martedì 15 dicembre 2009

Bodai

Saggio sul concetto di illuminazione nel buddhismo pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Bodai.

L’Associazione Culturale Eumeswil ha organizzato con il patrocinio del comune di Firenze, un ciclo di conferenze su un tema prefissato riguardante la spiritualità, la tradizione e la conoscenza di sé. Il giorno sabato 5 maggio 2007, alle ore 17.00, si è svolta presso l’Educandato Statale SS. Annunziata in Firenze, la conferenza intitolata “Il satori nel buddhismo zen”. Il relatore cercherà con la seguente relazione di riassumere e approfondire i temi trattati.


Bodai, il risveglio dell’autentico essere
di Cristiano Martorella

Il concetto di illuminazione, pur essendo fondamentale e centrale nel buddhismo, non è affatto chiaro e definito, restando per sua stessa natura ineffabile e sfuggevole. Eppure, il Buddha storico, Shakyamuni, acquisisce il titolo di Buddha in virtù della sua illuminazione. In sanscrito illuminazione si dice bodhi, termine tradotto in giapponese con le parole bodai e satori. Una persona che ha raggiunto l’illuminazione, la bodhi, è perciò detta Buddha. Quindi si è Buddha soltanto tramite l’illuminazione. Tuttavia l’illuminazione non può essere conosciuta da chi non l’ha raggiunta perché l’illuminazione è un’esperienza. Il paradosso è evidente. Si parla dell’illuminazione di Buddha pur senza avere un concetto chiaro di cosa sia. Si ammette, per definizione, che sia inconoscibile se non si è Buddha. Buddha soltanto possiede l’esperienza dell’illuminazione. Per quale motivo non esiste un concetto chiaro di illuminazione? Questo avviene perché l’illuminazione non è un concetto e nemmeno un’idea o intuizione. L’illuminazione è un’esperienza. Esperienza di cosa? Semplicemente l’esperienza dell’illuminazione. L’illuminazione è un’esperienza per sé che non ha un oggetto o contenuto particolare. Quindi si può dire per esteso e più chiaramente che l’illuminazione è l’esperienza di una condizione, uno stato d’essere. Però la difficoltà nella comprensione della questione è soltanto evidenziata, non è ancora risolta. L’illuminazione è un’esperienza. Quindi, come qualsiasi esperienza, essa innanzitutto si prova, viene esperita, sperimentata. La descrizione verbale non trasmette affatto l’esperienza (1). Questa caratteristica dell’illuminazione ha costretto alcune scuole zen, come la setta Rinzai, ad adottare una strategia verbale che ha lo scopo di mostrare il limite della parola, e quindi superarlo. Al contrario, la setta Soutou, pratica una meditazione silenziosa chiamata zazen, consistente nello stare seduti in silenzio. Anche se opposti questi metodi sono entrambi validi (2). La validità di una pratica buddhista si misura sui risultati e gli effetti conseguiti. Non è un’astratta elaborazione. La verifica è l’unico criterio accettabile (3). Il Buddha spiegava che i suoi insegnamenti sono espedienti, mezzi per conseguire la buddhità. Lo scopo del buddhismo non è il rituale, lo scopo è l’illuminazione. Essendo l’illuminazione un’esperienza, è perciò strettamente personale. Per questo motivo i metodi adottati devono adeguarsi alla persona particolare. L’abilità nell’usare espedienti diversi adatti alle singole persone e alle particolari situazioni era una capacità del Buddha. I mezzi (4) possono essere i più disparati : un discorso, una commissione, un gesto, il lavaggio dei panni, il dono di un fiore. L’importante è suscitare l’introspezione del sé e la compenetrazione delle cose, toccando le corde sensibili della personalità di un essere umano.
Il carattere strettamente personale dell’illuminazione è descritto dall’espressione soku shin soku butsu, il Buddha è il proprio cuore. L’aspetto personale dell’illuminazione si comprende meglio da uno studio dei testi buddhisti, in particolare gli ultimi e più recenti come il Sutra del Loto e il Sutra della Ghirlanda, i quali ribadiscono che la natura di Buddha appartiene a tutti gli esseri viventi. Quindi tutti hanno davvero l’illuminazione, semplicemente non sanno di possederla. Fin qui si è detto qualcosa di più circoscritto circa l’illuminazione: è un’esperienza che tutti possiedono. Così ci sono le coordinate che permettono di individuare ciò di cui parliamo. L’ultima coordinata che Buddha ci fornisce è la purezza. La purezza si ottiene eliminando gli agenti tossici che inquinano la mente. Questi agenti tossici sono chiamati i tre veleni (san doku). Essi sono ira (ikari), desiderio (musabori) e ignoranza (oroka). Il buddhismo ha suggerito in epoche diverse soluzioni alternative ai tre veleni. Il buddhismo Hinayana suggeriva preferibilmente l’affrancamento dai tre veleni tramite le porte che conducono alla liberazione, ossia il riconoscimento del non sé, non desiderio, non forma. Questi insegnamenti ci dicono che non esistono forme permanenti , tutto è transitorio, anche il sé e il desiderio. Il buddhismo Mahayana più semplicemente suggerisce di trasformare i tre veleni. L’ira in forza vitale, il desiderio in compassione, e l’ignoranza in saggezza. Insieme alla purificazione dai tre veleni, il buddhismo pratica la visione e contemplazione della propria mente (kanjin). Infatti è importantissimo conoscere la propria mente per comprendere la natura delle illusioni e trasformare gli agenti tossici. Questa pratica avviene attraverso la meditazione.
In conclusione, lo scopo del buddhismo, e in particolare dello zen, è liberare la vita da scopi artificiosi e innaturali rivelandone il suo autentico potenziale. Lo zen si presenta sempre come contraddittorio e inafferrabile perché non accetta appunto qualsiasi genere di manipolazione e strumentalizzazione. Ogni volta che si tenta di fissare la mente a qualcosa, immediatamente lo zen lo nega. Se ci si rivolge alla negazione, nega anche quest’ultima. La verità non è in qualcosa, la verità è in tutto. La mente offuscata è capace soltanto di discriminare e distinguere, viceversa la mente illuminata è capace di comprendere e compenetrare. Per questo motivo la mente dello zen è più vicina alla mente di un bambino che gioca, ed è lontanissima dalla mente di chi è convinto delle opinioni e tronfio delle certezze. Dogen affermava che tenendo la mano aperta in un deserto passerà tutta la sabbia trasportata dal vento, mentre tenendo la mano chiusa si stringeranno pochi granelli. Lo zen insegna a concepire le opportunità e rifiutare il possesso di ciò che può divenire un ostacolo per la vita. Un esempio della mente ingannevole è fornito dall’immagine della scimmia che si agita e tormenta perché non riesce ad afferrare il riflesso della luna nell’acqua. Quante volte la mente umana si comporta così, tormentandosi e agitandosi nel tentativo di possedere qualcosa? Una domanda senza soluzione è sufficiente a gettare nell’angoscia e nelle tribolazioni. Pur essendo evidente la dannosità di un simile atteggiamento, non si riesce ad evitarlo. La mente non è addestrata a rifiutare la tentazione delle cattive abitudini. La pratica dello zen consiste nello sforzo supremo di imparare a guidare la mente, e non farsi trascinare e controllare dalla mente ingannata e ingannevole. Si comincia osservando la mente e imparando a conoscerla. Quando ciò è avvenuto, la mente non è più un avversario che si scontra con la realtà, ma un compagno di viaggio.
L’esperienza dell’illuminazione consiste nella consapevolezza del non dualismo fra soggetto e ambiente (esho funi), ossia nella compartecipazione nell’identità di individuo e universo. Questa consapevolezza porta al superamento di tutti quei fuorvianti dualismi che ostacolano la vita. Così si comprende il non dualismo di maestro e allievo (shitei funi), e soprattutto il non dualismo di corpo e mente (shikishin funi). Se il mondo è il contenuto della propria coscienza, ossia ciò che percepiamo e pensiamo, è anche vero che la coscienza è una creazione del mondo. L’ambiente ha formato e sviluppato l’individuo. Chi crea è contemporaneamente il creato e il creatore. Riconoscere questo dualismo nella sua autentica natura di identità significa possedere l’illuminazione (bodai).

Note

1. Per questo motivo i maestri zen dicono che l’insegnamento del buddhismo può avvenire soltanto da cuore a cuore (ishindenshin).
2. La meditazione silenziosa è detta in giapponese mokusho zen, la meditazione sulle parole è invece detta kanna zen.
3. Anche il Dalai Lama insiste sulla necessità della verifica nella pratica buddhista. La fede cieca è un flagello e pericolo per le religioni che divengono così intolleranti e fanatiche. Cfr. Dalai Lama, La compassione e la purezza, Rizzoli, Milano, 1995, pp.90-91.
4. Espedienti o mezzi, in sanscrito upaya, in giapponese hoben.

Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Storia del buddhismo Ch’an, Mondadori, Milano,1992.
Alteriani, Fulvio, Zen. Filosofia, arte della vita, pratica quotidiana, Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1996.
Eco, Umberto, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962.
Guareschi, Fausto Taiten, Guida allo zen, De Vecchi Editore, Milano, 1994.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
Izutsu, Toshihiko, La filosofia del Buddhismo Zen, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1984.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori. Relazione del corso di Filosofia del Linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, La Verità e il Luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", anno II, n. 4, giugno-agosto 2006.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Il pluralismo del doppio, in "LG Argomenti", n.3, anno XXXVIII, luglio-settembre 2002.
Puech, Henri-Charles, Storia del Buddhismo, Laterza, Bari, 1984.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Manual of Zen Buddhism, Rider and Company, London, 1974.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Zen and Japanese Culture, Bollingen Series, New York, 1959.
Vattimo, Gianni, Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano, 1981.
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Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Bompiani, Milano, 1985.
Vattimo, Gianni, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano, 1979.
Watts, Alan, Lo Zen, Bompiani, Milano, 1959.
Watts, Alan, La via dello Zen, Feltrinelli, Milano, 1960.
Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Arcana Editrice, Milano, 1973.

sabato 12 dicembre 2009

Beat zen

Articolo sul beat zen pubblicato dal sito Nipponico.com.

Beat zen
La filosofia giapponese fra pop e new age
di Cristiano Martorella

6 febbraio 2003. La definizione di beat zen fu formulata da Alan Watts nel tentativo di chiarire la sua posizione rispetto al successo popolare che lo zen stava avendo in America negli anni ’50. Alan Watts introduceva una distinzione fra beat zen e square zen utilizzando una terminologia già esistente e di estrema attualità (1). Con square zen si indica lo zen istituzionalizzato delle scuole Soto e Rinzai, mentre con beat zen si definisce lo zen popolare e volgarizzato, spesso collegato a movimenti artistici. Le parole square (quadrato) e beat (fallito) provengono dal linguaggio hipster degli anni ’50. Square, il conformista, si opponeva a beat, alla gioventù bruciata che viveva nelle strade e nelle comunità artistiche. Alan Watts non si schiera a favore di un genere di zen contro l’altro, e con saggezza mostra quanto sia sconveniente creare una simile contrapposizione poiché lo zen è meno formale di quanto si creda. La gerarchia e l’istituzionalizzazione è avvenuta soltanto dopo un processo storico che ha assorbito lo zen nella società.

"Nel corso dei secoli, comunque il processo di rifiuto dell’insegnamento e il rispondere alle domande con altre domande è diventato sempre più formale. Sono sorti dei templi e degli istituti dove viene impartito un vero e proprio insegnamento e questo a sua volta ha creato problemi di proprietà, amministrazione e disciplina costringendo il buddhismo zen ad assumere la forma di una gerarchia di tipo tradizionale. Nell’Estremo Oriente questo fenomeno è continuato fino a divenire parte del paesaggio e alcuni dei suoi inconvenienti sono annullati dal fatto che sembra essere del tutto naturale. Non vi è nulla di “esotico o speciale” in questo fenomeno. Anche le cose organizzate possono crescere con naturalezza. Ma a me sembra che trapiantare questo stile zen in Occidente sarebbe una cosa del tutto artificiale." (2)

Alan Watts non intende favorire un genere di zen a discapito di un altro. Addirittura arriva a dire che beat zen e square zen possono completarsi a vicenda per dare vita a una forma di zen pura e vivace. Comunque, se si può giungere al satori (illuminazione) seguendo ambedue le vie, Watts coglie l’occasione per far notare gli errori dei seguaci di entrambe le scuole. Gli studiosi formali dello zen hanno la tendenza ad attribuire un valore eccessivo alle idee e ai concetti, studiando rigorosamente i testi e dimenticando che essi sono soltanto dei mezzi. Addirittura assumono un atteggiamento snob che rifiuta la spontaneità e la creatività. Perfino Suzuki Daisetsu fu considerato nelle università americane come un semplice divulgatore, piuttosto che uno studioso serio e originale. Ciò avvenne perché si dava troppa importanza alla sistematicità e al rigore scientifico. L’altro errore è costituito dall’attrattiva che le religioni esotiche esercitano sugli occidentali. Spesso si tratta di un interesse nato dall’insoddisfazione per le religioni monoteiste, però è una curiosità che rimane a un livello superficiale e immaturo, piuttosto confuso, qualcosa che ricorda le tendenze mistiche del movimento new age. Alan Watts cerca di mettere in evidenza, e a nostro giudizio vi riesce, le motivazioni che spingono ad abbandonare le religioni monoteistiche nel mondo moderno.

