anche la riflessione che queste forme del pensiero hanno finito per entrare nel pensiero comune occidentale. Questa sedimentazione è diventata talmente profonda e antica da passare inosservata. Infine si è creduto che certi pensieri fossero addirittura lo specchio della realtà.
Mentre in Occidente si era consolidata tale situazione, in Giappone la filosofia rivolgeva la sua attenzione su se stessa. Miki Kiyoshi, allievo di Nishida, è l'autore di un singolare testo filosofico intitolato Kosoryoku no ronri (16) (La logica del concepimento del pensiero) che analizza lo sviluppo delle idee nel mondo storico e la loro capacità di interagire con la realtà.
Dunque la resistenza del principio di non-contraddizione ha motivi più storici che logici-filosofici. Nishida era pienamente consapevole di ciò e decise di ricorrere a una terminologia che distinguesse la logica occidentale dalla logica giapponese. Egli coniò il termine toyoteki ronri, letteralmente "logica orientale". Qui non vi sono dubbi di traduzione poiché la parola ronri significa logica, e indica appunto la logica come intesa in Occidente, ossia lo studio delle condizioni del ragionamento corretto.
Nel pensiero di Nishida ci sono state diverse tappe di evoluzione. L'ultima è costituita dall'elaborazione di una "logica del luogo" (basho no ronri), alternativa alla logica tradizionale occidentale e rielaborazione del pensiero filosofico contemporaneo. La logica del luogo (basho no ronri) comporta anche "l'identità di contraddizioni" (mujunteki doitsu). Infatti, secondo Nishida l'uno e il molteplice sono soltanto due punti di vista della stessa realtà (17).
Egli parla anche di una determinazione lineare e di una determinazione circolare, anch'esse aspetti diversi di una stessa realtà. Nishida analizza la concezione dello spazio e del tempo. Il pensiero comune concepisce il tempo come lineare, esso va dal passato al futuro. Ma se il passato è quel che è stato, e il futuro è quel che deve venire, il presente, determinato dal passato e dal futuro, non ha senso.
Il presente non può essere determinato dal passato e dal futuro in questo modo. Ciò che conosciamo è soltanto l'attimo presente. Dunque, il presente, il passato e il futuro esistono simultaneamente. Siccome la simultaneità è la caratteristica dello spazio, secondo Nishida anche il tempo è spaziale. Quindi il tempo può essere determinato in due modi, l'uno lineare, rappresentato da una linea verticale, l'altro da uno spazio orizzontale, rappresentato da un cerchio che si chiude. "L'esterno è l'interno, l'interno è l'esterno, l'uno è il molteplice, il molteplice è l'uno" è l'affermazione che Nishida ritiene essenziale. Se per Kant, il tempo è il senso interno e lo spazio il senso esterno, allora, secondo Nishida, l'interno sarà la forma dentro il tempo e l'esterno la forma dentro lo spazio.
La logica del luogo propone un'alternativa alla concezione lineare del tempo considerando il tempo in modo spaziale e circolare. In questa maniera anche le operazione logiche sono stravolte. Il modus ponens, per esempio, implica una linearità che la logica di Nishida non concede con tanta facilità. Nishida non si fermerà a una valutazione epistemica, ma estenderà queste osservazioni a considerazioni storiche e sociali. L'opposizione individuo/società sarà riportata alla relazione interno ed esterno, dunque a una identità.
Come già si può vedere, l'abbandono del principio di contraddizione prevede un rifiuto del principio d'identità. Nel sistema filosofico di Nishida è molto chiaro nell'esposizione dell'identità contraddittoria che è impensabile senza rinunciare al principio d'identità. Vedremo specificamente nel prossimo paragrafo il rifiuto da parte della filosofia giapponese del principio di identità.
Dopo Nishida altri importanti filosofi giapponesi hanno seguito questa distinzione fra logica occidentale (in cui è tenuto il principio di non-contraddizione) e logica orientale (in cui non è accettato il principio di non-contraddizione). Miki Kiyoshi (1897-1945), allievo di Nishida, elaborò una logica speculativa molto originale. Partendo dagli studi su Pascal (18), e riconoscendo dunque la distinzione fra spirito de finesse e spirito de géométrie, Miki cercò di elaborare una logica alternativa alla logica della ragione che spiegasse la forza delle idee messe in opera nella formazione del mondo storico. Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero) (19) è l'opera più significativa che realizza questo intento filosofico di Miki.
Anche Tanabe Hajime (1885-1962) partì dalla logica nishidiana per criticare la logica occidentale. Ma la formazione iniziale di Tanabe è anche fortemente intrisa di interessi per la filosofia della scienza. Negli studi dedicati alla filosofia della scienza, come Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza) (20), egli dimostra di destreggiarsi abilmente nell'ambito dell'epistemologia. Ma come già accaduto per gli altri filosofi giapponesi, si accorge ben presto che la logica occidentale non è conciliabile con il pensiero giapponese.
Anche per Tanabe, come per Nishida, la contraddizione si risolve in una unità indissolubile. Ma Tanabe si distacca subito dalle soluzioni proposte da Nishida, ed elabora una sua logica alternativa. L'intento di Tanabe è chiaramente quello di opporsi alla soluzione nishidiana proponendone una nuova elaborazione.
Secondo Tanabe Hajime la filosofia deve fornire una mediazione fra la logica filosofica e l'irrazionalità della realtà. Non possiamo accontentarci di restare spettatori della contraddittorietà del mondo. Questa logica sarà la "dialettica della mediazione assoluta" (zettai baikai no benshoho). La "logica della specie" (shu no ronri) sviluppata da Tanabe si sostituisce alla "logica del luogo" di Nishida.
Secondo Tanabe, Nishida sbaglierebbe quando analizza l'individuale e l'universale senza considerare che fra questi c'è la mediazione della specie (shu). Tanabe ritiene di aver corretto la logica di Nishida, ma continua a ritenersi un continuatore del filosofo di Kamakura. Tanabe attraverso la "logica della specie" perviene a una definizione storico-politica dello stato che sarebbe mediatore fra l'universale, l'individuale e la cultura.
Così Tanabe crede di aver dato concretezza alla logica di Nishida che rischiava di restare troppo astratta. Ma gli eventi del conflitto mondiale colpiranno profondamente Tanabe che sottoporrà il suo sistema a una revisione. Egli ritiene di aver dato troppa importanza allo stato nazionale, dimenticando i punti di partenza.
Anche in Shu no ronri no bensho (La dialettica della logica della specie) (21) sono espressi questi ripensamenti. Nella sua autocritica, Tanabe affermerà che la sua logica era eccessivamente permeata del principio di identità, trascurando la relativizzazione di ogni prospettiva (ciò che Nishida aveva fatto in modo superbo).
Perciò egli approderà con Zangedo toshite no tetsugaku (Filosofia come penitenza) (22) a una filosofia che indica i limiti della ragione rispetto all'esistenza. In quest'opera, Tanabe indica il male come una assolutizzazione della prospettiva dell'individuo. Invece, vedere e riconoscere le diversità sarebbe l'atto di libertà che permetterebbe la serena esistenza dell'essere umano.
La vicenda filosofica di Tanabe è dunque travagliata. Partita dagli studi sulla scienza termina in una riflessione esistenziale. Egli però ci lascia un sistema che ammette una logica alternativa e le implicazioni etiche e storiche che ne derivano.
Anche Takahashi Satomi (1886-1964), autore di un saggio su Edmund Husserl(23) e traduttore di Henri Bergson(24), si è occupato della logica giapponese. Takahashi riconosceva diversi sistemi dialettici e ne tentò una sintesi. I risultati sono raccolti nella sua opera dedicata a questo problema specifico: Ho benshoho (La dialettica avvolgente)(25). La dialettica di Takahashi Satomi ingloba la dialettica hegeliana, la dialettica nishidiana, ma anche la logica formale, in un tentativo audace e inusitato di sintesi. Così come espresso dal suo nome, "dialettica avvolgente" comprende tutte le dialettiche elaborate dalle filosofie occidentali e orientali.
La proposta di Watsuji Tetsuro (1889-1960) è ancora più originale(26). Egli afferma in Fudo: ningengakuteki kosatu (Il clima: analisi della natura umana) che esiste uno stretto rapporto fra la natura e il carattere umano. L'influenza dei diversi climi porterebbe alla formazione di culture diverse (27). Watsuji riconosce un clima del tifone, un clima del deserto, un clima della prateria che corrispondono alle culture estremo-orientale, medio-orientale e occidentale.
La fine sensibilità e passionalità, il senso di rassegnazione nei confronti destino, la dignità, la tenacia del giapponese sono comprensibili, secondo Watsuji, attraverso l'influenza del clima del tifone. Watsuji, comunque, non tralascia di dire che l'esistenza umana è influenzata anche fortemente dalle relazioni sociali. Il pensiero di Watsuji, scaturisce quindi in un sistema filosofico che determina l'uomo come prodotto di due forze, una naturale e l'altra sociale. In questo sistema, come in quello di Miki, le leggi del pensiero sono il prodotto di processi ambientali, storici e sociali. Quindi i principi della logica non sono considerati come assoluti e indipendenti dalla realtà.
Anche Mutai Risaku (1890-1974) ha cercato di costruire una logica per il pensiero orientale. Partito dall'intenzione di elaborare una logica per il pensiero di Nishida (28), Mutai si accorse dell'ampiezza del suo lavoro e delle implicazioni che ne derivavano. Mutai critica l'opinione che la logica occidentale rappresenti la forma più corretta del pensiero (29). Secondo Mutai, la logica occidentale è semplicemente una costruzione che è congeniale al modo di pensare degli occidentali. A questa Mutai oppone una logica dell'intuizione. In un altro paragrafo vedremo nei particolari cosa si intende per logica dell'intuizione. Anche Nishida aveva parlato spesso di intuizione, e così anche gli altri filosofi giapponesi.
Cercheremo di fornire una spiegazione di ciò in termini più formali e meno legati al discorso della filosofia giapponese, così da evitare al lettore uno studio approfondito della secolare tradizione filosofica giapponese.
In questo capitolo abbiamo mostrato le posizioni di alcuni filosofi giapponesi sulla questione della forma logica. Secondo questi autori non esiste una "logica universale". E sicuramente essa non è quella elaborata e proposta in Europa e America. La logica occidentale è soltanto una fra le tante possibili forme della logica.
4.3 Il frutto proibito del principio di identità
Per usare un'immagine biblica, la filosofia occidentale ha mangiato il frutto proibito del principio di identità. Ma la filosofia orientale non è occorsa in questo incidente. Per essere precisi, l'accettazione del principio di identità che afferma che ogni cosa è uguale a se stessa, non è stato accettato con tanta ovvietà nemmeno in Occidente, finché non è stato, per l'appunto, morso il frutto proibito. E con ciò, l'uomo cacciato dall'Eden ha creduto di aver acquisito la conoscenza.
Prima di questo incidente, la condizione della filosofia era differente. Eraclito sosteneva che non si potesse nuotare due volte nello stesso fiume e anche le posizioni di molti sofisti, quali Gorgia, Protagora, Zenone, si rifacevano a un relativismo che sembra non ammettere il principio d'identità. Con Socrate, Platone e Aristotele, un terzetto senza dubbio invidiabile, la musica cambiò radicalmente. Socrate insisteva sulla precisione delle definizioni e ricorreva a stringenti confutazioni che non permettevano di evadere il principio di identità.
Platone collegò gli enti materiali alle idee, fissando stabilmente la loro identità. Aristotele costruì una logica che fissava il principio di identità e altre regole che non potevano farne a meno.
Ma l'inizio del XX secolo ha visto rimettere in discussione il principio di identità da Ludwig Wittgenstein. Il fatto che si è dovuto aspettare un paio di millenni prima di criticare il principio di identità è abbastanza sconcertante. Ma si può comprendere la situazione se si apprezzano le capacità intellettuali del terzetto terribile composto da Socrate, Platone e Aristotele. Pensare liberamente senza l'influsso del prodigioso terzetto è stato abbastanza difficile per gli occidentali. E lo è tuttora.
Wittgenstein si è posto in una condizione molto semplice: prima di mordere il frutto proibito, dovremmo sapere che cosa stiamo per mangiare. Cos'è realmente il principio di identità? Wittgenstein afferma che è qualcosa di superfluo.
"Che l'identità non sia una relazione fra oggetti è evidente. [...] La definizione, data da Russell di " = " non basta; infatti, secondo essa, non si può dire che due oggetti abbiano in comune tutte le proprietà. [...] Detto approssimativamente: dire di due cose, che esse siano identiche, è un nonsenso; e dire di una cosa che essa sia identica a se stessa, non dice nulla. [...] Il segno d'equivalenza non è dunque parte costitutiva essenziale dell'ideografia." (30)
Con il Tractatus, Wittgenstein ricacciava fuori dalla logica formale il principio di identità. Ovviamente i logici occidentali si sono affrettati nel cercare di dimostrare che Wittgeinstein stesse soltanto scherzando. Quindi si è pervenuti a diverse neutralizzazioni, ma non tutte con la stessa portata e uguali risvolti. Le posizioni sono molto differenziate e corrispondono all'odierno panorama filosofico.
La situazione storica che vede una molteplicità di correnti è dovuta appunto a non aver saputo fornire una risposta unitaria ai problemi logici sollevati all'inizio del XX secolo. Certamente il principio di identità richiede anche una capacità di astrazione che rende assoluto, e quindi separato dalla realtà, un aspetto del mondo fenomenico. Ma è difficile sostenere che esisti una realtà immutabile e che qualcosa resti assolutamente immodificabile. Perciò, nel tentativo di costruire con il Tractatus una logica che fosse immagine del mondo, Wittgenstein conclude che il principio di identità non ha ragione d'essere. Inoltre, questi problemi filosofici hanno delle ripercussioni religiose non indifferenti.
Gli occidentali hanno sempre avuto un pessimo rapporto con l'idea della morte. Il fatto che non accettino con facilità la propria natura transitoria è indice di una concezione dell'esistenza immutabile. L'insistenza sull'attesa di una vita ultraterrena perfetta è stata dunque la ripercussione di tale concezione.
Le religioni orientali ricorrono invece all'immagine della reincarnazione (in giapponese tensei) per indicare il continuo mutamento dell'esistenza. Per un occidentale è ancora difficile rinunciare alla sua identità e ammettere la vanità della propria personalità.
Queste osservazioni ci mostrano l'efficacia del metodo di Weber. Le credenze non sono soltanto un apparato accessorio, ma la manifestazione dei meccanismi di forme diverse di pensiero. Se riusciamo a ricondurre gli atteggiamenti e l'agire sociale a un modello di pensiero abbiamo afferrato ("compreso" direbbe Weber) la razionalità di quel sistema sociale.
Come indicato dai filosofi giapponesi, scegliere un principio logico come quello dell'identità non è solo un problema formale, le implicazioni sono storiche e sociali. Perciò in Giappone si è teorizzato con la filosofia contemporanea un diverso sistema logico. Da questa elaborazione dipendeva l'esistenza stessa del sistema culturale e sociale giapponese.
Difendere la specificità del pensiero giapponese è stato il più grande risultato raggiunto dalla filosofia giapponese nel XX secolo.
Quando si può affermare la propria indipendenza intellettuale, tutti gli attacchi alla propria identità culturale sono vani.
4.4 La rigidità del principio di non-contraddizione
Blaise Pascal è un pensatore a torto trascurato, essendogli riservato spesso uno spazio limitato nei manuali di filosofia. In Giappone, invece, è stato al centro di importanti studi da parte di Miki Kiyoshi che lo riteneva un autore fondamentale (31).
Questa osservazione preliminare è necessaria per far comprendere l'esistenza di un filone di studi sulla filosofia occidentale che sono completamente ignorati in Europa e in America. Esiste una storia della filosofia ancora sconosciuta che attende soltanto di essere portata alla luce.
Forse abbiamo dato per scontato ciò che non lo è. Non si può dire che la storia della filosofia sia completa finché non sarà integrata dall'opera degli studiosi giapponesi.
Come abbiamo detto in precedenza, Pascal è un filosofo trascurato, e molto spesso si dimentica quanto fosse radicato in lui lo spirito del matematico e del logico. Così molte delle sue affermazioni vengono lette solo dal punto di vista religioso.
In questo modo è sfuggita alla maggior parte degli interpreti una affermazione di Pascal che non riguardava esclusivamente la morale, ma era un'autentica critica del principio di non-contraddizione.
"Contraddizione è un cattivo marchio di verità. Molte cose certe sono contraddette. Molte false passano senza contraddizione. Né la contraddizione è marchio di falsità né la non contraddizione è marchio di verità." (32)
Un altro pensiero riguarda ancora la falsità:
"Immaginazione. È la parte dominante dell'uomo, questa maestra d'errore e di falsità, e tanto più traditrice che non sempre lo è, poiché sarebbe regola infallibile di verità, se lo fosse infallibile di menzogna." (33)
Il secondo di questi pensieri è la soluzione tout court del paradosso del mentitore che ha ossessionato generazioni di logici fino a giungere alle forme più sofisticate proposte da Bertrand Russell (34).
Pascal afferma con forza che la contraddizione non permette di determinare la verità. Non si può affermare che una proposizione sia falsa perché contraddittoria, e viceversa vera perché non contraddittoria. Sembra anche che Pascal non accetti l'uso dell'operatore logico della negazione come ci è insegnato dalla tradizione.
Dunque la negazione di una verità non sarebbe sempre una falsità e viceversa. Se sembra strano che la negazione di una proposizione non fornisca il valore di verità inverso, è il caso di riflettere un po' con qualche esempio.
Esiste un buffo modo di presentare un caso di ambiguità dicendo che "un bicchiere è mezzo vuoto" o "un bicchiere è mezzo pieno". Apparentemente i due enunciati esprimono concetti opposti, ma in realtà descrivono l'identico fenomeno fisico. Usando questo esempio possiamo costruire due proposizioni: "Il bicchiere non è mezzo vuoto, è mezzo pieno" e "Il bicchiere non è mezzo pieno, è mezzo vuoto".
Si tratta di un'ambiguità che non permette un giudizio univoco. Si potrebbe dire che sono entrambe vere? Ma c'è da notare che la seconda è la negazione perfetta della prima. In questo caso non sempre la negazione di un proposizione fornisce un valore di verità inverso. E non si può dire che esistano sempre situazioni in cui determinare il valore di verità sia ovvio.
La vita concreta offre più spesso situazioni intermedie e quasi mai degli estremi. Affrontare la realtà vedendo le cose in due soli modi, bianco o nero, è alquanto pericoloso e irrealistico. La logica usa un criterio binario della verità, ma gli esseri umani sono costretti a usare strutture logiche ben meno rigide.
Il secondo esempio è il più eloquente ed è quello del paradosso del mentitore: "Io sono un mentitore". Questa affermazione è vera o falsa? Se usiamo una struttura rigida della verità cadiamo nel paradosso. Ma se ascoltiamo il suggerimento di Pascal, considerando che non sempre la menzogna è menzognera altrimenti sarebbe regola infallibile di verità, il paradosso svanisce.
E così appare la realtà concreta: siamo davanti alla confessione di un bugiardo oppure allo scherzo di un onesto. Come ci indica anche John McDowell (35), la soluzione si trova nel contesto e non nella frase. Non c'è alcun paradosso se si scelgono bene i criteri di giudizio.
Oggi possiamo formalizzare queste osservazioni di Pascal, cosa che non era possibile ai suoi tempi. Se allora consideriamo senza indugio queste indicazioni, non accettando l'operatore di negazione come funzione inversa, ne ricaviamo quattro tavole di verità che corrispondono ai vari mondi possibili (36).
p ~ p
------
V F V
F V F
p ~ p
------
V V V
F F F
p ~ p
------
V V V
F V F
p ~ p
------
V F V
F F F
Utilizzando queste tabelle per l'operatore di negazione insieme al connettivo della congiunzione si ricava:
p ^ ~ p
-------
V F F V
F F V F
p ^ ~ p
-------
V V V V
F F F F
p ^ ~ p
-------
V V V V
F F V F
p ^ ~ p
-------
V F F V
F F F F
La prima tabella corrisponde al principio di non-contraddizione classico, le altre tre alle conseguenze della logica pascaliana. Come ci dice Pascal, la contraddizione non sarebbe "marchio di falsità" (marque de fausseté) e la non-contraddizione "marchio di verità" (marque de vérité). Seguendo le tavole derivate dall'osservazione di Pascal si ricava che con il connettivo della congiunzione una verità può anche essere contraddetta, mentre la falsità è sempre contraddetta. Dinanzi alla contraddizione non sappiamo se ci troviamo in presenza di una verità o di una falsità, anche se le probabilità che sia una falsità sono più alte. Che Pascal volesse suggerire una visione probabilistica della verità non è una supposizione infondata se si considera l'argomento della scommessa e tutti i suoi studi inerenti. In conclusione la verità non può essere dedotta tramite la contraddizione che può parlarci solo della falsità.
Un esempio può mostrare la validità della logica pascaliana. Cercheremo anche di essere fedeli alla spiegazione del filosofo francese che abbiamo prima riportato. Vediamo che accade con la deduzione: "Il pesce ha le pinne e vive nell'acqua", "Il delfino ha le pinne e vive nell'acqua", "Il delfino è un pesce".
In queste proposizioni la prima e la seconda sono vere, ma anche la terza è vera secondo la logica, mentre è falsa secondo la realtà. Se assumiamo la logica tradizionale commettiamo una deduzione sbagliata perché tentiamo di evitare la contraddizione (il delfino ha le pinne e vive nell'acqua, ma non è un pesce), ritenendo che la contraddizione sia nemica della verità.
Soltanto un uso non rigido della negazione e del principio di non-contraddizione, così come indicato da Blaise Pascal, ci permette una conoscenza non fallace. Infatti la logica pascaliana ammette la contraddizione là dove non è consentita dalla logica tradizionale. In tal caso la logica pascaliana è più vicina alla realtà.
La logica tradizionale aveva invece fornito una formulazione della contraddizione che era troppo orientata all'esclusione. E fu talmente tanto esclusiva che il principio di non-contraddizione fu considerato insufficiente e accostato dal principio del terzo escluso.