"L’universo giudaico-cristiano è un universo in cui il bisogno morale, l’ansia di essere nel giusto abbraccia e penetra ogni cosa. Dio, l’Assoluto stesso, è il bene opposto al male e così essere immorali o sbagliare significa sentirsi un esiliato non solo dalla società umana ma anche dall’esistenza stessa, dalla radice e dalla base della vita. Sbagliare suscita quindi un’angoscia metafisica e un senso di colpa - uno stato di dannazione eterna - del tutto sproporzionato al crimine commesso. Questa colpa metafisica è così insopportabile che infine sfocia nel rifiuto di Dio e delle sue leggi, che è proprio quello che è successo al movimento del secolarismo, del materialismo e del naturalismo moderni. La moralità assoluta distrugge profondamente la stessa moralità, perché le sanzioni che invoca contro il male sono eccessive. Non ci si cura il mal di testa tagliandosela. Il fascino dello zen, come quello di altre forme di filosofie orientali, è dato dal fatto che questo rivela, dietro al regno incalzante del bene e del male, una vasta regione di se stessi per la quale non è necessario sentirsi in colpa o fare recriminazioni, dove infine l’io non è distinto da Dio." (3)

Alan Watts suggerisce qualcosa di molto acuto per evitare l’errore appena descritto.

"Ma l’occidentale che è attratto dallo zen e che è in grado di capirlo profondamente deve avere un attributo indispensabile: deve capire la propria cultura in modo così completo da non venir più influenzato inconsciamente dalle sue premesse." (4)

Questa affermazione è condivisibile, e aggiungiamo che costituisce una convalida a quanto abbiamo sostenuto riguardo al concetto di specificità giapponese (5). La specificità giapponese può essere compresa soltanto se conosciamo bene la cultura occidentale, perché specificità e universalità sono unicamente le due facce della stessa medaglia, la realizzazione concreta di storia e cultura. Comprendere il processo universale della storia permette di distinguere l’autentica specificità delle differenti culture, altrimenti si resta a un livello astratto. Alan Watts sposta questo concetto all’ambito individuale. Ed è corretto procedere così. Bildung (formazione) della persona e disciplina zen coincidono secondo un modo un po’ riduttivo ma efficace d’intendere il buddhismo. Eppure c’è qualcosa di molto più sottile e sconvolgente nella pratica zen. Sekida Katsuki lo spiega attraverso la lezione della filosofia di Edmund Husserl.

"Husserl dice che l’io come persona, come una cosa nel mondo va eliminato attraverso la riduzione fenomenologica. L’io come una cosa nel mondo è in effetti l’attività abituale della coscienza, che è gravata da un confuso pensiero illusorio. Quello che Husserl dice può essere riassunto nell’asserzione che se si arresta l’attività della coscienza abituale, anche il confuso pensiero illusorio nell’esperienza personale, psicologica, individuale, scomparirà, e apparirà al suo posto la pura coscienza. Se questa interpretazione è corretta, allora possiamo dire soltanto che questo è esattamente quello che cercano di fare gli studenti di zen, quando siedono sui loro cuscini." (6)

La ricerca della pratica zen risiede nel tentativo di liberare la coscienza dai suoi condizionamenti. Anche Alan Watts è chiaro su questo punto.

"Per ragioni piuttosto diverse i giapponesi tendono a trovarsi a disagio nei confronti di se stessi tanto quanto gli occidentali, visto che possiedono un senso del rispetto umano acuto quasi quanto il nostro più metafisico senso del peccato. Questo si verificava soprattutto nella classe più sensibile allo zen, quella dei samurai. Ruth Benedict […] aveva perfettamente ragione quando diceva che l’attrazione che la casta dei samurai provava per lo zen derivava dal potere che questa dottrina aveva di liberare da un’autocoscienza estremamente imbarazzante, dovuta al tipo di educazione impartita ai giovani. Di questa autocoscienza fa parte quell’obbligo che i giapponesi sentono di competere con se stessi, un obbligo che riduce ogni arte e sapere a una maratona di autodisciplina. Anche se l’attrazione esercitata dallo zen consiste nella possibilità che esso offre di liberarsi da questa autocoscienza, la versione giapponese dello zen combatteva il fuoco con il fuoco, superando “l’io che osserva se stesso” con il portarlo a un’intensità tale da farlo esplodere." (7)

Lo zen giapponese è dunque “il superamento del superamento”, la filosofia che permette di giungere all’assoluto tramite il particolare portato all’eccesso. Queste considerazioni ci permettono di analizzare il valore dello zen dal punto di vista delle scienze sociali. Nonostante i severi e corretti rimproveri rivolti da Franco Ferrarotti (8) al movimento new age, ci sembra che si possa fornire un’ulteriore analisi non del tutto negativa.
Secondo Gianni Vattimo il pensiero occidentale moderno è superamento e fondazione (9). Queste due istanze si troverebbero nella logica dello sviluppo che sarebbe stata abbandonata dalla postmodernità. Le caratteristiche della postmodernità sarebbero la desecolarizzazione, la fine delle grandi narrazioni e la crisi dell’idea di progresso. La desecolarizzazione coincide con l’abbandono del pensiero positivista e il ritorno alle credenze spirituali, come appunto la new age. Eppure non corrisponde all’esperienza di queste religioni la rinuncia all’idea di superamento e progresso, anzi subisce un’accelerazione. L’influenza dello zen sposta il superamento al “superamento del superamento”. Una contraddizione soltanto apparente: il superamento del superamento è esso stesso superamento. Poiché lo zen non elimina il soggetto ma lo riunifica all’universo, eliminandolo soltanto come cosa isolata nel mondo, l’interpretazione qui presentata della postmodernità non è corretta. L’idea di superamento non è eliminata. Gianni Vattimo rimane ancora imprigionato nella logica occidentale che concepisce il superamento come eliminazione, una logica che Georg Hegel aveva indicato come fallace e aveva sostituito con la fenomenologia dello spirito.

Dunque il concetto di postmodernità è fuorviante per capire new age, cultura pop e beat zen. New age e beat zen non contrappongono modernità e antichità, piuttosto operano una sintesi. La contaminazione di moderno e antico non deve scandalizzare perché il criterio dello zen non pone al centro del sapere un dogma, al contrario apre il mondo alle infinite possibilità dell’esistenza. Se il movimento new age è criticabile per i molti difetti che lo caratterizzano, ciò non deve escludere che possa avere qualche influenza vantaggiosa, ad esempio l’avvicinamento, anche superficiale, alla filosofia orientale. Condannare la cultura popolare contemporanea è un comportamento snob tipico degli intellettuali che si atteggiano in modo saccente, ma anche esaltare la cultura pop in contrapposizione al passato o ad altre forme culturali è un comportamento esasperato e ingiustificato. Passato, presente e futuro non sono mai contrapposti nella cultura che essendo viva è capace di evolversi continuamente superando qualsiasi dicotomia. Perciò gli scritti di Alan Watts su beat zen e square zen sono un esempio di equilibrio e buon senso da seguire. C’è poi da sottolineare il fatto che la religione non è soltanto una questione fra dotti, ma riguarda una moltitudine di persone. Escludere l’aspetto popolare della religione significa eliminare il senso profondo della religione: creare un legame fra i membri di una comunità. L’etimologia della parola religione proviene dal latino relegere (raccogliere).

Note

1. Alan Watts discusse l’argomento del beat zen in alcuni saggi, e in particolare in Beat Zen, Square Zen e Zen pubblicato su “The Chicago Review” (estate 1958). Questi interventi sono stati raccolti in volume e tradotti in italiano: Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, traduzione di Piero Verni, Arcana Editrice, Milano, 1973.
2. Cfr. Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, nuova edizione, traduzione di Piero Verni, Aries/Arcana Editrice, Milano, 1996, p.61.
3. Ibidem, p.68.
4. Ibidem, p.68.
5. Cristiano Martorella, Il concetto giapponese di economia, Relazione al XXV convegno di studi sul Giappone, Venezia, 6 ottobre 2001.
6. Cfr. Sekida, Katsuki, La pratica dello zen. Metodi e filosofia, Astrolabio, Roma, 1976, p.170. Per il riferimento alla riduzione fenomenologica si consulti: Husserl, Edmund, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, traduzione di Enrico Filippini e Giulio Alliney, Einaudi, Torino, 1965.
7. Cfr. Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, nuova edizione, Aries/Arcana Editrice, Milano, 1996, p.63.
8. Ferrarotti, Franco, La verità? È altrove. All’insegna della new age, Donzelli Editore, Roma, 1999.
9. Cfr. Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985, pp.10-11.

Bibliografia

Alteriani, Fulvio, Zen. Filosofia, arte della vita, pratica quotidiana, Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1996.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
Izutsu, Toshihiko, La filosofia del Buddhismo Zen, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1984.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori, Relazione del corso di Filosofia del Linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, Quando Uzume salvò il mondo con una risata, Relazione del corso di Linguistica, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Puech, Henri-Charles, Storia del Buddhismo, Laterza, Bari, 1984.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Manual of Zen Buddhism, Rider and Company, London, 1974.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Zen and Japanese Culture, Bollingen Series, New York, 1959.
Watts, Alan, La via dello Zen, Feltrinelli, Milano, 1960.
Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Arcana Editrice, Milano, 1973.

domenica 6 dicembre 2009

Hipster e influenze zen

Articolo sul rapporto fra hipster e buddhismo zen pubblicato dal sito Nipponico.com.

Hipster e influenze zen
Le tendenze pop fra arte e religione
di Cristiano Martorella

24 febbraio 2003. Negli anni '50 e '60 del secolo scorso vi fu un crescente e vivace interesse per la religione orientale in Europa e America. Oltre all'apprezzamento crescente dell'induismo, manifestato anche dal complesso pop dei Beatles con un viaggio in India e la produzione di un disco da parte di George Harrison per gli Hare Krishna, vi fu l'interesse per un'altra corrente religiosa, ossia lo zen giapponese. Gli artefici del boom dello zen in Occidente furono Suzuki Daisetsu in America e Deshimaru Taisen in Europa, i quali con i loro viaggi, le conferenze e le pubblicazioni fornirono un'esposizione non superficiale dello zen. Questo interesse non si limitò agli ambienti accademici, ma esplose in particolare nelle tendenze artistiche del periodo. Non è affatto indebita l'associazione fra lo zen e le arti poiché era già presente nella matrice originaria giapponese (1). L'arte è anche una componente essenziale del movimento hipster (in giapponese hippusuta) che rifiuta la american way of life. Nati nelle comunità artistiche della North Beach di San Francisco e del Village di New York, gli hipster adottarono lo zen come giustificazione del loro disimpegno sociale. Infatti lo zen tradizionale criticava l'artificiosità della società esaltando il potere di liberazione dell'individuo attraverso l'autocoscienza. Gli hipster si ribellarono al sistema attraverso un totale disimpegno, non cercando di cambiare l'ordine sociale, ma escludendosi. Un atteggiamento radicale e perciò maggiormente ribelle.
Nell'arte zen gli hipster trovarono una legittimazione della loro concezione estetica della vita e della loro poetica spontanea e informale. Viceversa hipster, beatnik e hippy furono anche un laboratorio sperimentale a cui fecero riferimento le arti d'avanguardia dal 1947, periodo di nascita dell'action painting di Jackson Pollock, fino agli anni '60 e '70 e al consolidamento dell'esperienza dei gruppi Fluxus e Gutai. Sarebbe inesatto ritenere conclusa la parabola di queste correnti artistiche che sono ancora influenti. Piuttosto dagli anni '80 si è assistito a un riconoscimento dell'arte ribelle che ha coinciso con un inserimento nei musei e uno studio accademico, il quale snatura il carattere trasgressivo e contestatario. Questa osservazione vale anche per l'utilizzo dell'espressione subcultura che si rivela utile come etichetta sociologica, ma fuorviante per la comprensione dei reali fenomeni storici. Come si è detto in precedenza, dagli anni '80 in poi si è assistito a una normalizzazione dell'arte pop che divenne inglobata e divorata dal marketing delle aziende. L'industria della cultura nata con la società del consumo di massa non ha risparmiato le avanguardie, trasformando in merce anche i fenomeni di contestazione più radicali. Però non si può nemmeno affermare che le avanguardie siano le vittime inermi della omologazione. Infatti sono state le avanguardie, e i gruppi artistici sperimentali come gli hipster, a sostenere uno spirito egualitario e una concezione estetizzante della vita che condannava l'arte elitaria (2). Essi stessi hanno contribuito a formare una cultura di massa e a far uscire l'arte dai suoi confini tradizionali. Inoltre l'uso dei mass media distribuisce una visione generale estetizzata della vita. Piuttosto che informazione i mass media producono consenso e un sentire comune. Eppure questa concezione estetizzante era il proponimento degli hipster. E questo proposito non si è fermato qui.
La cultura di massa utilizza ampiamente l'arte pop nata spontaneamente e trasgressivamente. Perciò è fuorviante contrapporre cultura e subcultura. La cultura così come intesa nel XIX secolo non esiste più. Se dovessimo contrapporre cultura di massa e subcultura sarebbe una contraddizione in termini. Non può esistere una cultura di massa alla quale si esclude una cultura di gruppo. La cultura di massa arriva ovunque, specialmente nell'attuale mondo globalizzato, e ce ne accorgiamo studiando le subculture. Infatti esse si appoggiano sul potere pervasivo dei mass media (radio, televisione, internet, etc.). Se parliamo di subculture è esclusivamente per motivi di carattere accademico. Infatti è molto più comodo restringere un argomento di studio etichettandolo invece di stabilire i rapporti fra i fenomeni culturali più complessi. Al contrario la cultura pop nega una contrapposizione fra cultura alta e cultura di base, a favore di un'arte egualitaria come fatto estetico integrale. Chi continua a utilizzare la terminologia della subcultura si rivela decisamente conservatore riproponendo la distinzione fra cultura alta e bassa. Ed è evidente nello stesso termine subcultura (qualcosa che sta sotto).
Per questi motivi non è indebito studiare l'influenza che lo zen tradizionale ebbe sui movimenti popolari occidentali in tutte le sue forme. Alan Watts fu il primo occidentale a mettere in risalto quanto fosse insensato contrapporre lo zen tradizionale studiato nelle università allo zen eclettico e folcloristico degli hipster (3). Lo zen non è una disciplina formale anche se ha assunto degli aspetti istituzionali. La pratica dello zen è la ricerca del risveglio spirituale, la liberazione (gedatsu) dalle convenzioni che non permettono d'avere la conoscenza della natura autentica dell'universo. Come ciò accada è indifferente, e i maestri zen sono consapevoli di quanto l'illuminazione (satori) sia un fatto individuale. Un aspetto rimarcato dal detto "se incontri Buddha uccidilo", una affermazione che va intesa come il ridimensionamento dell'insegnamento tramite un maestro (4). Uccidere Buddha quando lo si incontra significa distruggere la speranza che qualcuno all'infuori di noi possa essere il nostro padrone. Uccidere il maestro era un'espressione già usata da Rinzai Gigen nel IX secolo.
Nel 1959 Umberto Eco riprese e commentò il saggio di Alan Watts criticando l'idea che potesse esserci un'autentica influenza dello zen nelle mode culturali occidentali (5). Secondo Eco lo zen era piuttosto una semplice giustificazione degli hipster al proprio individualismo anarchico. Autori come Jack Kerouac adotterebbero i modi esteriori di un conformismo orientale per legittimare attraverso lo zen le intemperanze e i vagabondaggi (6). La tesi di Umberto Eco non ci sembra però sufficiente per spiegare il successo dello zen in Occidente. Liquidare in questo modo la questione, affrontandone soltanto un aspetto, non è vantaggioso per lo studioso. Dal punto di vista delle scienze sociali l'interpretazione dei fenomeni deve avvenire senza un preventivo giudizio di merito. Comunque sia il comportamento umano, va prima considerato in relazione ai valori apportati, e in seguito giudicato. Inoltre qui permane una distinzione fra cultura alta e bassa che ha poca efficacia nella società dei consumi di massa. Come afferma Alessandro Baricco, anche Beethoven è un brand (7). Piuttosto ci sono molti aspetti dello zen che sfuggono ancora. Alan Watts mette in evidenza nel suo saggio già citato, come lo zen nipponico sia un movimento di reazione e contestazione all'eccessivo formalismo della società giapponese. Egli fa notare che l'istituzionalizzazione dello zen è stato un processo storico (8) che ha comportato una formalizzazione esteriore. Ma non è l'aspetto esteriore che ci può spiegare il valore dello zen. Gli hipster colgono nella tradizione orientale il rifiuto della vita mondana, e con ciò non si sbagliano.
In Oriente è sempre esistito uno spazio sociale autonomo riservato alla spiritualità. In India gli yogin che si rifacevano agli insegnamenti di Patanjali, sostenevano che il pensiero vincolasse a una concezione erronea della realtà da cui si poteva uscire attraverso esercizi fisici (asana) e psichici (dhyana). In Cina e Giappone i buddhisti riconobbero il carattere illusorio della realtà e suggerirono d'abbandonare l'attaccamento (upadana) alle cose. Buddha aveva accettato nell'ordine religioso (sangha) i membri di qualsiasi casta, minando i fondamenti della gerarchia sociale. Nell'Occidente cristiano, invece, la chiesa riconosceva ancora un forte potere ai ceti elevati. Il regnante riceveva l'incontestabile investitura da Dio (viceversa in Cina, ad esempio, il mandato celeste poteva essergli ritirato dalle divinità). Quando si avanzò la proposta di separare il potere religioso e politico avvenne appunto perché la sovrapposizione era divenuta inaccettabile portando a contrasti laceranti. Ma lo spazio sociale riservato alla religione era stato inevitabilmente occupato dalla politica. Anche in Oriente la politica ha invaso e si è appropriata della religione per fini utilitaristici. Però le religioni politeiste e panteiste sono meno vulnerabili alla strumentalizzazione politica. E lo zen è radicalmente avverso alle autorità, ai dogmi, alle consuetudini che irrigidiscono la natura umana.
Gli hipster ripresero lo zen e le sue forme artistiche perché esprimeva bene questo atteggiamento. Il modo in cui abbiano realizzato questa ripresa sarà pure questione della filologia e dell'accademia, però dal punto di vista sociologico è del tutto indifferente l'aspetto esteriore dell'agire sociale rispetto al risultato. La concezione estetica della vita non si è fermata ai movimenti hipster, ma ha saturato l'intera società contemporanea. Non stiamo trattando più quei fenomeni che appartengono a una subcultura, piuttosto siamo davanti a ciò che è costitutivo della cultura contemporanea. Per constatare ciò è sufficiente accendere un televisore e sintonizzarsi su MTV. Non è più lecito parlare di movimenti di contestazione quando essi rappresentano la maggioranza dei gusti e delle tendenze. Piuttosto si dovrebbe riflettere sul contrasto esistente fra il potere politico e i cittadini che esso dovrebbe rappresentare in quelle che sono considerate democrazie liberali. La religione è un'esigenza esistenziale che non può essere regolamentata dal potere amministrativo con criteri esclusivamente burocratici e formali. Bisogna garantire soprattutto uno spazio sociale per la religione e che sia tenuta in considerazione la sua capacità aggregativa.

Note

1. Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
2. Sulla fine dell'arte convenzionale, cfr. Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1991, pp. 59-72.
3. Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Aries/Arcana Editrice, Milano, 1996.
4. Kopp, Sheldon, Se incontri il Buddha per la strada uccidilo, Editrice Astrolabio, Roma, 1975.
5. Lo Zen e l'Occidente, pubblicato nel 1959, venne incluso in Opera aperta, ribadendo in nota l'atteggiamento critico e il dissenso dal trapianto dello zen come forma artistica in Occidente; cfr. Eco, Umberto, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962. Il saggio di Watts era apparso l'anno precedente; cfr. Watts, Alan, Beat Zen, Square Zen and Zen, in "Chicago Review", Summer 1958.
6. L'arte contemporanea è profondamente influenzata dallo zen e dalla sua estetica. Ricordiamo due casi emblematici: il compositore statunitense John Cage (1912-1992) e il pittore francese Yves Klein (1928-1962).
7. Cfr. Baricco, Alessandro, Next. Piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che verrà, Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 52-54.
8. Dovrebbe essere ormai risaputo come i movimenti si possano trasformare in istituzioni grazie alla lezione del sociologo Alberoni. Cfr. Alberoni, Francesco, Movimento e istituzione. Teoria generale, Il Mulino, Bologna, 1981.

Bibliografia

Alteriani, Fulvio, Zen. Filosofia, arte della vita, pratica quotidiana, Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1996.
Eco, Umberto, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
Izutsu, Toshihiko, La filosofia del Buddhismo Zen, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1984.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori, Relazione del corso di Filosofia del Linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, Quando Uzume salvò il mondo con una risata, Relazione del corso di Linguistica, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Puech, Henri-Charles, Storia del Buddhismo, Laterza, Bari, 1984.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Manual of Zen Buddhism, Rider and Company, London, 1974.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Zen and Japanese Culture, Bollingen Series, New York, 1959.
Vattimo, Gianni, Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano, 1981.
Vattimo, Gianni, Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano, 1974.
Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Bompiani, Milano, 1985.
Vattimo, Gianni, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano, 1979.
Watts, Alan, Lo Zen, Bompiani, Milano, 1959.
Watts, Alan, La via dello Zen, Feltrinelli, Milano, 1960.
Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Arcana Editrice, Milano, 1973.
Yamamoto, Fumio, Nihon masu komyunikeishon shi, Tokai daigaku shuppankai, Tokyo, 1981.
Zecchi, Stefano, Sulla fine del moderno, in "Alfabeta", n. 73, 1985.

venerdì 4 dicembre 2009

Nyoze, i dieci fattori

Articolo sui dieci fattori secondo il Sutra del Loto pubblicato dal sito Nipponico.com.

Nyoze. I dieci fattori secondo il Sutra del Loto
di Cristiano Martorella

19 agosto 2006. Il Sutra del Loto, in giapponese Hokkekyo (1), è fra i sutra buddhisti più popolari e di maggiore influenza. Secondo molti studiosi, fu scritto intorno al I secolo d.C. per rispondere alle esigenze del Mahayana (Scuola del Grande Veicolo) che intendeva diffondere un buddhismo più vicino alle persone senza privazioni ascetiche. In questo senso il Sutra del Loto si accosta ad altre scritture simili come il Sutra della Saggezza e il Sutra della Ghirlanda.
Fra gli insegnamenti esposti nel Sutra del Loto, ha una particolare importanza e peculiarità la dottrina dei dieci fattori (ju nyoze). I dieci fattori sono le modalità di comprensione della realtà, ovvero come la mente umana percepisce se stessa e il mondo che la circonda. Il termine “fattore” traduce la parola giapponese nyoze (in sanscrito tathata, in cinese ju-shih) che significa “la cosa così com’è”. Questa dottrina insegna che le cose che conosciamo e percepiamo immediatamente senza ulteriori elaborazioni della mente (ossia senza giudizio, opinione, ecc.) sono riconducibili a questo schema di fattori (nyoze).

1) So. Aspetto ovvero la forma esteriore delle cose.

2) Sho. Natura, o carattere, è la qualità delle cose.

3) Tai. Entità, ovvero l’ente, il corpo che riunisce forma e qualità.

4) Riki. Potere, ovvero la forza delle cose.

5) Sa. Azione, è l’attività che si manifesta.

6) In. Causa interna. La causa del cambiamento interno.

7) En. Causa esterna o relazione. La causa o condizione esterna.

8) Ka. Effetto latente o effetto interno. Questo è l’effetto delle cose che avviene all’interno di esse.

9) Ho. Retribuzione o effetto esterno. Questo è l’effetto che si manifesta visibilmente.

10) Hon makkukyo to. Coerenza dall’inizio alla fine. Ogni cosa ha un senso senza lacune e interruzioni.