Ovviamente, come sanno bene i logici, si è tentato di risolvere questi problemi con un uso più attento dei quantificatori. Ma tutto ciò ha finito per complicare la situazione con i risvolti descritti ampiamente nei manuali di storia della logica. I quantificatori possono essere usati correttamente se abbiamo una conoscenza perfetta degli insiemi su cui stiamo operando. Ma nei confronti della realtà noi non abbiamo una conoscenza completa degli elementi che la compongono. Cercare di salvaguardare la logica dandole uno statuto assoluto che la ponesse in un mondo separato da quello reale non è stata una soluzione soddisfacente. Che scopo avrebbe una scienza che non abbia alcun rapporto con la realtà? La matematica e la geometria hanno avuto nascita e sviluppo da esigenze molto concrete. Difficilmente si può accettare di chiamare scienza ciò che si distacca dalla realtà. Si è mai visto qualcosa che è conoscenza di ciò che non è nella realtà?
Ma cosa ha a che fare tutto ciò con il modo di ragionare dei giapponesi? Qui abbiamo voluto formalizzare ciò che adesso vedremo descritto in termini più discorsivi. Questa premessa era necessaria perché il livello di complessità a cui ci stiamo accostando è sempre maggiore e abbiamo bisogno di strumenti logici sempre più affinati per afferrare la razionalità giapponese.
Avevamo detto anche nell'introduzione che studiare il problema della diversità giapponese avrebbe comportato la rimessa in discussione del concetto di razionalità. E finora abbiamo rispettato quanto detto.
4.5 La forma giapponese della verità
Nel compiere la nostra esplorazione avventurosa, abbiamo spesso la fortuna di incontrare altri viaggiatori che ci fanno doni preziosi. Questa volta spetta a Karl Löwith. Nel 1936 il filosofo tedesco Karl Löwith, per sfuggire alle persecuzioni razziali, soggiornò in Giappone, dove insegnò all'Università di Sendai fino al 1941, anno in cui il Giappone entrò in guerra.
Questa esperienza di Löwith non fu marginale, ma influenzò non poco la sua concezione della storia della filosofia, soprattutto nella sua critica all'impostazione teologica ebraico-cristiana. Ciò gli fu possibile grazie all'esperienza in Giappone che gli aveva permesso di vedere la filosofia occidentale in modo distaccato e diverso.
Löwith fu un attento osservatore del mondo giapponese e scrisse interessanti saggi sulla mentalità dei giapponesi, attualmente riordinati e pubblicati in maniera più unitaria (37).
Löwith afferma che la verità giapponese non coincide con la verità occidentale. Ma soprattutto è l'uso che si fa del concetto di verità che è totalmente diverso. "In Giappone, comunque, la gentilezza - o meglio una bugia convenzionale - è il criterio di ciò che chiamiamo verità", ci spiega Löwith (38).
Egli aggiunge che i giapponesi sono "incapaci di rispondere in modo adeguato a domande che per loro sono troppo dirette e insistenti". Perciò la verità diventa qualcosa che è contrattato: "Che la verità si debba esprimere in modo franco rispecchiando un'opinione personale, è agli occhi del giapponese un segno di rozzezza e egoismo, perché non tiene in minimo conto i sentimenti dell'altro. Una verità negoziata in modo socievole, agevola un'atmosfera di reciprocità nel tacito accordo sulle regole del gioco".
Ma soprattutto Löwith ci indica con chiarezza cos'è la verità per i giapponesi: "Per loro la verità è una cosa tutta pragmatica, che può essere modificata a seconda della situazione concreta".
Löwith ci fornisce una definizione del concetto di verità giapponese davvero pregnante che diventa essenziale per il nostro modello di comprensione del pensiero giapponese. La verità occidentale si basa su una adaequatio rei et intellectus, un confronto e paragone con la realtà, mentre la verità giapponese è in relazione con la comunità degli individui in cui essa è condivisa. Il rapporto è completamente diverso.
Verità occidentale
Adeguatezza alla realtà
La verità è una sola
La verità è esterna al soggetto
Il criterio di giudizio è in rapporto ai fatti
Verità giapponese
Uso strumentale
Le verità sono molteplici
La verità è interna al soggetto
Il criterio di giudizio è in rapporto alla comunità
La verità giapponese non può usare il criterio della adaequatio rei et intellectus perché, come abbiamo visto in precedenza, non esiste una concezione della realtà come quella occidentale. La realtà del giapponese è la sua anima e il suo sentire, non altro.
Non esistendo una realtà oggettiva, non può esistere una verità oggettiva. Perciò la verità è qualcosa che è contrattato. Il risultato è una concezione relativistica della verità.
Questa concezione del relativismo della verità ha avuto un'esposizione artistica nel celeberrimo film Rashomon di Kurosawa Akira (39). Kurosawa mise in scena alcuni episodi tratti dall'omonimo libro di Akutagawa Ryunosuke (40). Uno di questi episodi è quello del racconto intitolato Yabu no naka (Nella boscaglia).
In un bosco è stato trovato il cadavere di un samurai, e per il delitto sono processati il bandito Tajomaru e la moglie del samurai. Essi sono interrogati. Il bandito dice di aver aggredito la coppia e di aver legato il samurai. Dopo aver avuto un amplesso con la donna, fu ella a suggerirgli di uccidere l'uomo e di scappare insieme. La moglie del samurai afferma invece che dopo essere stata violata, il marito la guardava con disprezzo. Ella lo uccise per punirlo. Ma attraverso una sciamana viene interrogato anche lo spirito del samurai. Il samurai dice di essersi ucciso per disperazione e per riscattare l'onore perso dopo aver visto la donna mettersi d'accordo con il bandito. Chi mente? Dov'è la verità nei tre racconti? La morale di questa vicenda è che "ricordiamo solo quello che ci fa comodo, e ci abbellisce agli occhi degli altri" (41).
Questo film di Kurosawa ebbe un enorme successo, tanto da essere premiato con il Leone d'oro nel settembre 1951. Per noi ha un immenso valore perché è la rappresentazione artistica del concetto di verità giapponese descritto da Löwith. Forse questa è la prima volta che si usa un film come documentazione di un trattato filosofico, ma noi siamo figli dei nostri tempi e sappiamo quanto sia forte l'influenza della cinematografia nella nostra epoca.
4.6 Uso della negazione nella lingua giapponese
Non sempre una negazione porta a un valore di verità contrario. Sarebbe forse sorprendente se si ritrovasse questo aspetto nella lingua giapponese? In effetti le cose stanno proprio così. La negazione nella lingua giapponese non è così forte come nelle lingue occidentali. Questo appare evidente, per esempio, nell'uso delle espressioni "mi piace" e "non mi piace".
Nel giapponese esistono due verbi: suki (essere piacevole) e kirai (essere sgradevole). Ma la negazione di suki non corrisponde pienamente a kirai.
Dire "ringo ga suki dewanai" (Non mi piacciono le mele) non significa che le mele sono sgradite, ma semplicemente che non sono fra la frutta preferita (quella che piace). Quindi è molto probabile che l'interlocutore mangi tranquillamente le mele. Mentre dire "ringo ga kirai da" (le mele mi sono sgradite), significa rifiutare le mele e quindi non mangiarle.
Queste differenze iniziano a diventare grandi in una conversazione reale, quando si esprimono i propri pensieri. I giapponesi si sorprendono apprendendo che in italiano "non piacere" (suki dewanai) corrisponde a "sgradire" (kirai da).
Formalizziamo anche questo aspetto del pensiero giapponese utilizzando suki e kirai.
Espressione Giudizio
suki da (+ + +)
suki dewanai (+ / -)
kirai dewanai (- / +)
kirai da ( - - -)
Con "suki da" si intende un preferenza per quella cosa, con "suki dewanai" che non c'è una preferenza, con "kirai dewanai" che non è sgradita, infine con "kirai da" che ci è sgradita. Queste quattro espressioni sono fra loro molto differenti secondo i giapponesi.
Come nella formalizzazione della logica di Pascal, otteniamo anche qui uno schema con quattro uscite. Il fatto che si ripeta questo "quadruplice sentiero" non è occasionale, ma ha una ragione interna. Non accettando la negazione come l'operatore che fornisce il valore inverso di quello dato, si finisce per sdoppiare i valori di verità di una proposizione che nella logica tradizionale potevano essere solo due.
Quello che può sorprendere è invece la corrispondenza fra logica pascaliana e lingua giapponese. Löwith diceva che la verità giapponese è pragmatica, quindi non dobbiamo stupirci se la forma logica che essa assume è quella quadruplice e non quella binaria della logica tradizionale e classica (che ha avuto il massimo sviluppo con la logica booleana).
Che la negazione non sia usata come nelle lingue occidentali ci è indicato anche da altri studiosi. Come segnalato dallo psicologo Paul Watzlawick(42), il pensiero occidentale ha una tendenza al ragionamento per negazioni (es.: se non è così, allora...), cosa che non avviene con frequenza nel pensiero giapponese(43).
4.7 Il principio dell'ombra
Finora abbiamo esposto quello che il pensiero giapponese non è, esponendo le diversità dal pensiero occidentale. Adesso possiamo dire anche quel che è. Eliminati il principio di identità e il principio di non-contraddizione, dobbiamo necessariamente trovare altri principi che siano alla base della logica giapponese. La ricerca non è difficile, considerando che i filosofi giapponesi hanno dedicato tutti i loro sforzi per individuare questi principi.
Come abbiamo visto in precedenza, Nishida, Tanabe e Mutai hanno fatto riferimento a una certa "logica dell'intuizione". Noi preferiamo usare un approccio sociologico alla teoria della comunicazione per chiarire con la massima scientificità ciò che potrebbe apparire oscuro utilizzando il linguaggio di questi autori.
Quindi useremo una definizione alternativa da quella fornita dai filosofi giapponesi. Ciò non perché vi sia una diversità, ma per semplici motivi di esposizione e semplificazione. Perciò faremo riferiamo alla nozione di "conoscenza tacita".
La nozione di "conoscenza tacita" è stata elaborata in etnologia e sociologia per indicare l'insieme di conoscenze e credenze condivise da una comunità che vengono usate implicitamente, senza una precedente esposizione delle regole. Le teorie sociologiche che fanno riferimento all'interazionismo simbolico hanno permesso di elaborare un modello alternativo a quello normativo (per es. Durkheim).
In questi modelli non esiste un sistema di regole, valori, status, ruoli che guiderebbero l'agire dell'individuo, ma esso nascerebbe dall'autointerazione (44). Tutti i modelli sociologici più recenti hanno messo in dubbio l'esistenza di un sistema di regole esplicito che guiderebbe l'azione dell'individuo. Detto ciò risulta più semplice comprendere la nozione di conoscenza tacita.
Si è sempre detto che il carattere orientale è quello di nascondere le cose rendendosi così misterioso e imperscrutabile. In proposito esiste un'importante opera che descrive minuziosamente questa caratteristica giapponese.
Si tratta del libro di Tanizaki Jun'ichiro intitolato In'ei raisan (Elogio dell'ombra) (45). Secondo Tanizaki tutta la sensibilità ed espressività giapponese nasce nell'ombra, ossia nel nascondere.
Questo principio dell'ombra può essere riportato all'interno del discorso sulla forma logica del pensiero giapponese. Soltanto il principio dell'ombra può spiegare i meccanismi di ragionamento privi del principio di identità e di non-contraddizione che abbiamo prima esposto.
Infatti principio d'ombra, da una parte, e principi d'identità e di non contraddizione, dall'altra, sono due sentieri divergenti. I principi della forma logica giapponese sono inconciliabili con i principi occidentali. Esiste veramente una logica alternativa del pensiero orientale.