La conoscenza dei dieci fattori permette di distinguere chiaramente il funzionamento della mente e percorrere il cammino di liberazione dalle illusioni.
Importanti commentatori del Sutra del Loto sono stati i monaci giapponesi Dogen (1200-1253) e Nichiren (1222-1282). In particolare, Nichiren spiega i dieci fattori all’interno della dottrina di shoho jisso (il vero aspetto di tutti i fenomeni) e della teoria di ichinen sanzen (tremila regni in un istante).
Secondo Nichiren (2) tutti gli esseri viventi, l’ambiente in cui vivono e i fenomeni dell’universo sono manifestazione dell’ordine cosmico che è identificato con Buddha. Quindi in ogni cosa c’è Buddha, e ogni cosa si manifesta attraverso i dieci fattori. Inoltre in un singolo istante ci sarebbero tremila regni o mondi possibili realizzabili dalla combinazione di fattori e condizione spirituale. Questa è la spiegazione di Nichiren che riprende e sviluppa magistralmente gli studi del cinese T’ien-t’ai.
La teoria dei dieci fattori va comunque considerata correttamente all’interno della più ampia dottrina buddhista. I dieci fattori non sono elementi che costituiscono la realtà, ma al contrario sono gli strumenti dell’intelletto, la griglia o lo schema concettuale che filtra i fenomeni e li rende intelligibili per la mente. La vera e unica autentica realtà è Buddha (l’universo intero e la sua interdipendenza). Per quanto riguarda i fattori di causa ed effetto (in giapponese innen), è bene ricordare che secondo Buddha sono anch’essi illusori. La causa è il prodotto di una abitudine mentale (in sanscrito vasana). Questa comprensione della produzione delle cause è simile alla spiegazione fornita dal filosofo scozzese David Hume nel XVIII secolo. Hume usa i termini custom ed habit (abitudini, tendenze, usanze) per indicare una facoltà superiore che influenza la formazione delle idee. Se si accetta questa interpretazione, si capisce perché sia necessaria una illuminazione (in giapponese satori) e una emancipazione (gedatsu) che giunga fino al nirvana (nehan) perché si possa avere la comprensione della realtà dell’universo. Senza distacco e liberazione dalle tendenze e abitudini non è possibile vedere oltre le illusioni prodotte dalla mente. Eppure sono le stesse illusioni, che prese singolarmente ingannano e fuorviano, a realizzare viceversa se considerate contemporaneamente e complessivamente la realtà. La diversità non è costituita dalla mente di chi pensa, ma dal modo come la si usa. Buddha è colui che pensa e agisce come Buddha, perciò chiunque può esserlo. Così afferma il Sutra del Loto senza sbagliarsi. Questa dottrina è anche coerente con le teorie buddhiste precedenti, altrimenti non sarebbe comprensibile e concepibile l’avviamento della ruota della legge, ossia la predicazione e l’insegnamento di Buddha. Nel Mahaparinirvana sutra si afferma che tutto quello che ha forma esiste per effetto della mente (3). Il buddhismo autentico è perciò l’esercizio e la pratica della conoscenza e del controllo della mente. Buddha è colui che è pervenuto all’illuminazione ed ha raggiunto tale capacità. La differenza fra chi è prigioniero delle illusioni e chi è pervenuto all’illuminazione non consiste nell’eliminazione delle apparenze prodotte dallo schema dei dieci fattori, ma nella modalità di operare della mente. La mente di Buddha non si ferma a considerare un singolo aspetto, ma coglie contemporaneamente il pluralismo della realtà.

Note

1. In sanscrito è intitolato Saddharmapundarikasutra, letteralmente Sutra del Loto della Buona Legge. In giapponese è tradotto come Myohorengekyo, dove myo significa buona, meravigliosa, straordinaria, e ho indica la legge o dharma (insegnamento di Buddha). Renge è invece il fiore di loto, infine kyo significa sutra (testo buddhista). Myohorengekyo è abbreviato in giapponese con Hokkekyo, in italiano con Sutra del Loto. La più antica versione sembra redatta nel I secolo d.C., all’incirca tra il 40 e il 100 d.C., in un periodo in cui si sviluppava e prosperava la scuola Mahayana. La dottrina del Sutra del Loto è basata sulla ekayana (veicolo unico) che propaga l’insegnamento circa l’esistenza di Buddha in ogni individuo e l’accessibilità immediata e sicura alla buddhità in questo mondo.
2. Cfr. Nichiren, Gli scritti di Nichiren Daishonin, Vol. 4, Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, Firenze, 2000, pp. 229-236.
3. Cfr. Buddha, Mahaparinirvana sutra, Edizioni I Dioscuri, Genova, 1990, pp. 48-50.

Bibliografia

Hume, David, Ricerca sull’intelletto umano, Laterza, Bari, 1996.
Ikeda, Daisaku, La saggezza del Sutra del Loto, Arnoldo Mondadori, Milano, 2005.
Ikeda, Daisaku, I capitoli Hoben e Juryo, Esperia Edizioni, Milano, 1999.
Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in “Diogene Filosofare Oggi”, n.4, anno II, giugno-agosto 2006.
Nichiren, Gli scritti di Nichiren Daishonin, Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, Firenze, 2000.

Inga, il rapporto causale

Articolo sul concetto di causalità nel buddhismo pubblicato dal sito Nipponico.com.

Inga, la mistica della legge inesistente
Il rapporto causale secondo il buddhismo
di Cristiano Martorella

5 agosto 2007. Una credenza molto equivocata è sostenuta dalla maggioranza dei buddhisti riguardo al karma e il rapporto causa ed effetto (in giapponese inga to kekka). Si pensa, in maniera ingannevole, che ogni buona azione abbia una ricompensa e ogni malefatta riceva una punizione. Così si attribuisce alle disgrazie e sventure un rapporto con le azioni precedenti, non soltanto in questa vita ma anche nelle esistenze anteriori secondo la dottrina della metempsicosi. Questo sistema delle retribuzioni di benefici e punizioni viene chiamato genericamente karma, dal sanscrito karman che significa semplicemente azione. In realtà il Buddha storico, Shakyamuni, non ha mai attribuito un senso così meccanico e deterministico al karma, anzi ha sempre sostenuto il carattere ingannevole e illusorio del rapporto causale.
L'equivoco dei buddhisti ha conseguenze drammatiche e nefaste nella pratica. Infatti la credenza fallace che ogni azione sia ricompensata o punita porta ad una attesa spasmodica per qualcosa che non accadrà. Constatato che in questa vita ciò non avviene, i buddhisti si consolano e si ingannano sperando nell'esistenza successiva. Questo atteggiamento genera frustrazione e ansia, appunto ciò che Buddha voleva superare. Buddha aveva anche avvisato insistentemente i suoi seguaci dal pericolo costituito dalla pratica religiosa seguita in modo non corretto. La dottrina buddhista mal interpretata produce danno e dolore così come un serpente afferrato per la coda si rivolge contro chi lo tiene e lo morde (1).
Nonostante i tanti equivoci, molti maestri buddhisti indicano correttamente la spiegazione che Buddha ha fornito della causalità. Buddha non ammette una causalità in senso stretto. La causa esige un rapporto diretto con l'effetto. Ed è proprio questa dipendenza unilaterale che viene criticata da Buddha stesso. È soltanto sotto condizioni molteplici, praticamente infinite, che qualcosa avviene. Ciò che appare, ogni fenomeno, non si origina da sé né da un altro sé, non si origina neppure a caso. In realtà non è prodotto ma si origina in interdipendenza. Non c'è sostanza che si trasforma da sé (produzione da sé). Non c'è produzione dal nulla di un dio o di un uomo (produzione da altro). Tali idee sono soltanto il prodotto di un pensiero antropocentrico che considera le cause al lavoro alla stregua di un ceramista che preso un pezzo di argilla lo trasforma in un vaso. Lo stesso rapporto stretto di dipendenza unilaterale tra causa ed effetto viene disciolto in una molteplicità di condizioni complesse.
Un altro equivoco fondamentale è costituito dall'affermazione della coincidenza di causa ed effetto. Generalmente i buddhisti interpretano la coincidenza di causa ed effetto come il potere miracoloso di Buddha nell'esaudire le preghiere e i desideri. Invece non è affatto così.
In realtà causa ed effetto sono coincidenti nella consapevolezza (2). Attraverso la consapevolezza la causa viene dissolta nell'effetto perché si comprende e osserva la non-sostanzialità del rapporto causale che è un fantasma della nostra mente (3). Non esiste una causa singola ma cause infinite quindi incommensurabili e non determinabili.

Note

1. L'esempio del serpente è dello stesso Buddha. La dottrina buddhista mal compresa è dannosa e nociva come il morso di un serpente che è afferrato senza attenzione. Afferrare male il serpente significa afferrare male la dottrina di Buddha, cioè non comprenderla affatto nel suo significato autentico. Cfr. Burlingame, Eugene Watson, Parabole buddhiste, Laterza, Bari, 1995, p. 128.
2. Cfr. Meazza, Luciana, Le filosofie buddhiste, Xenia Edizioni, Milano, 1998, p. 8.
3. Circa il principio di non-sostanzialità dei fenomeni si legga la dottrina del vuoto (ku). Cfr. Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", n. 4, anno II, giugno-agosto 2006, p. 15.

Bibliografia

Burlingame, Eugene Watson, Parabole buddhiste, Laterza, Bari, 1995.
Gombrich, Richard, Theravada Buddhism, Routledge, London, 2005.
Ikeda, Daisaku, The Living Buddha, Weatherhill, New York, 1976.
Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", n. 4, anno II, giugno-agosto 2006.
Meazza, Luciana, Le filosofie buddhiste, Xenia, Milano, 1998.
Pasqualotto, Giangiorgio, Il buddhismo, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
Puech, Henri Charles, Storia del buddhismo, Arnoldo Mondadori, Milano, 2001.

Bonno, inganno delle passioni

Articolo sull'inganno delle passioni secondo il buddhismo pubblicato dal sito Nipponico.com.

Bonno, l'inganno delle passioni
Scopi e trappole del buddhismo
di Cristiano Martorella

5 agosto 2007. Il buddhismo è l'insegnamento esposto dal saggio della famiglia Shakya, Siddhartha (563-483 a.C.) detto il Buddha (1). La pratica e l'applicazione dell'insegnamento buddhista hanno lo scopo di liberare gli esseri umani dal giogo del dolore e della sofferenza, e quindi sviluppare pienamente le loro vite. Però lo stesso Buddha predisse che col tempo il suo insegnamento sarebbe stato corrotto, frainteso e degenerato (2). Questa profezia trova conferma in un'analisi puntuale delle pratiche del buddhismo nei paesi più lontani dall'originario insegnamento, ossia Cina e Giappone. Quest'ultimo paese conobbe anche un vivace scontro, spesso violento e feroce, fra i riformatori del buddhismo.Tuttavia è stato proprio il conflitto delle passioni a rendere il buddhismo giapponese (3) più attivo e interessante, nonostante il travisamento dell'insegnamento originario. Ciò spiega anche il successo in Europa e negli Stati Uniti delle sette giapponesi in tutte le loro forme (comunità di monaci, associazioni di laici, centri di studio accademici, etc.). Per comprendere adeguatamente il buddhismo giapponese è necessario penetrare criticamente nei princìpi che regolano le pratiche buddhiste.
Il termine giapponese bonno indica le passioni e le illusioni che dominano la nostra vita. La parola bonno traduce il vocabolo sanscrito klesa che significa appunto passione ingannevole, illusione che avvince l'animo umano. Il termine bonno è composto da bon (letto anche come wazurawashii significa complesso, problematico, difficoltoso) e no (nella forma verbale nayamu significa soffrire, tormentarsi, angosciarsi). Da un punto strettamente psicologico è chiaro il senso di questa teoria. Le passioni ed emozioni forti sono capaci di provocare una distorsione cognitiva che altera le percezioni della realtà. Viceversa le emozioni sono necessarie per creare le motivazioni, e dunque non possono essere eliminate completamente. Ciò che propone Buddha è una moderazione ed una consapevolezza che rende manifesto ogni aspetto del reale piuttosto che le false aspettative. La questione della distorsione cognitiva (4) è cruciale sia dal punto di vista psicologico, sia nel contesto della corretta pratica religiosa. Il buddhismo non nega la realtà del mondo, ma propone un migliore rapporto con essa, più autentico e verace. Il buddhismo è nichilismo nel senso che distrugge e annienta le illusioni, svelando la verità dell'essere.
La questione della distorsione cognitiva è ripresa anche in un altro insegnamento buddhista, presente in quasi tutte le sette giapponesi: i tre veleni (sandoku). I tre veleni che inquinano l'animo umano sono il desiderio (musabori), la collera (ikari) e l'ignoranza (oroka). L'affrancamento dai tre veleni avviene tramite le tre porte che conducono alla liberazione: non desiderio, non sé, non forma. Praticamente nell'esercizio di trasformare (hendoku iyaku) i tre veleni. Si trasforma così il desiderio in compassione, la collera in forza vitale, l'ignoranza in saggezza. Purtroppo i tre veleni sono capaci di infiltrarsi dappertutto e assumere aspetti insospettabili. La stessa pratica buddhista è contaminata dai tre veleni, come dimostrano i numerosi tradimenti e scismi, e Buddha spronava sempre gli adepti a non abbassare la guardia nei confronti delle insidie dei falsi maestri e delle dottrine nocive. Chi usa il buddhismo per i suoi meschini scopi personali reca grave danno a sé e agli altri. Lo scopo del buddhismo è la liberazione ed è esattamente il contrario dell'asservimento autoritario praticato in molte sette, scuole e associazioni che ne usano il nome.
Per questo motivo, molte tecniche mistiche sono nocive piuttosto che benefiche. L'adorazione di un oggetto di culto (5), il gohonzon, è una pratica contraria e opposta all'insegnamento di Siddhartha. Chi venera un oggetto di culto non ne è mai libero, ma ne è lo schiavo. Ci si aspetta dall'oggetto di culto miracoli o interventi divini, benefici e protezione. Però quello che si ottiene è l'alimentazione e la diffusione dei tre veleni (sandoku). La dinamica psicologica di questo processo è chiara ed evidente. Si crede ciecamente nei poteri miracolosi di un oggetto di culto venerato come un idolo. Ciò avviene per ignoranza, superstizione, stupidità (oroka). Si esprime il desiderio (musabori) e si prova rabbia e collera (ikari) perché non esaudito. L'oggetto di culto diventa così lo strumento di tortura che produce i tre veleni in questa sequenza: l'ignoranza, il desiderio e la collera. In conclusione si ottiene l'effetto contrario a quanto auspicato. Paradossalmente chi crede di praticare il buddhismo anche sbagliando finisce inevitabilmente per dimostrare la pericolosità delle passioni che ingannano la mente, ossia la correttezza dell'analisi del Buddha storico, Siddhartha.