I filosofi giapponesi hanno continuamente ripetuto e insistito sull'esistenza di una conoscenza intuitiva. Purtroppo è mancato un linguaggio filosofico che rendesse comprensibile questa nozione evanescente di conoscenza tacita. Oggi sono a nostra disposizione strumenti e teorie della comunicazione che ci permettono di riprendere e rendere accessibili le nozioni che risultavano sfuggevoli ai filosofi giapponesi.
In questo capitolo abbiamo dimostrato che esiste una logica alternativa alla logica occidentale. Questa rifiuta la regola di negazione, il principio di identità e il principio di non-contraddizione. A questi principi si sostituisce un principio intuitivo, il principio dell'ombra, che permette la formulazione di giudizi tramite l'interazione con la realtà.
La nozione di verità giapponese elaborata da Löwith ha fornito una spiegazione più chiara del principio d'ombra e come vengano formulati concretamente i giudizi nel pensiero giapponese. Tutto ciò sembra indicare non solo che esiste una forma di razionalità giapponese, ma che questa fonda talmente l'intero sistema cognitivo da avere leggi logiche proprie.
Note
1. Riguardo alla posizione di Davidson si legga: Davidson, D., Inquieres into truth and interpretation, Oxford University Press, Oxford, 1984. (trad. it. Davidson, D., Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994). Per la nozione di "schema concettuale": Davidson, D., On the very idea of a conceptual scheme, in "Proceedings of the American Philosophical Association", n. 47, 1974, pp. 5-20 (trad. it. Davidson, D., La svolta relativistica nell'epistemologia contemporanea, Franco Angeli, Milano,1988, pp. 151-167). In giapponese si può consultare il volume curato da Hattori Hiroyuki e Shibata Masayoshi: Davidson, D., Koi to dekigoto, Keiso Shobo, Tokyo, 1990. Esiste anche un commento a quest'opera di Davidson: Kashiwabata, Tatsuya, Koi to dekigoto no sonzairon, Keiso Shobo, Tokyo, 1997.
2. Moritomo, Tetsuro, Nihongo omote to ura, Shinchosha, Tokyo, 1985.
3. Ricordiamo che anche Habermas ha fornito una straordinaria elaborazione della teoria di Weber, ma l'epistemologia non ha ben recepito il suo lavoro: Habermas, Jürgen, Teoria dell'agire comunicativo, Il Mulino, Bologna, 1985.
4. Cfr. Franco Ferrarotti nella prefazione alla seconda edizione di Weber, Max, Sociologia delle religioni, UTET, Torino, 1988, pp. 7-11.
5. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967, pp. 9-10 e pp. 102-117.
6. Austin, John L., Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1987, pp. 7-32.
7. Rorty, Richard, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano, 1986, pp. 39-51 (trad. giapp. a cura di Yuroi Hisashi: Rorty, Richard, Tetsugaku no datsuochiku: puragumatizumu no kiketsu, Ochanomizu Shobo, Tokyo, 1985).
8. Rorty, Richard, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano, 1986, p. 51.
9. Le opere in lingue occidentali dedicate alla storia della filosofia giapponese sono davvero poche. Consigliamo per la filosofia giapponese contemporanea: Piovesana, G. K., Recent japanese philosophical thought 1862-1962. A survey, Enderle Bookstore, Tokyo, 1963 (trad. it. Piovesana, G. K., Filosofia giapponese contemporanea, Patron, Bologna, 1968), Oe, S., "Japan", in Les grands courants de la pensée mondiale contemporaine, Marzorati, Milano, 2 voll., 1959, pp. 935-963. Per quanto riguarda la filosofia giapponese antica è invece sufficiente consultare i testi dedicati allo zen, per esempio: Hisamatsu, Shin'ichi, La pienezza del nulla, Il Melangolo, Genova, 1993. Ovviamente i testi in giapponese sono invece numerosissimi, qui ricordiamo Yura, Tetsuji, Tetsugakushisojiten, Fuji Shoten, Tokyo, 1948.
10. Hashizume, Daisaburo, Bukkyo no gensetsu senryaku, in "Gendaishiso", numero speciale, voll. 13-14, pp. 272-291, Seidosha, Tokyo, 1985.
11. Sono tanti i testi che presentano le affinità fra il pensiero di Wittgestein e lo zen, si veda: "Wittgenstein and zen" in Canfield, John V., The philosophy of Wittgenstein, "Elective affinities", Vol. 15, Garland Publishing, 186, pp. 383-408 e Wiehnpahl, Paul, Zen and work of Wittgenstein, in "Chicago Review", Vol. 12, n. 2, 1958, pp. 67-72.
12. Per le logiche devianti si consulti Marsonet, Michele, Introduzione alle logiche polivalenti, Abete, Roma, 1976.
13. Soltanto Feyerabend ha insistito sulla pluralità dei diversi tipi di razionalità. In proposito si legga Marsonet, Michele, Scienza e analisi linguistica, Feltrinelli, Milano, 1994, p. 45.
14. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu bekkan 1, Nikki, Iwanami Shoten, Tokyo, 1951, p. 4.
15. Sul valore della dialettica hegeliana da un punto di vista logico si legga Marsonet, Michele, Logica e linguaggio, Pantograf, Genova, 1993, p. 59.
16. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946 .
17. Cfr. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1949, vol. 7, p. 204 e vol. 1, p. 86.
18. Miki, Kiyoshi, Pascal ni okeru ningen no kenkyu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1980.
19. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.
20. Tanabe, Hajime, Kagaku gairon, Iwanami Shoten, Tokyo, 1918.
21. Si consulti Tanabe, Hajime, Tanabe Hajime zenshu, Chikuma Shobo, Tokyo, 1976.
22. Tanabe, Hajime, Zangedo toshite no tesugaku, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.
23. Takahashi, Satomi, Husserl no genshogaku, Nipponsha, Tokyo, 1931.
24. Bergson, Henri, Busshitsu to kioku, Iwanami Shoten, Tokyo, 1936.
25. Takahashi, Satomi, Ho benshoho, Risosha, Tokyo, 1947.
26. Watsuji, Tetsuro, Watsuji Tetsuro zenshu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1992.
27. Watsuji, Tetsuro, Fudo: ningengakuteki kosatu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1979.
28. Mutai, Risaku, Basho no ronrigaku, Kobundo, Tokyo, 1944.
29. Mutai, Risaku, Shisaku to kansatsu, Keiso Shobo, Tokyo, 1971.
30. Si tratta dei paragrafi 5.5301, 5.5302, 5.5303 e 5.533 del Tractatus logico-philosophicus. Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1989, pp. 120-123.
31. Miki, Kiyoshi, Pascal ni okeru ningen no kenkyu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1980.
32. Pascal, Blaise, Frammenti, Rizzoli, Milano,1983, p. 242. Corrispondono ai pensieri nel catalogo Brunschvicg n. 384 e nel catalogo Lafuma n. 177.
33. Ibidem, p. 121. Catalogo Brunschvicg n. 82 e nel catalogo Lafuma n. 44.
34. Il problema dell'antinomia di Russell fu di importanza capitale per la scienza. Esso mise in crisi il progetto di Frege che tentava di fondare la matematica tramite la logica. E di conseguenza minò anche il tentativo di Hilbert per un programma che formalizzasse le teorie matematiche. Russell cercò di proporre una soluzione all'antinomia con la teoria dei tipi. Infatti l'antinomia russelliana nasce, come egli stesso spiega, da un problema di insiemistica. Russell stimava il lavoro di Cantor sulla teoria degli insiemi, e cercò una soluzione al suo interno, così come dimostra la teoria dei tipi. La nostra soluzione invece si basa sulla non accettazione dei pincipi di identità e non contraddizione. Crf. Russell, Bertrand, I principi della matematica, Longanesi, Milano,1951, pp. 713-721.
35. In questi ultimi anni, John McDowell ha insistito molto sul principio di contestualità rielaborando a suo modo alcune proposte kantiane. In proposito si consulti la seguente relazione: Bezante, Alessandro e Martorella, Cristiano, Sul saggio di McDowell "De re senses", Corso di Filosofia del linguaggio (docente Carlo Penco), Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Genova, A.A. 1998-1999. Le proposte di McDowell sono molto interessanti e originali discutendo anche le idee di Evans e Burge. Si legga McDowell, John, Mind and world, Harvard University Press, Cambridge, 1996 (trad. it. McDowell, John, Mente e mondo, Einaudi, Torino, 1999); Evans, Gareth e McDowell, John, Truth and meaning, Clarendon Press, Oxford, 1976; Evans, Gareth e McDowell, John, The varities of reference. Clarendon Press, Oxford, 1982.
36. Abbiamo scelto di formalizzare attraverso le tavole di verità per rendere più evidente le funzioni che si ottengono eliminando la regola della negazione, il principio di identità e il principio di non contraddizione. Si è scelto di ignorare altre proposte di logiche devianti, come quella molto elegante elaborata da Lukasiewicz, per cercare di essere fedeli ai suggerimenti di Pascal.
37. Löwith, Karl, Scritti sul Giappone, Rubettino, Soveria Mannelli, 1995.
38. Ibidem, p. 27.
39. Kurosawa, Akira, L'ultimo samurai, Baldini & Castoldi, Milano, 1995 pp. 307-308.
40. Akutagawa, Ryunosuke, Rashomon, Hanada Bunka, Taipei, 1995.
41. Kurosawa, Akira, L'ultimo samurai, op. cit., p. 307.
42. Paul Watzlawick lavora al Mental Research Institute di Palo Alto e si occupa soprattutto dei problemi che collegano comunicazione e cognizione. Si veda Watzlawick, Paul, La realtà della realtà, Astrolabio, Roma, 1976.
43. Lezioni di Giorgio Nardone tenute alla Facoltà di Sociologia dell'Università di Napoli nei giorni 14 aprile e 12 maggio 1994, nell'ambito del corso di Psicologia sociale (docente Stanislao Smiraglia).
44. Blumer, Herbert, Symbolic interactionism: perspective and method, Prentice Halls, Englewood Cliffs, 1968 .
45. Tanizaki, Jun'ichiro, In'ei raisan, Chuo Koron Sha, Tokyo, 1975.
domenica 1 agosto 2010
Wittgenstein e il buddhismo
Articolo sulla filosofia di Wittgenstein e il buddhismo pubblicato dalla rivista "Quaderni Asiatici".
Cfr. Cristiano Martorella, Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003, pp.91-99.
Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein
di Cristiano Martorella
Wittgenstein e il pensiero orientale
Chi si occupa della filosofia orientale, e in particolare del Buddhismo Zen, non può non sorprendersi nel trovare in un pensatore occidentale, così estraneo al contesto della cultura asiatica, una quantità notevole di affinità. Ciò è maggiormente interessante se si aggiunge che Wittgenstein ignorava completamente le opere e gli autori orientali. Egli aveva studiato al Politecnico di Berlino e alla Facoltà d’ingegneria di Manchester, infine si era dedicato allo studio della logica a Cambridge. Come si vede i suoi interessi erano lontani da qualsiasi testo di filosofia orientale. Eppure Wittgenstein si ritrovò ad affrontare gli stessi problemi che avevano impegnato i saggi d’India, Cina e Giappone. Per quale motivo? Semplicemente perché il campo di indagine era il medesimo: il linguaggio. Buddha aveva indicato agli orientali l’origine della sofferenza. Un cattivo o eccessivo utilizzo del pensiero procura all'uomo tensione, angoscia, paura e sofferenza. Wittgenstein era un uomo profondamente tormentato dagli stessi problemi. Egli era fortemente insoddisfatto dell’incapacità della filosofia occidentale nel rispondere alle sue domande. Nel Tractatus Logico-philosophicus egli affermava: "(...) il valore di quest’opera consiste allora, in secondo luogo, nel mostrare a quanto poco valga l’avere risolto questi problemi" (1).
Filosofia del linguaggio
Wittgenstein si accorse che i problemi della filosofia sono falsi problemi, dunque la sua indagine si sposta sull’analisi di questi pseudo-problemi. Lo scopo della filosofia di Wittgenstein è esclusivamente mostrare ed eliminare gli pseudo-problemi.
Wittgenstein non fu il primo logico a individuare nell’ambiguità e fallacia del linguaggio l’origine dei problemi speculativi e dunque degli errori dell'intera filosofia. In India, con una abilità altrettanto pari, Nagarjuna riuscì a mostrare la vacuità di ogni concetto e di ogni parola. Le somiglianze fra l'insegnamento di Nagarjuna e Wittgenstein si spingono oltre. Secondo Nagarjuna, così come insegna il Buddhismo, ogni cosa è in relazione con le altre, e nessuna ha senso senza le altre. Wittgeinstein parla del principio di contestualità, ed afferma un concetto molto simile. Il significato di una parola o di un concetto dipende dal suo contesto. Nagarjuna sosteneva la prammaticità del linguaggio e Wittgeinstein ribadisce la strumentalità della parola affermando che il senso è l'uso.
Filosofia come terapia
Secondo Wittgenstein lo scopo della filosofia non è erigere un edificio di concetti, il sistema filosofico, ma praticare un continuo e radicale controllo sul linguaggio. La filosofia deve fornire una "grammatica" perspicua del linguaggio (2). Essa non è una dottrina ma una attività.
La forma più nobile del Buddhismo, scevra di superstizioni e credenze metafisiche, ha il medesimo atteggiamento. Il Buddhismo, in particolare lo Zen, necessita di una pratica costante, non è una religione che richiede soltanto l’atto di fede (3). Credere e pregare è del tutto insufficiente. Piuttosto è la pratica con un impegno che implica la totale partecipazione dell’individuo a caratterizzare tale filosofia. Attraverso la meditazione zazen oppure con quesiti koan, il Buddhismo persegue questa strategia che intende liberare l'individuo dagli errori che controllano la sua mente.
Koan di Wittgenstein
Inconsapevole di tale tradizione, anche Wittgeinstein però ne applicò il metodo. Le sue lezioni erano molto simili a sedute in cui i discepoli vengono interrogati attraverso l’uso di un koan. Che Wittgenstein praticasse tale tecnica ci è testimoniato dalle sue stesse opere che restano enigmatiche se non si interpreta correttamente il modo d'operare dell'autore. Ma vediamo da vicino questi esempi di koan di Wittgenstein.
"Potrebbe una macchina pensare?" (Ricerche filosofiche, Par.359)
"La sedia pensa tra sé e sé: dove? In una delle sue parti? O fuori dal corpo?" (Ricerche filosofiche, Par.360)
"Ho intenzione di partire domani. Quando hai l'intenzione? Continuamente o a intermittenza?" (Zettel, Par.46)
"Considera il comando: Ridi sinceramente a questa battuta di spirito!" (Zettel, Par.51)
"Che cosa vuol dire: la verità di una proposizione è certa?" (Della certezza, Par.193)
"Dunque, se dubito, o non sono sicuro, che questa sia la mia mano, perché allora non devo anche dubitare del significato di queste parole?" (Della certezza, Par.456)
Nessuno di questi quesiti può avere una risposta precisa. Al contrario di ciò che accade per le domande della consueta tradizione filosofica occidentale. Come i koan, la risposta è al di fuori dei concetti inquadrati dalla domanda. Wittgenstein ci mostra come l'imbarazzo o il paradosso dei suoi quesiti nascano dalla mancanza di chiarezza del linguaggio e gli inganni provengano da ciò. Per comprendere le sue domande dobbiamo distruggere l'apparato di preconcetti che controllano la nostra mente.
La prospettiva dei filosofi giapponesi
Affermare l’esistenza di una affinità fra lo Zen e la filosofia di Wittgenstein sarebbe una mera ipotesi senza possibilità di verifica se non tenessimo conto degli attuali studi filosofici in Giappone. In effetti una conoscenza approfondita della filosofia contemporanea giapponese, ci rivela che Wittgenstein è fra gli autori occidentali guardati con maggiore interesse. Alcuni studiosi giapponesi arrivano ad affermare che ci sarebbe una consonanza molto forte fra il suo metodo filosofico e la pratica dello Zen. La posizione più netta in tal senso è assunta dal sociologo Hashizume Daisaburo (4). Nel saggio Bukkyo no gensetsu senryaku (La strategia verbale del Buddhismo), egli arriva ad affermare, secondo una sua interpretazione, che Wittgenstein avrebbe addirittura subito l’ostracismo della cultura occidentale permeata dallo spirito giudaico-cristiano. Secondo Hashizume, la filosofia del linguaggio di Wittgenstein sarebbe innanzitutto una critica alla logica vero-funzionale, e in secondo luogo, una alternativa al sistema concettuale occidentale fondato su una dialettica discorsiva e determinista, ma astratta. Non è del tutto infondato considerare come Wittgenstein abbia presto raggiunto, attraverso l’introduzione delle tavole di verità, i massimi sviluppi della logica vero-funzionale. E notare, soprattutto, quanto ne sia rimasto insoddisfatto, al punto di cambiare completamente l’approccio ai problemi filosofici e linguistici.
Hashizume passa poi ad analizzare le strategie del Buddhismo per il raggiungimento del satori. Egli paragona il gioco linguistico (Sprachspiel) di Wittgenstein alle tecniche del Buddhismo per raggiungere lo stato di illuminazione. Il satori presenta gli stessi problemi del sistema filosofico basato sul gioco linguistico. Ad esempio, il paradosso della percezione del dolore (5). Wittgenstein aveva visto in frasi come "io provo dolore" ed "egli prova dolore", una diversità dovuta a una ricaduta fenomenologica. Provare dolore è un’esperienza singolare e la sua espressione verbale ("Io provo dolore") è differente dall’espressione verbale del dolore altrui che non conosciamo ("Egli prova dolore"). Resta quindi un elemento indiscernibile che la grammatica non rivela pienamente. Almeno la grammatica delle lingue occidentali, sappiamo che in giapponese le cose sono ben differenti, distinguendo le due frasi anche dal punto di vista grammaticale.
Hashizume individua nello stato di satori una analogia. Noi non conosciamo cosa sia il satori. Per sapere che cos’è dobbiamo raggiungerlo. Ma nel momento in cui l’abbiamo raggiunto, come facciamo a sapere che è davvero il satori? Questo problema nasce da una trappola linguistica. Fondando la conoscenza esclusivamente su una base linguistica, perdiamo la maggior parte delle facoltà che ci permettono di agire sulla realtà.
Per risolvere questa difficoltà, riconoscendo l’imprescindibile concretezza del linguaggio immerso nella realtà, Wittgenstein introduce il concetto di "seguire una regola" (6). Hashizume riconosce nel "seguire una regola" una prassi simile alla tecnica del Buddhismo. Gli orientalisti hanno ben presente la nozione di do, seguire una via, e come venga realizzato. Il maestro indica, non spiega cosa fare. Egli mostra una procedura, l’allievo la ripete. L’elemento concettuale, la spiegazione e la teoria, è del tutto assente.
Importante, in tal senso, è anche il saggio Wittgenstein ni okeru chinmoku (Il silenzio in Wittgenstein) del filosofo Nakamura Hajime (7). Nakamura traccia le linee di una filosofia non discorsiva ma orientata alla prassi. Ciò corrisponde agli insegnamenti dello Zen, ma anche a ciò che Wittgenstein ha realizzato con la sua attività filosofica. I giapponesi usano l’espressione mushin per descrivere un vuoto di emozioni e pensieri che sarebbe alla base della meditazione e della successiva illuminazione. Nakamura individua in Wittgenstein un vuoto con il silenzio, l’interruzione dell’uso della logica vero-funzionale e della dialettica discorsiva.
Tornando ad Hashizume, vediamo che il sociologo giapponese arriva a spiegare certi aspetti del Buddhismo tramite la filosofia di Wittgenstein. Secondo Hashizume, si può trovare il principio di "seguire una regola" nella condizione della comunità buddhista (sangha) che include i monaci (bhikku), i novizi (samanera) e i laici (upasaka). In questo caso, nessuno conosce la "regola". Essa dovrebbe identificarsi con la figura del Buddha. Ma chi realmente conosce Buddha? Quindi tutti cercano di seguire il suo modello, per l’appunto "seguendo la regola". Per far ciò è sufficiente ricordare le parole di Wittgenstein che chiariva tali aspetti: "Non sono sufficienti le regole, ma abbiamo bisogno anche di esempi. Le nostre regole lasciano aperte certe scappatoie, e la prassi deve parlare per se stessa" (8). Per il Buddhismo, l’esempio supremo è il Buddha.
Quindi il pericolo che mostrava Wittgenstein era nel confondere "il seguire una regola" con "l’interpretare una regola". Una minaccia che colpiva alle radici ogni tipo di filosofia del linguaggio che si scontrava con un uso concettuale e astratto della parola. Il tipo di filosofia che Wittgenstein avversava con la sua nozione di "significato come uso". Una concezione del linguaggio, come ricorda Hashizume, che fu ripresa da John Austin (9), e permise di far tornare concreto il linguaggio.
Conclusioni
Si potrebbe dire che Wittgenstein ha portato alla luce una diversa concezione della filosofia, molto più vicina alla tradizione orientale. Secondo questo modo di vedere, il pensiero non sarebbe un’immagine mentale del mondo, qualcosa di speculare, altrimenti sarebbe anche abbastanza veritiero nei confronti della realtà. Invece la filosofia orientale ci dimostra il contrario. Piuttosto il pensiero è qualcosa prodotto dalla nostra mente che è in relazione con il mondo. L’errore umano è confondere il pensiero con il mondo. L’errore della filosofia occidentale è il tentativo di spiegare il mondo con il pensiero. Il pensiero può spiegare soltanto il pensiero, e la vita è altra cosa.
Note
1. Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Tractatus Logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1989 ("Nuova Universale Einaudi"/196), p. 5.
2. "Metodo della filosofia: la rappresentazione perspicua dei fatti grammaticali". Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Filosofia, Donzelli, Roma, 1996, p. 27.
3. "E solo come azione di tal genere l'esistenza buddhista diviene la vita completamente libera (...)". Cfr. Hisamatsu, Shin'ichi, Una religione senza dio, Il melangolo, Genova, 1996, p. 69.
4. Hashizume, Daisaburo, Bukkyo no gensetsu senryaku, in "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo 1985.
5. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995, pp.119-138.
6. Ibidem, pp.108-116.
7. Nakamura, Hajime, Wittgenstein ni okeru chinmoku, in "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo, 1985, pp. 210-217.
8. Wittgenstein, Ludwig, Della certezza, Einaudi, Torino, 1978, p. 26.
9. Austin, John, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1987.
Bibliografia
AA.VV., Wittgenstein, in "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo, 1985.
Andronico, Marilena, Marconi, Diego, Penco, Carlo, Capire Wittgenstein, Marietti, Genova, 1988.
Canfield, John, The Philosophy of Wittgenstein, Vol.15, "Elective affinities, Wittgenstein and Zen", Garland Publishing, Inc., 1986, pp.383-408.