Note

1. Il titolo Buddha significa "risvegliato" o "illuminato", ossia colui che si è liberato dell'ignoranza e conosce la verità circa l'esistenza. Siddhartha (563-483 a.C.) nacque a Kapilavastu, località attualmente in Nepal, ma all'epoca regno indipendente di tipo repubblicano gentilizio. Secondo la cronologia più attendibile sarebbe nato nel 563 a.C. e morto nel 463 a.C. circa. Tuttavia altre datazioni spostano le coordinate temporali in maniera rilevante. Secondo la cronologia singalese sarebbero 663-543 a.C. circa, le date secondo la tradizione nell'India settentrionale sarebbero 463-383 a.C. circa.
2. In giapponese l'epoca in cui l'insegnamento di Buddha è divenuto incomprensibile è chiamato mappo. Attualmente l'epoca moderna in cui viviamo sarebbe nel periodo del mappo.
3. Le scuole giapponesi più importanti sono Hosso, Kegon, Tendai, Shingon, Rinzai, Soto, Obaku, Ritsu, Nichiren e Jodo.
4. Le analisi più interessanti sulla distorsione cognitiva sono state pubblicate da Jon Elster. Cfr. Elster, Jon, Più tristi ma più saggi? Razionalità ed emozioni, Anabasi, Milano, 1994. Si veda anche il volume Uva acerba. Cfr. Elster, Jon, Uva acerba. Versioni non ortodosse della razionalità, Feltrinelli, Milano, 1989.
5. L'oggetto di culto, in giapponese gohonzon, è presente in molte sette buddhiste. Nella setta della Terra Pura (Jodo) può essere rappresentato da statue di Amida o un'altra cosa che lo ricordasse, mentre per la setta di Nichiren è un mandala costituito da un rotolo con l'iscrizione dei nomi di divinità sovrannaturali e il titolo del Sutra del Loto. Nelle case il gohonzon viene conservato in un altare domestico chiamato butsudan. Al contrario di queste usanze, Bodhidharma proibiva l'uso di oggetti di culto, perciò le sette zen giapponesi ne sono privi.

Bibliografia

Botto, Oscar, Buddha, Mondadori, Milano, 1985.
Conze, Edward, Scritture buddhiste, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1973.
Conze, Edward, Breve storia del Buddhismo, Rizzoli, Milano, 1985.
Coomaraswami, Ananda, Vita di Buddha, SE, Milano, 2000.
Filippani Ronconi, Pio, Il buddhismo, Newton Compton, Roma, 1994.
Filippani Ronconi, Pio, Buddha. Aforismi e discorsi, Newton Compton, Roma, 1994.
Filippani Ronconi, Pio, Canone buddhista, UTET, Torino, 1976.
Forzani, Giuseppe, I fiori del vuoto, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori. Relazione del corso di filosofia del linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", anno XX, n. 61, marzo 2003.
Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", n. 4, anno II, giugno-agosto 2006.
Martorella, Cristiano, Filosofare da cuore a cuore, in "Diogene Filosofare Oggi", n. 4, anno II, giugno-agosto 2006.
Oldenberg, Hermann, Budda. La vita, gli insegnamenti e il retaggio dell'illuminato, TEA, Milano, 1998.
Puech, Henri-Charles, Storia del buddhismo, Arnoldo Mondadori, Milano, 1992.
Puech, Henri-Charles, Le religioni dell'Estremo Oriente, Laterza, Roma-Bari, 1988.

mercoledì 25 novembre 2009

Traduttori traditori

Articolo sulle traduzioni di libri giapponesi pubblicato dalla rivista "LG Argomenti".

Cfr. Cristiano Martorella, Traditori del Sol Levante, in "LG Argomenti", n.2, anno XXXVIII, aprile-giugno 2002, pp.20-22.

Traditori del Sol Levante
di Cristiano Martorella

Traduttore traditore. Il famoso detto ha una versione anche nel lontano arcipelago giapponese: hon'yakusha wa uragirimono. Evidentemente è un giudizio condiviso da molti se ha una perfetta corrispondenza perfino in Giappone. Sembra che soltanto il filosofo americano Donald Davidson creda che sia possibile una traduzione radicale che non comporti perdite semantiche (1). Ma la sua posizione teorica (formale ed estremamente astratta) non è condivisa dai traduttori che si sentono sempre un po' traditori. E ciò vale a maggior ragione per i traduttori italiani dei testi giapponesi.
Scrivere un articolo sulle traduzioni italiane dei libri giapponesi di letteratura per l'infanzia è estremamente agevole. Infatti sono stati pubblicati pochissimi titoli (2). Nelle collane per ragazzi ci sono i seguenti titoli: Allarme! Allarme! di Miyazawa Kenji, In una notte di temporale di Kimura Yuichi, Il lampo di Hiroshima di Maruki Toshi, Il bucato della famiglia topini di Iwamura Kazuo, Lettere a mia madre di Hatano Isoko e Ichiro, Il pianeta dei delfini di Yo Shomei. Esistono altri importanti testi di letteratura giapponese per l'infanzia, inclusi però in collane che non sono rivolte ai bambini e ai ragazzi: Una notte sul treno della Via Lattea (Ginga tetsudo no yoru) e Il violoncellista Goshu (Sero hiki no Goshu) di Miyazawa Kenji, Racconti fantastici e Kappa di Akutagawa Ryunosuke.
Si tratta di uno scarso numero di libri del tutto insufficienti per capire la ricchezza e vastità della letteratura giapponese per l'infanzia (3). La scarsità dei testi tradotti ci impedisce di sviluppare un discorso articolato. Possiamo però segnalare il pessimo vizio degli editor, oppure dei curatori delle collane, che cambiano e alterano i titoli e addirittura i testi originali, spesso contro la volontà dei traduttori. Altre volte sono i traduttori stessi a cercare formule più semplici e banali che rendano i testi appetibili. Insomma, si fa a gara nel tradire l'autore.
Un esempio è costituito da Allarme! Allarme! di Miyazawa, pubblicato da Giunti. Il titolo originale era Asa ni tsuite no dowa teki kozu, ossia Una favola di una mattinata. Il titolo era indicativo e caratteristico, intimamente collegato alla vicenda narrata. A causa di una improvvisa e breve pioggia mattutina un fungo cresce inaspettato gettando nel panico le formiche. Ma l'allarme si rivelerà presto infondato. Come era apparso, così il fungo sparisce cadendo e disfacendosi. La morale è semplice. In un attimo anche le cose apparentemente più grandi possono dissolversi. Si tratta del noto principio buddhista dell'impermanenza. Dunque, il breve arco temporale del mattino è fondamentale perché raccoglie in sé il divenire incessante delle cose. L'universo può essere colto in un attimo attraverso la consapevolezza dell'impermanenza.
Certamente non ci attendiamo dagli editori italiani che raggiungano l'illuminazione buddhista, ma una maggiore cautela sarebbe auspicabile. Spesso descriviamo la cultura giapponese come imperscrutabile, misteriosa e complessa. In realtà facciamo di tutto per renderla incomprensibile al di là di ogni aspettativa. A volte dimostriamo di non aver nessun interesse per chi è diverso e può insegnarci molto. L'altro è precostituito. Siamo noi a definirlo prima di conoscerlo. Ebbene, questo è lo stesso atteggiamento che si ha nei confronti della letteratura giapponese per l'infanzia. C'è poi il rischio, sempre paventato, che i bambini italiani siano contaminati da altre culture. Il sospetto nei confronti della civiltà giapponese è sempre alto. Tranne il caso eccezionale di Bruno Munari, un genio che però è in contrasto con la mediocrità attuale, nessun italiano ha mai elogiato i metodi pedagogici giapponesi (4). D'altronde sappiamo bene che Il Castello dei Bambini a Tokyo era stato scritto da Munari rivolgendosi ai marziani, l'unico vero destinatario del libro. Quando Munari afferma che si può imparare dai giapponesi, quando elogia la pedagogia giapponese, si sta ovviamente rivolgendo ai marziani. A parte l'ironia, le questioni insolute rimangono.
Ci sono due difficoltà principali da affrontare. Il problema maggiore è costituito dalla mancanza di critici italiani di letteratura giapponese per l'infanzia. Chi può esprimere una valutazione delle traduzioni italiane? Chi conosce i testi originali? Evidentemente l'arretratezza e il livello formativo scadente nel settore si manifestano con chiarezza. Nonostante il clamore e gli elogi delle riviste settoriali, le carenze sono ancora enormi. Un altro problema riguarda il fumetto e l'animazione giapponese (5). Generalmente i critici letterari hanno un atteggiamento di sufficienza, se non addirittura di disprezzo, nei confronti di fumetto e cartoon. Non solo è un comportamento scorretto, ma addirittura dannoso. Fumetti e cartoon sono l'estensione con altri mezzi della narrazione. Il critico letterario non può e non deve sottovalutare la continuità fra i generi narrativi. Le opere del maestro dell'animazione Miyazaki Hayao sono capolavori che meritano ampiamente l'appellativo di "letteratura disegnata". Il rapporto e la continuità fra questi generi devono essere studiati con oculatezza. Soprattutto nel caso giapponese che attinge a un'ampia tradizione ancora vivace.
Al momento attuale l'ignoranza della letteratura giapponese per l'infanzia contribuisce soltanto a enfatizzare ogni tipo di incomprensione. Non gridiamo poi allo scandalo quando l'incomprensione si tramuta in conflitto. Tradurre significa soprattutto capire, e per capire bisogna ascoltare l'altro (non supporre di conoscerlo già, o peggio, negarlo). In questo sventurato periodo storico siamo ancora capaci di ascoltare gli altri? Probabilmente questa è l'autentica e più difficile forma di flessibilità.

Note

1. La posizione filosofica di Davidson è centrale nel pensiero contemporaneo statunitense e la sua influenza sui linguisti è notevole. Cfr. Davidson, Donald, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994. Esiste però il sospetto che Davidson sostenga una teoria che si poggia esclusivamente sull'esistenza di un pensiero unico omologante. Altrimenti è difficile comprendere da dove provengano tante astrazioni.
2. Per una verifica si consulti il database di Liber, l'aggiornato archivio bibliografico su cd-rom.
3. Una modesta introduzione a questo ricchissimo universo è stata però tentata. Cfr. Martorella, Cristiano, Introduzione alla letteratura giapponese per l'infanzia, in "LG Argomenti", n.3, anno XXXVII, luglio-settembre 2001, pp. 54-58.
4. Cfr. Munari, Bruno, Il Castello dei Bambini a Tokyo, Einaudi Ragazzi, Trieste, 1995.
5. Sulla questione degli adattamenti degli anime si consulti Marco Pellitteri. Anche se manca un discorso specifico sulle traduzioni, è comunque indicativo della situazione. Cfr. Pellitteri, Marco, Se paura fa rima con censura, in "Il Pepeverde", n. 10, 2001, pp. 38-43.

Bibliografia

Akutagawa, Ryunosuke, Kappa, trad. di Mario Teti, SE, Milano, 1992.
Akutagawa, Ryunosuke, Racconti fantastici, trad. di Cristiana Ceci, Marsilio, Venezia, 1995.
Kimura, Yuichi, In una notte di temporale, trad. di Paolo Volpato, Salani, Firenze, 1998.
Iwamura, Kazuo, Il bucato della famiglia topini, trad. di Suzuki Akane, Babalibri, Milano, 1999.
Hatano, Isoko e Ichiro, Lettere a mia madre, trad. di Luciano Tamburini, E. Elle, Trieste, 1994.
Maruki, Toshi, Il lampo di Hiroshima, trad. di Yamada Makiko, Perosini, Zevio, 1980.
Miyazawa, Kenji, Una notte sul treno della Via Lattea, trad. di Giorgio Amitrano, Marsilio, Venezia, 1994.
Miyazawa, Kenji, Allarme! Allarme!, trad. di Hiraishi Asako, Giunti, Firenze, 1994.
Miyazawa, Kenji, Il violoncellista Goshu, trad. di Muramatsu Mariko, La vita Felice, Milano, 1996.
Yo, Shomei, Il pianeta dei delfini, Il Punto d'Incontro, Vicenza, 1997.

martedì 24 novembre 2009

Bruno Munari in Giappone

Articolo sulla pedagogia di Bruno Munari pubblicato dal sito Nipponico.com.