Gargani, Aldo, Introduzione a Wittgenstein, Laterza, Bari, 1973.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori, Relazione del Corso di Filosofia del Linguaggio, Università degli Studi di Genova, A.A. 1998-1999.
McGuinness, Brian, Wittgenstein:A Life, Duckworth, London, 1988.
Kenny, Anthony, Wittgenstein, Allen Lane The Penguin Press, London, 1973.
Perissinotto, Luigi, Wittgenstein. Una guida, Feltrinelli, Milano, 1997.
Wienpahl, Paul, Zen and Work of Wittgenstein, in "Chicago Review", Vol.12, n.2, 1958, pp.67-72.
Wittgenstein, Ludwig, Tractatus Logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1989.
Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967.
Wittgenstein, Ludwig, Della certezza, Einaudi, Torino, 1978.
Wittgenstein, Ludwig, Zettel, Einaudi, Torino, 1986.
Wittgenstein, Ludwig, Della certezza, Einaudi, Torino, 1978.
Wittgenstein, Ludwig, Libro blu e Libro marrone, Einaudi, Torino, 1983.
Wittgenstein, Ludwig, Osservazioni filosofiche, Einaudi, Torino, 1976.
Wittgenstein, Ludwig, Osservazioni sui colori, Einaudi, Torino, 1982.
Wittgenstein, Ludwig, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, Einaudi, Torino, 1971.
Wittgenstein, Ludwig, Pensieri diversi, Adelphi, Milano, 1980.
Cfr. Cristiano Martorella, Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003, pp.91-99.
Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein
di Cristiano Martorella
Wittgenstein e il pensiero orientale
Chi si occupa della filosofia orientale, e in particolare del Buddhismo Zen, non può non sorprendersi nel trovare in un pensatore occidentale, così estraneo al contesto della cultura asiatica, una quantità notevole di affinità. Ciò è maggiormente interessante se si aggiunge che Wittgenstein ignorava completamente le opere e gli autori orientali. Egli aveva studiato al Politecnico di Berlino e alla Facoltà d’ingegneria di Manchester, infine si era dedicato allo studio della logica a Cambridge. Come si vede i suoi interessi erano lontani da qualsiasi testo di filosofia orientale. Eppure Wittgenstein si ritrovò ad affrontare gli stessi problemi che avevano impegnato i saggi d’India, Cina e Giappone. Per quale motivo? Semplicemente perché il campo di indagine era il medesimo: il linguaggio. Buddha aveva indicato agli orientali l’origine della sofferenza. Un cattivo o eccessivo utilizzo del pensiero procura all'uomo tensione, angoscia, paura e sofferenza. Wittgenstein era un uomo profondamente tormentato dagli stessi problemi. Egli era fortemente insoddisfatto dell’incapacità della filosofia occidentale nel rispondere alle sue domande. Nel Tractatus Logico-philosophicus egli affermava: "(...) il valore di quest’opera consiste allora, in secondo luogo, nel mostrare a quanto poco valga l’avere risolto questi problemi" (1).
Filosofia del linguaggio
Wittgenstein si accorse che i problemi della filosofia sono falsi problemi, dunque la sua indagine si sposta sull’analisi di questi pseudo-problemi. Lo scopo della filosofia di Wittgenstein è esclusivamente mostrare ed eliminare gli pseudo-problemi.
Wittgenstein non fu il primo logico a individuare nell’ambiguità e fallacia del linguaggio l’origine dei problemi speculativi e dunque degli errori dell'intera filosofia. In India, con una abilità altrettanto pari, Nagarjuna riuscì a mostrare la vacuità di ogni concetto e di ogni parola. Le somiglianze fra l'insegnamento di Nagarjuna e Wittgenstein si spingono oltre. Secondo Nagarjuna, così come insegna il Buddhismo, ogni cosa è in relazione con le altre, e nessuna ha senso senza le altre. Wittgeinstein parla del principio di contestualità, ed afferma un concetto molto simile. Il significato di una parola o di un concetto dipende dal suo contesto. Nagarjuna sosteneva la prammaticità del linguaggio e Wittgeinstein ribadisce la strumentalità della parola affermando che il senso è l'uso.
Filosofia come terapia
Secondo Wittgenstein lo scopo della filosofia non è erigere un edificio di concetti, il sistema filosofico, ma praticare un continuo e radicale controllo sul linguaggio. La filosofia deve fornire una "grammatica" perspicua del linguaggio (2). Essa non è una dottrina ma una attività.
La forma più nobile del Buddhismo, scevra di superstizioni e credenze metafisiche, ha il medesimo atteggiamento. Il Buddhismo, in particolare lo Zen, necessita di una pratica costante, non è una religione che richiede soltanto l’atto di fede (3). Credere e pregare è del tutto insufficiente. Piuttosto è la pratica con un impegno che implica la totale partecipazione dell’individuo a caratterizzare tale filosofia. Attraverso la meditazione zazen oppure con quesiti koan, il Buddhismo persegue questa strategia che intende liberare l'individuo dagli errori che controllano la sua mente.
Koan di Wittgenstein
Inconsapevole di tale tradizione, anche Wittgeinstein però ne applicò il metodo. Le sue lezioni erano molto simili a sedute in cui i discepoli vengono interrogati attraverso l’uso di un koan. Che Wittgenstein praticasse tale tecnica ci è testimoniato dalle sue stesse opere che restano enigmatiche se non si interpreta correttamente il modo d'operare dell'autore. Ma vediamo da vicino questi esempi di koan di Wittgenstein.
"Potrebbe una macchina pensare?" (Ricerche filosofiche, Par.359)
"La sedia pensa tra sé e sé: dove? In una delle sue parti? O fuori dal corpo?" (Ricerche filosofiche, Par.360)
"Ho intenzione di partire domani. Quando hai l'intenzione? Continuamente o a intermittenza?" (Zettel, Par.46)
"Considera il comando: Ridi sinceramente a questa battuta di spirito!" (Zettel, Par.51)
"Che cosa vuol dire: la verità di una proposizione è certa?" (Della certezza, Par.193)
"Dunque, se dubito, o non sono sicuro, che questa sia la mia mano, perché allora non devo anche dubitare del significato di queste parole?" (Della certezza, Par.456)
Nessuno di questi quesiti può avere una risposta precisa. Al contrario di ciò che accade per le domande della consueta tradizione filosofica occidentale. Come i koan, la risposta è al di fuori dei concetti inquadrati dalla domanda. Wittgenstein ci mostra come l'imbarazzo o il paradosso dei suoi quesiti nascano dalla mancanza di chiarezza del linguaggio e gli inganni provengano da ciò. Per comprendere le sue domande dobbiamo distruggere l'apparato di preconcetti che controllano la nostra mente.
La prospettiva dei filosofi giapponesi
Affermare l’esistenza di una affinità fra lo Zen e la filosofia di Wittgenstein sarebbe una mera ipotesi senza possibilità di verifica se non tenessimo conto degli attuali studi filosofici in Giappone. In effetti una conoscenza approfondita della filosofia contemporanea giapponese, ci rivela che Wittgenstein è fra gli autori occidentali guardati con maggiore interesse. Alcuni studiosi giapponesi arrivano ad affermare che ci sarebbe una consonanza molto forte fra il suo metodo filosofico e la pratica dello Zen. La posizione più netta in tal senso è assunta dal sociologo Hashizume Daisaburo (4). Nel saggio Bukkyo no gensetsu senryaku (La strategia verbale del Buddhismo), egli arriva ad affermare, secondo una sua interpretazione, che Wittgenstein avrebbe addirittura subito l’ostracismo della cultura occidentale permeata dallo spirito giudaico-cristiano. Secondo Hashizume, la filosofia del linguaggio di Wittgenstein sarebbe innanzitutto una critica alla logica vero-funzionale, e in secondo luogo, una alternativa al sistema concettuale occidentale fondato su una dialettica discorsiva e determinista, ma astratta. Non è del tutto infondato considerare come Wittgenstein abbia presto raggiunto, attraverso l’introduzione delle tavole di verità, i massimi sviluppi della logica vero-funzionale. E notare, soprattutto, quanto ne sia rimasto insoddisfatto, al punto di cambiare completamente l’approccio ai problemi filosofici e linguistici.
Hashizume passa poi ad analizzare le strategie del Buddhismo per il raggiungimento del satori. Egli paragona il gioco linguistico (Sprachspiel) di Wittgenstein alle tecniche del Buddhismo per raggiungere lo stato di illuminazione. Il satori presenta gli stessi problemi del sistema filosofico basato sul gioco linguistico. Ad esempio, il paradosso della percezione del dolore (5). Wittgenstein aveva visto in frasi come "io provo dolore" ed "egli prova dolore", una diversità dovuta a una ricaduta fenomenologica. Provare dolore è un’esperienza singolare e la sua espressione verbale ("Io provo dolore") è differente dall’espressione verbale del dolore altrui che non conosciamo ("Egli prova dolore"). Resta quindi un elemento indiscernibile che la grammatica non rivela pienamente. Almeno la grammatica delle lingue occidentali, sappiamo che in giapponese le cose sono ben differenti, distinguendo le due frasi anche dal punto di vista grammaticale.
Hashizume individua nello stato di satori una analogia. Noi non conosciamo cosa sia il satori. Per sapere che cos’è dobbiamo raggiungerlo. Ma nel momento in cui l’abbiamo raggiunto, come facciamo a sapere che è davvero il satori? Questo problema nasce da una trappola linguistica. Fondando la conoscenza esclusivamente su una base linguistica, perdiamo la maggior parte delle facoltà che ci permettono di agire sulla realtà.
Per risolvere questa difficoltà, riconoscendo l’imprescindibile concretezza del linguaggio immerso nella realtà, Wittgenstein introduce il concetto di "seguire una regola" (6). Hashizume riconosce nel "seguire una regola" una prassi simile alla tecnica del Buddhismo. Gli orientalisti hanno ben presente la nozione di do, seguire una via, e come venga realizzato. Il maestro indica, non spiega cosa fare. Egli mostra una procedura, l’allievo la ripete. L’elemento concettuale, la spiegazione e la teoria, è del tutto assente.
Importante, in tal senso, è anche il saggio Wittgenstein ni okeru chinmoku (Il silenzio in Wittgenstein) del filosofo Nakamura Hajime (7). Nakamura traccia le linee di una filosofia non discorsiva ma orientata alla prassi. Ciò corrisponde agli insegnamenti dello Zen, ma anche a ciò che Wittgenstein ha realizzato con la sua attività filosofica. I giapponesi usano l’espressione mushin per descrivere un vuoto di emozioni e pensieri che sarebbe alla base della meditazione e della successiva illuminazione. Nakamura individua in Wittgenstein un vuoto con il silenzio, l’interruzione dell’uso della logica vero-funzionale e della dialettica discorsiva.
Tornando ad Hashizume, vediamo che il sociologo giapponese arriva a spiegare certi aspetti del Buddhismo tramite la filosofia di Wittgenstein. Secondo Hashizume, si può trovare il principio di "seguire una regola" nella condizione della comunità buddhista (sangha) che include i monaci (bhikku), i novizi (samanera) e i laici (upasaka). In questo caso, nessuno conosce la "regola". Essa dovrebbe identificarsi con la figura del Buddha. Ma chi realmente conosce Buddha? Quindi tutti cercano di seguire il suo modello, per l’appunto "seguendo la regola". Per far ciò è sufficiente ricordare le parole di Wittgenstein che chiariva tali aspetti: "Non sono sufficienti le regole, ma abbiamo bisogno anche di esempi. Le nostre regole lasciano aperte certe scappatoie, e la prassi deve parlare per se stessa" (8). Per il Buddhismo, l’esempio supremo è il Buddha.
Quindi il pericolo che mostrava Wittgenstein era nel confondere "il seguire una regola" con "l’interpretare una regola". Una minaccia che colpiva alle radici ogni tipo di filosofia del linguaggio che si scontrava con un uso concettuale e astratto della parola. Il tipo di filosofia che Wittgenstein avversava con la sua nozione di "significato come uso". Una concezione del linguaggio, come ricorda Hashizume, che fu ripresa da John Austin (9), e permise di far tornare concreto il linguaggio.
Conclusioni
Si potrebbe dire che Wittgenstein ha portato alla luce una diversa concezione della filosofia, molto più vicina alla tradizione orientale. Secondo questo modo di vedere, il pensiero non sarebbe un’immagine mentale del mondo, qualcosa di speculare, altrimenti sarebbe anche abbastanza veritiero nei confronti della realtà. Invece la filosofia orientale ci dimostra il contrario. Piuttosto il pensiero è qualcosa prodotto dalla nostra mente che è in relazione con il mondo. L’errore umano è confondere il pensiero con il mondo. L’errore della filosofia occidentale è il tentativo di spiegare il mondo con il pensiero. Il pensiero può spiegare soltanto il pensiero, e la vita è altra cosa.
Note
1. Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Tractatus Logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1989 ("Nuova Universale Einaudi"/196), p. 5.
2. "Metodo della filosofia: la rappresentazione perspicua dei fatti grammaticali". Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Filosofia, Donzelli, Roma, 1996, p. 27.
3. "E solo come azione di tal genere l'esistenza buddhista diviene la vita completamente libera (...)". Cfr. Hisamatsu, Shin'ichi, Una religione senza dio, Il melangolo, Genova, 1996, p. 69.
4. Hashizume, Daisaburo, Bukkyo no gensetsu senryaku, in "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo 1985.
5. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995, pp.119-138.
6. Ibidem, pp.108-116.
7. Nakamura, Hajime, Wittgenstein ni okeru chinmoku, in "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo, 1985, pp. 210-217.
8. Wittgenstein, Ludwig, Della certezza, Einaudi, Torino, 1978, p. 26.
9. Austin, John, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1987.
Bibliografia
AA.VV., Wittgenstein, in "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo, 1985.
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Wittgenstein, Ludwig, Zettel, Einaudi, Torino, 1986.
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Wittgenstein, Ludwig, Libro blu e Libro marrone, Einaudi, Torino, 1983.
Wittgenstein, Ludwig, Osservazioni filosofiche, Einaudi, Torino, 1976.
Wittgenstein, Ludwig, Osservazioni sui colori, Einaudi, Torino, 1982.
Wittgenstein, Ludwig, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, Einaudi, Torino, 1971.
Wittgenstein, Ludwig, Pensieri diversi, Adelphi, Milano, 1980.
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La violenza del buddhismo dalla storia alla dottrina
Articolo sulla violenza del buddhismo pubblicato dal blog Discutiamo del Giappone.
La violenza del buddhismo dalla storia alla dottrina
di Cristiano Martorella
1 luglio 2010. La diceria che descrive il buddhismo come una religione pacifica e dedita alla meditazione è tanto crudele quanto falsa. Purtroppo la storia del buddhismo ci descrive l'esatto opposto, e in Giappone troviamo gli esempi più eclatanti della trasgressione del principio di non-violenza di quei maestri buddhisti tanto venerati.
Chi non crede ai testi degli storici, giudicati frettolosamente come discutibili e quindi ignorati, può essere facilmente costretto alla resa ricorrendo alla semantica della lingua. Infatti i dizionari della lingua giapponese contengono una parola che emette una sentenza definitiva, chiara e irrevocabile. Questa parola è sohei. La parola sohei è composta da due kanji (caratteri cinesi) che significano monaco buddhista (so) e soldato (hei). I sohei erano monaci guerrieri armati che combattevano per gli interessi del proprio monastero o setta religiosa. Al contrario di quanto si possa pensare, i sohei non avevano soltanto funzione difensiva, ma partecipavano attivamente alle guerre. L'influenza politica dei monaci era così forte che il condottiero Nobunaga Oda decise di sterminarli affinché non ostacolassero la sua ascesa al potere. Il 29 settembre 1571, il tempio Enryakuji, principale monastero della setta Tendai, fu distrutto. I monaci e la popolazione civile furono uccisi senza pietà. Nel 1573 lo shogun Yoshiaki Ashikaga si alleò con i monaci guerrieri che combatterono contro il suo rivale. I monaci guerrieri ebbero sempre una parte importante nella storia militare del Giappone, fino a quando fu imposta la non belligeranza all'intero paese unificato e pacificato dallo shogunato Tokugawa (1603-1867).
Ciò che più preoccupa del fenomeno del buddhismo militante guerriero, è la disinvoltura con cui i maestri buddhisti alimentarono il fanatismo e l'istigazione alla violenza. Un esempio particolare è fornito dal rapporto fra il samurai Shijo Kingo e il monaco Nichiren. Conoscendo bene il carattere fiero e battagliero di Shijo Kingo, Nichiren ne sfruttò la psicologia a servizio della sua causa: la creazione di una setta buddhista che avrebbe dovuto avere l'egemonia in Giappone, eppoi nell'intero mondo. Invece di indurlo ad abbandonare le armi e cambiare stile di vita, Nichiren lo incoraggiò sempre nelle sue battaglie arrivando addirittura a dire che era preferibile "vivere un solo giorno con onore piuttosto che morire a centoventi anni in disgrazia". Un chiaro invito a morire per la sua causa.
Shijo Kingo sopravvisse, ma tanti altri seguaci di Nichiren morirono combattendo per lui, e le testimonianze sono fornite dalle lettere disperate delle vedove inviate al monaco con la richiesta di un aiuto. L'idea che Shijo Kingo fosse un violento irascibile non è una malevole critica dei suoi detrattori, ma un fatto storico riconosciuto anche dai suoi ammiratori (1).
Gli episodi di violenze e aggressioni fra le sette buddhiste rivali furono tanto diffusi che le autorità decisero di prendere seri provvedimenti. Nel 1279 vi fu una repressione dei seguaci di Nichiren, un evento noto come Atsuhara honan (crisi di Atsuhara). In quella occasione furono arrestate ben 20 persone, e 3 furono condannate a morte e giustiziate.
Dunque sono innegabili le violenze compiute in nome del buddhismo. La questione non è più chiedersi quante furono le vittime, aspetto storicamente inconfutabile, ma perché ciò avvenne. La risposta è semplice. La dottrina di Nichiren rifiutava gli insegnamenti provvisori (shakumon) di Buddha, ritenuti meno importanti e degni di rispetto dell'insegnamento fondamentale (honmon). Purtroppo fra gli insegnamenti provvisori (shakumon) vi è anche il principio di non-violenza. Nichiren, al contrario, fondava la sua religione unicamente nella fede nel daimoku. Il daimoku è un mantra, una formula recitata ripetutamente composta dal titolo del Sutra del Loto e preceduta dalla parola namu che significa lode, onore (dal sanscrito namas). Daimoku, infatti, significa letteralmente titolo, e indica il titolo del Sutra del Loto, in giapponese Myoho renge kyo. L'invenzione della recitazione del daimoku non è opera originale di Nichiren, ma era già stata formulata da Kukai (2) della setta Shingon.
Nichiren aveva studiato in gioventù, quando era conosciuto col nome di Zeshobo Rencho (3), presso la scuola Shingon, e conosceva quindi molto bene le pratiche esoteriche. Anche se nei suoi scritti troviamo ferme critiche al buddhismo esoterico, e soprattutto invettive che ridicolizzavano le magie delle sette Shingon e Kegon (4), Nichiren non ebbe ritegno e scrupolo a farne comunque uso. Arrivò addirittura a sostenere il sesso tantrico affermando che recitando il daimoku durante l'amplesso sessuale si sarebbe raggiunta immediatamente l'illuminazione (5). La dottrina di Nichiren si distaccò gradualmente da ogni tipo di insegnamento buddhista, eliminando ogni questione di carattere dottrinale, e basandosi unicamente sulla fede e i benefici ottenuti dalla pratica religiosa. Il daimoku così divenne una pedissequa imitazione del nenbutsu, il mantra recitato dagli avversari della setta Jodo.
In realtà queste forme del buddhismo giapponese, che si combattevano molto ferocemente fra di loro, erano in effetti simili. Nichiren, Honen e Shinran predicavano gli stessi principi: uso esasperato del mantra, abbandono fideistico, esclusivismo settario. La setta Jodo, ad esempio, ha sempre sostenuto che i peggiori peccatori avrebbero avuto accesso alla Terra Pura semplicemente recitando il nenbutsu. Ciò è stato spesso interpretato come un'indipendenza della condotta della persona dalla grazia (tariki) del Buddha Amida. Secondo Shinran, il peccatore può essere salvato soltanto tramite la fede che è un dono di Amida. Più un uomo è sprovveduto spiritualmente, più ha la possibilità di essere salvato poiché essendo incapace del minimo sforzo personale, oppone anche meno resistenza alla forza salvatrice di Amida. Questo è il senso del paradosso di Shinran che diceva: "Anche i buoni andranno in paradiso, tanto più i cattivi!"
Il problema fondamentale del buddhismo giapponese in queste forme e accezioni, è di avere una spiccata tendenza alla amoralità. Un tratto caratteristico della religione autoctona giapponese, lo shintoismo, è di essere una religione dell'estetica, quasi estranea e disinteressata alla moralità. Spesso il bene si identifica con il piacere e la bellezza. Così avviene anche per il buddhismo giapponese quando concentra la pratica sull'ottenimento di benefici materiali. Infatti il buddhismo giapponese si mischiò e fuse in maniera irreversibile con le credenze shintoiste, tanto da rimanerne influenzato. Questo sincretismo è detto shinbutsu konko, oppure shinbutsu shugo, ma viene anche indicato col nome di ryobu shinto.
Pensatori come Nichiren, Honen e Shinran non si accorsero nemmeno di essere determinati dalle tendenze culturali della loro epoca, anzi dissero al contrario di distaccarsene e di essere originali. Tutto ciò non sarebbe un pericolo, anzi avrebbe aspetti interessanti e singolari se non fosse viziato da un abbandono fideistico che corrisponde all'eliminazione di ogni voce critica. L'idea di eliminare il dualismo bene-male (zen aku funi) e di contestare la rigidità dottrinale, costituisce uno sviluppo fervido e fecondo della filosofia giapponese ereditato appunto dal buddhismo e dallo shintoismo. Ma ignorare gli effetti devastanti che il fanatismo religioso può avere, come si è visto fin qui, rappresenta il pericolo più grave per la società, sia essa occidentale oppure orientale.
Chi crede nel buddhismo deve anche fermamente rifiutare l'obbedienza cieca a una fede che invece di illuminazione e saggezza produce ottusità e chiusura. Quando si chiede di "sostituire la fede alla saggezza" si sostiene implicitamente di rinunciare all'illuminazione e alla buddhità, ciò che un buddhista autentico non potrà mai accettare.