Bruno Munari e la ricerca creativa di un metodo educativo
di Cristiano Martorella

3 gennaio 2001. A volte si scoprono delle vicinanze inaspettate fra Italia e Giappone. Così, ad esempio, è poco noto quanto in passato siano stati ricchi gli scambi fra la nostra cultura e quella giapponese riguardo alla ricerca di un modello educativo che stimoli la creatività infantile. In questo articolo vogliamo ricordare come l'opera di Bruno Munari sia stata recepita dai giapponesi, e come egli venga ancora oggi considerato un maestro innovativo, geniale e generoso, punto di riferimento assoluto.
Bruno Munari (1907-1998), figura eclettica della cultura italiana del Novecento, fu soprattutto un designer (e perciò ricevette il Premio Japan Design Foundation), e da questa attività ricadranno anche numerosi contributi come autore (per il quale ebbe il Premio Andersen) e illustratore di libri per ragazzi (fra cui le memorabili macchine e i disegni per i testi di Rodari). Egli citò spesso il Giappone come paese da cui imparare sia per quanto riguarda l'arte che per l'organizzazione e l'educazione civile. Bruno Munari ci ha lasciato un piccolo libro che racconta, in modo leggero, arguto e divertente, una delle sue esperienze in Giappone. Il testo è intitolato "Il castello dei bambini a Tokyo" e descrive la sua visita per una conferenza e l'allestimento di una mostra al teatro Aoyama nei pressi di Shibuya. Oltre a descrivere la struttura del castello dei bambini e lo svolgersi dell'evento della conferenza e della mostra, Munari ha l'occasione per prendere il Giappone come spunto di riflessione. Spesso egli è un po' provocatorio nei confronti dei soliti stereotipi che cerca di smontare:

"Nel nostro paese qualcuno dice che i giapponesi vengono da noi a copiare tutto. Ma perché, dico io, non copiamo anche noi qualcosa da loro?"

Infatti, nel libro mostrerà quante attività dei bambini giapponesi potrebbero essere svolte anche dai nostri. Munari attinge ad ampie mani, e integra il suo percorso sperimentale con la tradizione culturale giapponese. Così si fondono origami, texture, disegni composti, il tutto in un florilegio di figure e colori per il trionfo della fantasia e creatività. Per quanto riguarda l'analisi delle tecniche operative, Munari ha una proposta concreta. A volte le cose sono molto più semplici di quanto sembrino, vogliamo soltanto non riconoscerle. Munari utilizza l'espressione "risolvere i problemi alla base" per mettere in mostra qualcosa di elementare che per la sua semplicità pare sfuggirci, così come la soluzione di un puzzle a portata di mano:

"Ma nel frattempo, che cosa ho imparato io dal pensiero giapponese? In parte ho avuto la conferma che certi principi progettuali che applico normalmente erano giusti. Altre regole o procedimenti utili a migliorare i progetti o le comunicazioni, o semplicemente altri comportamenti quotidiani, erano invece da capire e applicare. Un esempio è che i problemi vanno risolti alla base.
A Venezia ci sono dei natanti che vanno in giro per la laguna a pulire le acque. Questo è necessario perché i cittadini buttano spesso i rifiuti nei canali. Il problema si risolve insegnando ai bambini a non sporcare la laguna. Se nessuno (utopia) butta l'immondizia nella laguna, non c'è niente da pulire. Altro esempio: noi occidentali siamo bravissimi nell'inventare elettrodomestici sofisticati, per pulire la casa, lucidare i pavimenti, lavare i vetri, raccogliere i rifiuti. I giapponesi non sporcano la casa, non ci sono pavimenti da lucidare, quando entrano nelle loro case si tolgono le scarpe e camminano sul tatami in calze. Non buttano le cicche per terra per poi calpestarle, insomma sono, come si dice, educati, e il problema della pulizia della casa è risolto alla base."

Munari viene oggi considerato l'inventore di una metodologia d'insegnamento per i bambini ed è guardato con attenzione da studiosi di diverse discipline, da artisti, pedagogisti e scrittori. Coca Frigerio e Alberto Cerchi stanno cercando di organizzare il materiale lasciatoci da Munari tentando di approfondire e continuare il lavoro del maestro. Per far ciò hanno ideato una collana di libri, pubblicati dalle Edizioni Erga, intitolati Gli alfabeti munariani. Si tratta del contributo più completo che ci mostra la grande attualità dei temi trattati da Munari. Alla metodologia di Munari si ricollega idealmente un autore giapponese, Komagata Katsumi, graphic designer che nelle sue conferenze in Italia ha ricordato quanto egli si senta legato al lavoro del creativo milanese. I lettori italiani dovrebbero esserne a conoscenza anche grazie a un articolo di Paola Vassalli, intitolato A spasso fra premi e mostre, pubblicato sulla rivista "Andersen":

"[...] bellissimi libri di Katsumi Komagata, anch'egli giapponese, anch'egli allievo ideale di Munari, che a Bologna ha ricevuto una menzione d'onore nella nuova sezione del premio Bologna Ragazzi Award - Introducing Art to Children con la serie Mini Book."

Anche le riviste giapponesi considerano Komagata un illustratore di rilievo. Si veda, ad esempio, l'articolo del settembre 2000 dedicatogli dalla rivista giapponese "Moe". A quanto sembra, quindi, il lavoro di Munari sta mettendo frutti persino in quel paese lontano che egli guardava con ammirazione. Sicuramente avrà l'evoluzione migliore se si comprenderà che lo sviluppo creativo del bambino non deve essere soffocato da modelli culturali che esigono un'unica interpretazione della realtà. Per giungere a ciò, si deve considerare il bambino come una persona che ha pieni diritti, e quindi una propria modalità di sviluppo, e non come un soggetto passivo da addestrare. Finché il confronto fra le culture sarà vivace e fruttuoso, come Munari ha saputo mostrare con modestia, potremo trovare ampi spazi per l'invenzione creativa dei bambini. Ma quando la cultura diventa sterile e si irrigidisce in modelli predefiniti, essa stessa si presenta come nemica e ostacolo della creatività.

Bibliografia

Frigerio, Coca e Cerchi, Alberto, Gioco e arte, Edizioni Erga, Genova, 2000.
Kawabe, Shoko, Komagata Katsumi no hon. Ehon no waku o koeta katachi, in "Moe", n. 9, settembre 2000, p. 95.
Munari, Bruno, Il castello dei bambini a Tokyo, Edizioni E. Elle, Trieste, 1995.
Munari, Bruno, Da cosa nasce cosa. Appunti per una metodologia progettuale, Laterza, Bari, 1996.
Munari, Bruno, Artista e designer, Laterza, Bari, 1978.
Munari, Bruno, Design e comunicazione visiva, Laterza, Bari, 1985.
Munari, Bruno, Il mestiere dell'arte, in "Art e dossier", n. 8, dicembre 1986, pp. 18-21.
Vassalli, Paola, A spasso fra premi e mostre, in "Andersen", n. 159, maggio 2000, pp. 16-17.

domenica 22 novembre 2009

Lettura e tecnologia

Articolo sul tema dei rapporti fra lettura e tecnologia pubblicato dalla rivista "LG Argomenti".

Cfr. Cristiano Martorella, Dokusho. La lettura fra scienza e tecnologia, in "LG Argomenti", n.1, anno XL, gennaio-marzo 2004, pp.20-23.

Dokusho
La lettura fra scienza e tecnologia
di Cristiano Martorella

Dokusho significa lettura in giapponese, e indica l’attività dilettevole del leggere. Quando si tratta questo argomento emerge sempre la connessione fra la lettura e l’ideologia (spesso presentata come pedagogia), così in Giappone come in Italia (1). A Giorgio Bini va il merito di aver sollevato in proposito alcuni dubbi cruciali. Egli ha esposto una domanda tanto semplice quanto ardua nella risposta. Se la tecnologia multimediale ha cambiato il modo di fruire la narrativa, la letteratura giovanile deve adeguarsi con diversi moduli, stili, contenuti e linguaggi? In tal senso, sono cambiate anche le facoltà intellettive dei giovani?
Non si può fornire una risposta se prima non si riconosce l’influenza ideologica sulla letteratura giovanile. Questa influenza è stata opportunamente analizzata per quanto riguarda il passato, mentre è ignorata per il presente. Perché oggi fingiamo che la letteratura si sia liberata da questa influenza quando è vero il contrario? Purtroppo quando si è immersi nell’ideologia è più difficile vederla. L’assetto sociale dei nostri tempi è riconoscibile nell’attitudine economicista della letteratura contemporanea. Il valore di un libro è stabilito dai dati commerciali. Così il libro di un calciatore diventa un best-seller che oscura le opere degli autori contemporanei. La tanto proclamata e vantata liberazione della letteratura dalla pedagogia non è altro che lo spostamento verso un uso puramente commerciale del libro. In passato il libro era il veicolo dell’ideologia, ora è svincolato dai contenuti per rispondere appunto alle esigenze della nuova ideologia. Questa nuova ideologia che chiameremo emporiocrazia, ossia governo del mercato, considera la letteratura un bene di consumo e l’inserisce nel sistema economico che essa stessa sostiene. Insomma, si tratta di un’ideologia più subdola perché priva di contenuti e valori, è l’ideologia del consumismo. Riconosciuto ciò bisogna andare oltre e ottenere una visione complessiva che ci permetta di uscire da questa interpretazione puramente economicista per individuare le prospettive alternative. In tal senso l’esperienza giapponese è molto utile per diversi motivi. Innanzitutto il Giappone è il paese dove la tecnologia è più avanzata, con importanti ripercussioni sia positive sia negative. In secondo luogo, le problematiche riguardanti la letteratura e la tecnica hanno avuto approcci e soluzioni originali in questo paese più avanzato, decisamente ancora sconosciute in Occidente. Soprattutto la questione della tecnica investe il fenomeno degli otaku e della cultura giovanile giapponese (wakamono bunka).
Fin dagli anni ’80 è apparsa prima come una problematica, poi come una risorsa, la cultura giovanile giapponese. Inizialmente il fenomeno era inquadrato nelle categorie della sociologia funzionalista di Robert King Merton, attribuendo il carattere di devianza a ciò che era invece un’autentica innovazione coinvolgente non soltanto i costumi, ma anche i mezzi di produzione e i consumi. Con il termine spregiativo di otaku si intendeva qualcuno che si chiudeva in casa segregandosi per seguire una passione o un hobby in modo fanatico. Questo passatempo (shumi) poteva essere la lettura di fumetti, il modellismo, il collezionismo, etc. Dopo circa un decennio i sociologi si accorsero che il fenomeno non era soltanto passivo e non aveva aspetti unicamente negativi. Gli otaku avevano grande capacità di aggregazione e socialità favorite dalla loro passione, inoltre erano creatori attivi di fanzine (dojinshi), disegnavano, scrivevano, organizzavano raduni. Insomma, erano tutto tranne che asociali e indolenti come erano stati inizialmente descritti. Intanto la sociologia cambiava indirizzo influenzata dal metodo dell’interazionismo simbolico di George Herbert Mead. Così le vecchie analisi erano buttate alle ortiche. In Giappone cominciarono a fiorire studi e considerazioni ben diversi sulla cultura giovanile. Ormai Tokyo era divenuta un laboratorio vivente, specialmente nei quartieri di Harajuku, Shibuya e Akihabara, di questa nuova cultura. La tecnica svolgeva un ruolo importantissimo in questa trasformazione. Le possibilità offerte agli otaku provenivano dal sistema di produzione snella inventato dai manager giapponesi. Con un computer, una stampante, una fotocopiatrice, si poteva realizzare una piccola tipografia casalinga. Questa capacità nasceva negli anni ’80 grazie alla rivoluzione informatica. La comunicazione cambiava tramite internet e telefonia mobile. La televisione era scavalcata e resa obsoleta dal lettore DVD e dal file multimediale. In Giappone ciò fa parte della storia del passato recente, in Italia questo sarà il futuro prossimo.