Note
1. Daisaku Ikeda parla di "tendenza alla collera". Cfr. Daisaku Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, Arnoldo Mondadori, Milano, 2005, p.188.
2. Cfr. Sutra del Loto, traduzione di Luciana Meazza, introduzione di Francesco Sferra, Rizzoli, Milano, 2006, p.22.
3. Nichiren, il cui vero nome alla nascita era Zennichimaro, fu avviato alla vita religiosa in giovane età, e nel 1237 fu ordinato monaco al Kiyosumidera col nome di Zeshobo Rencho. Si recò quindi all'Enryakuji per approfondire lo studio del pensiero Tendai, e poi a Koya, dove studiò le teorie Shingon.
4. La setta Shingon, fondata dal monaco Kukai, si ispira al buddhismo Vajrayana ed è di indirizzo tantrico, facendo ampio uso di mandala e mantra, e in particolare di rituali magici. La setta Kegon, detta scuola dell'ornamento floreale, è una scuola mahayanica che si fonda sull'insegnamento del sutra Avatamsaka. Il tema centrale della setta Kegon è l'unità e l'interdipendenza di tutte le cose e di tutti gli eventi.
5. Il gosho in cui si trova questa affermazione è intitolato I desideri terreni sono illuminazione. Cfr. Nichiren Daishonin, Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol.4, Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, Firenze, 2000, p.145.
Bibliografia
Arena, Leonardo Vittorio, Samurai. Ascesa e declino di una grande casta di guerrieri, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.
Arena, Leonardo Vittorio, Lo spirito del Giappone. La filosofia del Sol Levante dalle origini ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 2008.
Filoramo, Giovanni (a cura di), Dizionario delle religioni, Einaudi, Torino, 1993.
Forzani, Giuseppe, I fiori del vuoto. Introduzione alla filosofia giapponese, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.
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Yampolsky, Philip, Selected Writings of Nichiren, Columbia University Press, New York, 1990.
La violenza del buddhismo dalla storia alla dottrina
di Cristiano Martorella
1 luglio 2010. La diceria che descrive il buddhismo come una religione pacifica e dedita alla meditazione è tanto crudele quanto falsa. Purtroppo la storia del buddhismo ci descrive l'esatto opposto, e in Giappone troviamo gli esempi più eclatanti della trasgressione del principio di non-violenza di quei maestri buddhisti tanto venerati.
Chi non crede ai testi degli storici, giudicati frettolosamente come discutibili e quindi ignorati, può essere facilmente costretto alla resa ricorrendo alla semantica della lingua. Infatti i dizionari della lingua giapponese contengono una parola che emette una sentenza definitiva, chiara e irrevocabile. Questa parola è sohei. La parola sohei è composta da due kanji (caratteri cinesi) che significano monaco buddhista (so) e soldato (hei). I sohei erano monaci guerrieri armati che combattevano per gli interessi del proprio monastero o setta religiosa. Al contrario di quanto si possa pensare, i sohei non avevano soltanto funzione difensiva, ma partecipavano attivamente alle guerre. L'influenza politica dei monaci era così forte che il condottiero Nobunaga Oda decise di sterminarli affinché non ostacolassero la sua ascesa al potere. Il 29 settembre 1571, il tempio Enryakuji, principale monastero della setta Tendai, fu distrutto. I monaci e la popolazione civile furono uccisi senza pietà. Nel 1573 lo shogun Yoshiaki Ashikaga si alleò con i monaci guerrieri che combatterono contro il suo rivale. I monaci guerrieri ebbero sempre una parte importante nella storia militare del Giappone, fino a quando fu imposta la non belligeranza all'intero paese unificato e pacificato dallo shogunato Tokugawa (1603-1867).
Ciò che più preoccupa del fenomeno del buddhismo militante guerriero, è la disinvoltura con cui i maestri buddhisti alimentarono il fanatismo e l'istigazione alla violenza. Un esempio particolare è fornito dal rapporto fra il samurai Shijo Kingo e il monaco Nichiren. Conoscendo bene il carattere fiero e battagliero di Shijo Kingo, Nichiren ne sfruttò la psicologia a servizio della sua causa: la creazione di una setta buddhista che avrebbe dovuto avere l'egemonia in Giappone, eppoi nell'intero mondo. Invece di indurlo ad abbandonare le armi e cambiare stile di vita, Nichiren lo incoraggiò sempre nelle sue battaglie arrivando addirittura a dire che era preferibile "vivere un solo giorno con onore piuttosto che morire a centoventi anni in disgrazia". Un chiaro invito a morire per la sua causa.
Shijo Kingo sopravvisse, ma tanti altri seguaci di Nichiren morirono combattendo per lui, e le testimonianze sono fornite dalle lettere disperate delle vedove inviate al monaco con la richiesta di un aiuto. L'idea che Shijo Kingo fosse un violento irascibile non è una malevole critica dei suoi detrattori, ma un fatto storico riconosciuto anche dai suoi ammiratori (1).
Gli episodi di violenze e aggressioni fra le sette buddhiste rivali furono tanto diffusi che le autorità decisero di prendere seri provvedimenti. Nel 1279 vi fu una repressione dei seguaci di Nichiren, un evento noto come Atsuhara honan (crisi di Atsuhara). In quella occasione furono arrestate ben 20 persone, e 3 furono condannate a morte e giustiziate.
Dunque sono innegabili le violenze compiute in nome del buddhismo. La questione non è più chiedersi quante furono le vittime, aspetto storicamente inconfutabile, ma perché ciò avvenne. La risposta è semplice. La dottrina di Nichiren rifiutava gli insegnamenti provvisori (shakumon) di Buddha, ritenuti meno importanti e degni di rispetto dell'insegnamento fondamentale (honmon). Purtroppo fra gli insegnamenti provvisori (shakumon) vi è anche il principio di non-violenza. Nichiren, al contrario, fondava la sua religione unicamente nella fede nel daimoku. Il daimoku è un mantra, una formula recitata ripetutamente composta dal titolo del Sutra del Loto e preceduta dalla parola namu che significa lode, onore (dal sanscrito namas). Daimoku, infatti, significa letteralmente titolo, e indica il titolo del Sutra del Loto, in giapponese Myoho renge kyo. L'invenzione della recitazione del daimoku non è opera originale di Nichiren, ma era già stata formulata da Kukai (2) della setta Shingon.
Nichiren aveva studiato in gioventù, quando era conosciuto col nome di Zeshobo Rencho (3), presso la scuola Shingon, e conosceva quindi molto bene le pratiche esoteriche. Anche se nei suoi scritti troviamo ferme critiche al buddhismo esoterico, e soprattutto invettive che ridicolizzavano le magie delle sette Shingon e Kegon (4), Nichiren non ebbe ritegno e scrupolo a farne comunque uso. Arrivò addirittura a sostenere il sesso tantrico affermando che recitando il daimoku durante l'amplesso sessuale si sarebbe raggiunta immediatamente l'illuminazione (5). La dottrina di Nichiren si distaccò gradualmente da ogni tipo di insegnamento buddhista, eliminando ogni questione di carattere dottrinale, e basandosi unicamente sulla fede e i benefici ottenuti dalla pratica religiosa. Il daimoku così divenne una pedissequa imitazione del nenbutsu, il mantra recitato dagli avversari della setta Jodo.
In realtà queste forme del buddhismo giapponese, che si combattevano molto ferocemente fra di loro, erano in effetti simili. Nichiren, Honen e Shinran predicavano gli stessi principi: uso esasperato del mantra, abbandono fideistico, esclusivismo settario. La setta Jodo, ad esempio, ha sempre sostenuto che i peggiori peccatori avrebbero avuto accesso alla Terra Pura semplicemente recitando il nenbutsu. Ciò è stato spesso interpretato come un'indipendenza della condotta della persona dalla grazia (tariki) del Buddha Amida. Secondo Shinran, il peccatore può essere salvato soltanto tramite la fede che è un dono di Amida. Più un uomo è sprovveduto spiritualmente, più ha la possibilità di essere salvato poiché essendo incapace del minimo sforzo personale, oppone anche meno resistenza alla forza salvatrice di Amida. Questo è il senso del paradosso di Shinran che diceva: "Anche i buoni andranno in paradiso, tanto più i cattivi!"
Il problema fondamentale del buddhismo giapponese in queste forme e accezioni, è di avere una spiccata tendenza alla amoralità. Un tratto caratteristico della religione autoctona giapponese, lo shintoismo, è di essere una religione dell'estetica, quasi estranea e disinteressata alla moralità. Spesso il bene si identifica con il piacere e la bellezza. Così avviene anche per il buddhismo giapponese quando concentra la pratica sull'ottenimento di benefici materiali. Infatti il buddhismo giapponese si mischiò e fuse in maniera irreversibile con le credenze shintoiste, tanto da rimanerne influenzato. Questo sincretismo è detto shinbutsu konko, oppure shinbutsu shugo, ma viene anche indicato col nome di ryobu shinto.
Pensatori come Nichiren, Honen e Shinran non si accorsero nemmeno di essere determinati dalle tendenze culturali della loro epoca, anzi dissero al contrario di distaccarsene e di essere originali. Tutto ciò non sarebbe un pericolo, anzi avrebbe aspetti interessanti e singolari se non fosse viziato da un abbandono fideistico che corrisponde all'eliminazione di ogni voce critica. L'idea di eliminare il dualismo bene-male (zen aku funi) e di contestare la rigidità dottrinale, costituisce uno sviluppo fervido e fecondo della filosofia giapponese ereditato appunto dal buddhismo e dallo shintoismo. Ma ignorare gli effetti devastanti che il fanatismo religioso può avere, come si è visto fin qui, rappresenta il pericolo più grave per la società, sia essa occidentale oppure orientale.
Chi crede nel buddhismo deve anche fermamente rifiutare l'obbedienza cieca a una fede che invece di illuminazione e saggezza produce ottusità e chiusura. Quando si chiede di "sostituire la fede alla saggezza" si sostiene implicitamente di rinunciare all'illuminazione e alla buddhità, ciò che un buddhista autentico non potrà mai accettare.
Note
1. Daisaku Ikeda parla di "tendenza alla collera". Cfr. Daisaku Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, Arnoldo Mondadori, Milano, 2005, p.188.
2. Cfr. Sutra del Loto, traduzione di Luciana Meazza, introduzione di Francesco Sferra, Rizzoli, Milano, 2006, p.22.
3. Nichiren, il cui vero nome alla nascita era Zennichimaro, fu avviato alla vita religiosa in giovane età, e nel 1237 fu ordinato monaco al Kiyosumidera col nome di Zeshobo Rencho. Si recò quindi all'Enryakuji per approfondire lo studio del pensiero Tendai, e poi a Koya, dove studiò le teorie Shingon.
4. La setta Shingon, fondata dal monaco Kukai, si ispira al buddhismo Vajrayana ed è di indirizzo tantrico, facendo ampio uso di mandala e mantra, e in particolare di rituali magici. La setta Kegon, detta scuola dell'ornamento floreale, è una scuola mahayanica che si fonda sull'insegnamento del sutra Avatamsaka. Il tema centrale della setta Kegon è l'unità e l'interdipendenza di tutte le cose e di tutti gli eventi.
5. Il gosho in cui si trova questa affermazione è intitolato I desideri terreni sono illuminazione. Cfr. Nichiren Daishonin, Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol.4, Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, Firenze, 2000, p.145.
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Yampolsky, Philip, Selected Writings of Nichiren, Columbia University Press, New York, 1990.
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