Qual è dunque l’insegnamento che ci proviene dall’esperienza giapponese? L’aspetto principale che va rimarcato è che i cambiamenti delle tecniche non possono agire da soli sul cambiamento della società, piuttosto è vero il contrario. La richiesta di certe tecniche e il loro successo è dovuto a esigenze sociali. La televisione, così come è ancora concepita, è destinata all’obsolescenza poiché la società del futuro non può tollerare un uso così passivo di un mezzo di comunicazione. Attualmente c’è il tentativo di rendere la televisione interattiva, ma è soltanto un trucco che non inganna le nuove generazioni già avvezze alla navigazione in internet. L’altro insegnamento dell’esperienza giapponese riguarda la cultura e il linguaggio. Gli otaku hanno sfruttato le risorse tecnologiche ripiegandosi sulla cultura autoctona di matrice pagana e buddhista. Questo deve far sospettare che una spinta forte verso l’uso della tecnologia comporta come compensazione un recupero della cultura antica depositaria dell’equilibrio delle pulsioni irrazionali. La risposta sociale alla razionalità della tecnica è una virulenta irrazionalità controllabile soltanto da nuovi schemi simbolici e semiotici. Come diceva Martin Heidegger, citando Hölderlin, dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva. Perciò Giorgio Bini può stare davvero tranquillo sulla sorte della letteratura. Il futuro non vedrà affatto nuovi paradigmi logici, piuttosto risorgerà la saggezza dell’antichità capace di dare senso alla realtà irrazionale dell’essere. Non sarà la tecnica a creare un nuovo essere. Non esiste un essere digitale autonomo e separato dall’essere. La tecnica è un sostegno (Gestell), capacità di creare una realtà artificiale piegando la natura alla volontà dell’uomo. Però ciò che è solo tecnica non giunge mai all’essenza della tecnica. La tecnica ha una sua essenza che prescinde dall’uomo. Così come l’essenza dell’uomo non è la sua opera, così l’essenza della tecnica non è opera dell’uomo. La tecnica si separa e vive di vita propria indipendente dall’uomo perché l’essenza della tecnica è l’essere stesso. Non un nuovo essere, ma l’essere. Insomma, l’uomo non crea la realtà con le sue macchine, egli interagisce e le macchine sono protagoniste di un mondo complesso dove l’idea di controllo e creatore si disfa. Il pericolo è che l’essenza dell’uomo passi la mano all’essenza della tecnica. Dunque l’errore sarebbe quello di vedere un problema tecnico lì dove il problema è umano. I mali dell’uomo non vanno imputati alla tecnica, ma a un rapporto instabile causato dall’uomo moderno incapace di ritrovare se stesso. Un uomo che spesso è impegnato a cercare se stesso nelle macchine che ha creato senza ritrovarsi. L’essenza dell’uomo non è la sua opera. Purtroppo questo equivoco è la causa dell’incapacità di porre attenzione all’essenza della tecnica, e della confusione fra tecnica ed essenza, fra uso e vita. La svolta avviene quando si guarda dentro ciò che è, scoprendo che chi guarda ha lo sguardo rivolto verso se stesso. La ricerca della tecnica era ricerca dell’uomo. Dimenticato l’uomo, la tecnica diviene incapace di vedere. La letteratura giovanile sarà veramente emancipata quando vedrà il pericolo della tecnica come salvezza dell’uomo, perché dov’è il pericolo cresce ciò che salva. L’idea che la lettura sia un bene da salvaguardare è illusoria. Ciò che va tutelato è il soggetto pensante. Tutte le parole spese in Italia a favore della promozione della lettura si sono rivelate vacue e soprattutto inutili. Non poteva essere altrimenti. Gli studiosi giapponesi ci insegnano che la lettura è un’attività spontanea che non può essere pianificata dalla didattica. Ogni attività rivolta alla formalizzazione e razionalizzazione della lettura si distingue per essere controproducente e dannosa. Per questo motivo le biblioteche familiari (bunko) che hanno un approccio informale ed emotivo hanno tanto successo in Giappone. La lettura ha bisogno di essere liberata dalle ricette dei sedicenti esperti, dalle formule della lettura per piacere, dalla confusione del sensualismo pasticcione. I libri si leggono, se si leggono, perché interessano. Tutto il resto è vaneggiamento. L’interesse è un processo del soggetto su cui non si può agire tramite il libro che è soltanto un mezzo o meglio un medium. Non esistono ricette per scrivere bei libri. Non esiste un esperto della letteratura capace di convincere a leggere. Quando avremo compreso ciò potremo guardare alla questione della lettura come ciò che realmente è, un sottoproblema della sociologia che può essere trattato seriamente solo in un ambito più ampio.
La pedagogia e la critica giapponese hanno capito ciò da un bel po’ di tempo. Quando si emanciperà anche la critica letteraria italiana?

Note

1. Per la problematica in Giappone si consulti la rivista "Nihon jidobungaku" dedicata alla letteratura per l'infanzia.

Bibliografia

Drake, William, The New Information Infrastructure, Twentieth Century Fund Press, New York, 1995.
Drucker, Peter, Post-Capitalist Society, Harper Collins, New York, 1993.
Eagleton, Terry, Le illusioni del postmodernismo, Editori Riuniti, Roma, 1998.
Ferretti, Gian Carlo, Il mercato delle lettere, Einaudi, Torino, 1979.
Fukuyama, Francis, La Grande Distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale, Baldini & Castoldi, Milano, 1999.
Hardt, Michael e Negri, Antonio, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2001.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in “Quaderni Asiatici”, n.61, marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in “LG Argomenti”, n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in “Sushi”, n.3, ottobre 1996.
Masuda, Yoneji, The Information Society as Post-Industrial Society, World Future Society, Washington, 1981.
Morikawa, Kaichiro, Learning from Akihabara. The Birth of a Personapolis, Gentosha, Tokyo, 2003.
Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.

Niju, il pluralismo del doppio

Articolo sul pluralismo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti".

Cfr. Cristiano Martorella, Niju, il pluralismo del doppio, in "LG Argomenti", n.3, anno XXXVIII, luglio-settembre 2002, pp.10-13.

Niju, il pluralismo del doppio
di Cristiano Martorella

In giapponese niju significa doppio. Dualismo si dice infatti nijusei. Ma nel pensiero filosofico e letterario giapponese il doppio non ha propriamente lo stesso senso acquisito in Occidente. In Estremo Oriente l'idea dell'unità e armonia dei contrari fu talmente pervasiva da essere messa in discussione soltanto quando si ebbero i primi contatti con la filosofia europea.
Nell'induismo il brahman riassume il principio unitario, l'assoluto. Poiché il pluralismo, e così il dualismo, può ottenersi soltanto nella determinazione, ossia nelle categorie di tempo e spazio, l'assoluto che è l'originario autentico e incorruttibile, non conosce il samsara (ciclo di nascita e morte) e con esso l'esistenza fenomenica. Dunque l'induismo riduce il dualismo a una semplice apparenza o inganno dei sensi.
Il taoismo riprende l'idea dei contrari e la pone alla base della dottrina. Non esisterebbe armonia senza la complementarietà di due princìpi: lo yang (maschile, luminoso, attivo e caldo) e lo yin (femminile, oscuro, passivo e freddo). Ma questa riduzione ha sempre rischiato di tramutarsi in una regolamentazione dettata dall'autorità, rischio che è stato amplificato dal confucianesimo e dai suoi interpreti (funzionari governativi, amministratori, etc.). Non è casuale che le valutazioni più severe e negative del concetto taoista di armonia provenissero dai marxisti cinesi che avevano assorbito le lezioni del materialismo storico all'inizio del Novecento (soprattutto la critica all'ideologia come sistema teorico delle classi dominanti).
Il buddhismo, ancorato più profondamente alla tradizione induista, elimina ogni forma di dualismo definendolo come un inganno, un'apparenza. Perfino la forma e il contenuto sarebbero la medesima realtà. Così il nulla e l'esistenza fenomenica sarebbero soltanto due aspetti della stessa realtà. L'espressione giapponese definisce in questo modo il concetto: ku soku ze shiki (il vuoto è la forma).
Lo shintoismo, culto autoctono nipponico, ha elaborato in modo indipendente il concetto di doppio nel mito di Izanagi e Izanami, la coppia di dei che crearono l'arcipelago giapponese. Gli dei del cielo (amatsukami) inviarono Izanagi e Izanami, fratello e sorella, per popolare la terra ancora nel caos. Essi crearono le isole del Giappone immergendo una lancia e mescolando l'acqua del mare. Quando l'acqua si addensò, sollevando la lancia la fecero gocciolare (simbolismo dell'eiaculazione) formando un'isola. Poi Izanagi (maschio che seduce) e Izanami (femmina che seduce) si accoppiarono generando altre isole, dei e creature che abitarono l'arcipelago nipponico. Questa coppia divina è rappresentata nel culto shintoista da due rocce affioranti dal mare nella baia di Futami presso il tempio di Ise (Daijingu). Le sacre rocce sono l'espressione simbolica più potente del concetto di armonia e unione dei contrari. Attraverso il legame, costituito da una corda, si accentua nel contempo la dualità e l'unità.
Nel pensiero giapponese le matrici buddhiste e shintoiste sono quelle che maggiormente si avvertono. Ma a ciò si aggiunge una profonda conoscenza della letteratura europea che diviene parte costitutiva e dialogante del mondo nipponico. Letteratura e cinematografia nipponica non soltanto acquisirono le tecniche occidentali, ma con esse anche le tematiche, i diversi registri, la tipologia narrativa che si fusero in qualcosa di inseparabile alla tradizione già esistente.
Il regista Kurosawa Akira trattò il tema del doppio nel film Kagemusha (1980). In Kagemusha (Kagemusha, l'ombra del guerriero, produzione Toho e Kurosawa Films) si narra la vicenda del grande condottiero e daimyo Takeda Shingen e del suo sosia (interpretati da Nakadai Tatsuya). Shingen, morto a causa di una ferita, lascia come ordine che il suo decesso venga nascosto al nemico e anche alle persone che non fossero comandanti militari del clan Takeda. Il posto di Shingen viene preso da un sosia perfetto che ha però modeste origini. Il sosia era un ladruncolo condannato per furto. L'uomo si sostituisce al condottiero, ma il peso e la responsabilità del suo comportamento si ripercuotono in modo inaspettato. Il sosia comincia a sentirsi perseguitato da Shingen, tanto da identificarsi in lui e non riconoscere più la sua personalità da quella del nobile Shingen. Egli riesce a ingannare tutti, le concubine, il nipote ancora bambino e soprattutto i nemici. Arriva addirittura a condurre le truppe vittoriosamente contro le forze avversarie. Sembrerebbe aver raggiunto lo scopo di una duplicazione perfetta, ricoprendo al meglio il ruolo assegnatoli. Però un giorno decide di cavalcare un fiero destriero che soltanto Shingen era capace di domare. Il cavallo riconosce per istinto l'estraneo e lo disarciona. Caduto a terra, le concubine si accorgono dell'assenza delle ferite che il vero Shingen aveva, e viene scoperto l'inganno del sosia. Così il gemello ideale di Shingen viene scacciato. Il clan Takeda si avvia al declino. La battaglia di Nagashino nel 1575 ne segna la fine, e la conseguente ascesa di Nobunaga.
Il tema del doppio è qui trattato da Kurosawa nell'ottica del relativismo. Il sosia si immedesima tanto nel suo ruolo da soffrirne quando viene allontanato. Egli sente perfino la stessa responsabilità di Shingen nei confronti del clan. Il tema del relativismo è presente con maggiore insistenza in un altro capolavoro di Kurosawa, il film Rashomon tratto dall'omonimo libro di Akutagawa Ryunosuke. In questo caso il doppio è costituito da una coppia di sposi. L'episodio specifico è tratto dal racconto Yabu no naka (Nel bosco). La relazione duale marito-moglie si scompone nel triangolo marito-moglie-amante, poi in un quartetto, quintetto, sestetto costituito dalle testimonianze dell'omicidio del marito. Il tutto si ricompone nella rivelazione di una medium che proferisce nello stato di trans la confessione del marito suicida. La confessione del marito riporta la pluralità all'unità. Il senso del racconto è nelle testimonianze che mostrano il relativismo dei differenti punti di vista dei personaggi. La tensione della coppia non è risolvibile nella complementarietà così come credeva il taoismo, ma esplode in una pluralità di contraddizioni risolvibili soltanto nell'unità del cosmo. Qui il relativismo di Akutagawa rivela la matrice shinto-buddhista. La natura dell'universo è costituita da un'infinità di contraddizioni tenute insieme dalla contraddizione assoluta: l'uno è il molteplice, il molteplice è l'uno. Si richiede dunque d'abbandonare la logica classica e aprire lo sguardo alla realtà e al pensiero creativo (ciò che i saggi chiamano satori, oppure illuminazione).
L'influenza della letteratura straniera, compresa quella per l'infanzia, ha introdotto il tema del doppelgänger (in giapponese ikiryo). Anche il tema dei gemelli ha avuto una rielaborazione attraverso la lettura dei classici occidentali. Amanuma Haruki ha riscritto il capolavoro di Lewis Carroll ispirandosi liberamente all'immaginario paese delle meraviglie (cfr. Amanuma, Haruki, Alicetopia. Fushigi no kuni no boken, Parorusha, Tokyo, 2000). Il libro è magnificamente illustrato dalle tavole surrealiste di Otake Shigeo. I fratelli Tweedledum e Tweedledee diventano così due sorelle gemelle. Ma l'essere identici è causa di discordia. Come afferma la ragazza: "Se è uguale, allora è meglio vivere con uno specchio". I doppi uguali, come per la legge del magnetismo, si respingono. Il conflitto è inevitabile.
E qui ritornano i princìpi filosofici introdotti all'inizio. Essendo la realtà impermanente (shogyo mujo), il principio d'identità ha valore soltanto nel paese delle meraviglie, luogo dove le contraddizioni logiche sono l'ordinaria esistenza. Ma nel mondo effimero (ukiyo) dell'esistenza umana non vi è posto per il doppio e il dualismo, incessantemente scavalcato dal pluralismo del reale.

Bibliografia

Akutagawa, Ryunosuke, Rashomon e altri racconti, UTET, Torino, 1983.
Amanuma, Haruki, Alicetopia. Fushigi no kuni no boken, Parorusha, Tokyo, 2000.
Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. I miti dell'antichità, Vol. 1, Graphos, Genova, 1991.
Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. L'incontro con la cultura cinese, Vol. 2, Graphos, Genova, 1992.
Boisselier, Jean, La sagesse du Bouddha, Gallimard, Paris, 1993.
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Delay, Nelly, Le Japon éternel, Gallimard, Paris, 1998.
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La Rosa, Giorgio e Sirtori, Vittorio (a cura di), Dizionario delle religioni orientali, Antonio Vallardi, Milano, 1993.
Moore, Charles, The Japanese Mind: Essentials of Japanese Philosophy and Culture, University of Hawaii Press, Honolulu, 1967.
Muccioli, Marcello, La letteratura giapponese, Sansoni, Firenze, 1969.
Novielli, Maria Roberta, Storia del cinema giapponese, Marsilio, Venezia, 2001.
Reischauer, Edwin, Japan, Tradition and Transformation, Allen & Unwin, Sidney, 1979.

venerdì 20 novembre 2009

Le scuse per Hiroshima

Intervento pubblicato dal quotidiano "Il Secolo XIX". Cfr. Cristiano Martorella, Il Nobel Barack non ammette l'orrore di Hiroshima, in "Il Secolo XIX", giovedì 19 novembre 2009, p.22.

Il Nobel Barack non ammette l'orrore di Hiroshima

Nonostante il clima di distensione, e il premio Nobel vinto per la pace, Barack Obama non riesce a fare un passo indietro ammettendo la gravità dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. Le autorità giapponesi avevano suggerito quanto fossero ritenute opportune le scuse per un atto che storicamente appare simile ad altri crimini di guerra, nell'evidenza dello sterminio di massa indifferenziato. Ma la storia è sempre scritta soprattutto dai vincitori, e ciò impedisce di far emergere i fatti piuttosto che le interpretazioni politiche. Negli Stati Uniti ancora vige una versione storica che considera i bombardamenti atomici del Giappone come necessari per evitare una strage di truppe americane in un eventuale sbarco. Questa giustificazione è falsa. I bombardamenti atomici furono un test per valutare l'effettiva potenza e la possibilità di utilizzo delle armi nucleari, e nello stesso tempo un avvertimento per la crescente potenza sovietica. La giustificazione del bombardamento atomico è stata supportata per anni da una mistificazione di regime che ha sempre ridicolmente descritto i giapponesi come ostinati combattenti pronti a morire tutti pur di non arrendersi. Sappiamo invece da numerosi documenti che le autorità politiche giapponesi erano consapevoli di aver perso la guerra e cercavano semplicemente una resa dignitosa. Però le trattative per una resa non furono facilitate dagli Stati Uniti che pretesero l'umiliazione del Giappone con una resa incondizionata e l'occupazione militare del paese. Il Giappone perse la sua indipendenza e ritornò un paese sovrano soltanto nel 1952. I territori del Giappone furono drasticamente ridimensionati sottraendo tutte le zone acquisite dopo il 1895. Anche Okinawa divenne una regione ad amministrazione fiduciaria americana, e alcune isole a nord dell'Hokkaido furono cedute all'Unione Sovietica. Il Trattato di San Francisco del 1951, e il suo rinnovo a Washington nel 1960, pose delle condizioni molto limitanti per il Giappone, e sancì una subordinazione politica del Giappone alla potenza militare americana. Gli scontri violentissimi fra manifestanti e polizia che si ebbero nel periodo della firma dei trattati furono sostenuti sia dall'estrema sinistra sia dall'estrema destra, in un clima di generale insoddisfazione della popolazione. Tutto ciò non può essere dimenticato e cancellato. Gli Stati Uniti possono e devono fare un passo indietro per vedere la storia del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki senza più usare le lenti distorcenti della politica.
Cristiano Martorella

martedì 17 novembre 2009

Il militarismo giapponese

Articolo sul militarismo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.

Fukoku kyohei
Militarismo, colonialismo e libero mercato
di Cristiano Martorella

19 giugno 2005. L’espressione fukoku kyohei (paese ricco ed esercito forte) fu lo slogan usato nell’era Meiji (1868-1912) che ben descrive il militarismo (gunkokushugi) che permeò il moderno Giappone fino alla metà del XX secolo. Dell’argomento si parla spesso con superficialità cadendo nelle consuete banalizzazioni strumentali all’ideologia corrente, senza capire quali siano le motivazioni dell’agire dei protagonisti della storia. Perciò è necessario fare un po’ di chiarezza anche a costo di essere anticonformisti e controversi. Soprattutto sarà il metodo storico comparativo(1) a permetterci di analizzare gli eventi liberandoci della visione pregiudizievole dell’ideologia. Non bisogna dimenticare che lo storico Noro Eitaro (1900-1934) nella sua Storia dello sviluppo del capitalismo giapponese (Nihon shihonshugi hattatsushi) dimostrò per primo la validità del metodo comparativo applicato alla storia giapponese (2).
Lo scopo della nostra analisi verterà quindi sull’esplicazione dei rapporti fra militarismo e libero mercato, mettendo in evidenza i seguenti punti:

1) Differenza fra il militarismo capitalista moderno e il militarismo aristocratico feudale;
2) Origini rurali dell’estrema destra giapponese e debolezza della borghesia liberale;
3) Imitazione giapponese del modello coloniale e militarista occidentale;
4) Persistenza del modello militarista “paese ricco ed esercito forte” nelle democrazie del XXI secolo.

La distinzione fra guerrieri aristocratici samurai ed esercito nazionale di plebei della leva obbligatoria, appare chiaramente evidenziando alcuni eventi cruciali della storia. La coscrizione obbligatoria per l’esercito fu avviata nel 1873, ed era soltanto uno dei passaggi di un grande processo di mutamento della struttura sociale giapponese. I samurai erano stati per secoli i migliori funzionari del Giappone feudale. Oltre ad essere guerrieri abilissimi, erano preparati nelle lettere e nelle arti, risultando un ottimo strumento dell’amministrazione finché non apparve con risalto il declino del potere dello shogun. Il Giappone feudale si scontrò con le nazioni colonialiste occidentali, presentando l’impossibilità di competere con l’organizzazione moderna industriale, anche e soprattutto con la struttura burocratica nazionalista degli stati capitalisti del XIX secolo. Il Giappone era un efficiente impero feudale dell’Oriente, ciò non era però sufficiente per un confronto paritario con la forza militare dell’Occidente finché non fosse divenuto uno stato moderno capitalista. D’altronde era la forza militare che garantiva la penetrazione dei commerci occidentali nelle colonie, garantendo l’esistenza di un libero mercato imposto con l’uso delle armi (3). La coscrizione obbligatoria era soltanto un passaggio della trasformazione del Giappone. Però i samurai, esclusi e ridimensionati nella nuova società, si ribellarono all’evidente svantaggio che li privava dei privilegi e diritti della casta aristocratica, a partire dal diritto di portare pubblicamente le due spade simbolo del guerriero. Già nel 1874 si ebbe a Saga una rivolta guidata da Eto Shinpei (1834-1874) soffocata dal governo. Nel 1876 la ribellione dei samurai avvenne a Kumamoto. Poco dopo la rivolta esplose a Kagoshima, dove quindicimila samurai si scontrarono con quarantamila contadini arruolati e ben equipaggiati dal governo. Il capo dei ribelli era Saigo Takamori (1827-1877), già ministro dimessosi per protesta e valente guerriero. Ma i samurai erano ormai sia tecnicamente sia politicamente obsoleti, e non poterono opporsi all’avanzata delle riforme propulse dall’accoppiata industria e capitale. Il 24 settembre 1877, Saigo Takamori fu sconfitto e perse la vita nell’ultimo scontro decisivo per i samurai.
Lo scontro fra samurai ed esercito di coscritti ebbe come conseguenza anche le rivendicazioni sociali di una massa di plebei che erano ben lontani dalle idee illuministe di eguaglianza, fratellanza e libertà, concetti recepiti soltanto dalla borghesia colta e da alcuni aristocratici intellettuali (4). Questi strati della plebe alimentarono la formazione di una destra estremista che in nome del patriottismo auspicava l’uso della violenza per imporre il proprio governo autoritario. Un tentativo riuscito che portò prima alla penetrazione nelle forze armate, poi al controllo del governo da parte dell’esercito. La formazione di forze armate composte da contadini fu un processo che attinse a un movimento spontaneo. I contadini avevano costituito autentici eserciti ostili al governo dello shogun, il bakufu, e le loro rivolte avevano indebolito il potere militare dei Tokugawa, fino al crollo definitivo nel 1867. La coscrizione obbligatoria del 1973 integrò i contadini nella nuova società, però comportò anche gravi squilibri. Praticamente il nuovo stato nasceva tramite una militarizzazione di massa, a discapito delle forze sane e propulsive dell’economia come i commercianti (chonin). Intanto il malcontento dei samurai fu placato inserendoli nell’apparato burocratico come funzionari governativi, amministratori locali, membri della polizia, e personale scolastico docente e amministrativo. Ruoli che svolsero zelantemente grazie all’indubbia preparazione.
Il governo Meiji, preoccupato della minaccia di insurrezioni, cercò di evitare ad ogni costo il conflitto di classe generando così una situazione pericolosa ignorata da tutti, ovvero la militarizzazione della società. Anche l’industria si sviluppò in tal senso privilegiando l’industria pesante utile alle costruzioni belliche. Questi squilibri erano amplificati dalla debolezza della borghesia giapponese. Lo sviluppo del paese aveva come obiettivo la potenza militare, viceversa mancava una borghesia intellettuale che sostenesse l’arricchimento del paese per il benessere dei cittadini. C’erano numerose eccezioni, ma si trattava di intellettuali dalle idee brillanti che raramente trascinavano il consenso delle masse. Ed erano essi stessi a denunciare la pericolosità del conformismo dell’opinione pubblica. Lo slogan fukoku kyohei (paese ricco ed esercito forte) andava così interpretato come paese ricco per un esercito forte, ciò nell’acclamazione generale delle folle. Nonostante l’impiego di masse contadine, l’esercito fu molto lontano dall’avere un pur minimo aspetto democratico essendo ancora dominato da interessi personali. Yamagata Aritomo del feudo di Choshu assunse il comando della guardia imperiale dal 1872, così da stabilire il predominio della sua signoria sull’esercito fino all’inizio del XX secolo. Yamagata Aritomo fu anche l’artefice di una ordinanza che stroncava qualsiasi attività democratica nell’esercito, e imponeva una rigida politica reazionaria. Paradossalmente si formava così un esercito privo di ideali aristocratici e composto da plebei ostili alla democrazia, inoltre ciò avveniva in un paese formalmente democratico con leggi e istituzioni liberali. Purtroppo un simile processo non era qualcosa di particolare, ma aveva come modello le potenze coloniali occidentali. D’altronde gli eserciti occidentali delle democrazie liberali non hanno mai avuto alcun ordinamento democratico, costituendo la contraddizione palese di un sistema autoritario gerarchico all’interno di sistemi politici a rappresentanza elettorale. La contraddizione è tuttora ignorata, anche quando le forze armate delle democrazie si rendono colpevoli di crimini di guerra, sempre definiti come rare eccezioni, in realtà né rare né eccezioni.
La struttura dell’esercito giapponese divenne estremamente pericolosa quando cominciò a controllare la politica e a saldare l’alleanza con le cricche economiche (zaibatsu). Il binomio libero mercato e militarismo non è così inconsueto se si considerano le economie delle potenze coloniali occidentali. Il militarismo giapponese non è un’eccezione, ma il perseguimento di una regola, quella regola espressa dallo slogan paese ricco ed esercito forte.
Il fenomeno delle formazioni politiche paramilitari e militari è tipico della prima metà del XX secolo, e può essere inquadrato col termine fashizumu (fascismo) usato ampiamente anche da Maruyama Masao. Anche se è ancora controversa la definizione di “fascismo giapponese”, poiché mancava un partito unico ed esistevano altre caratteristiche peculiari, si può essere concordi su ciò che si intende definire (5). Come fasciste si intendono le organizzazioni militari armate che praticavano violenze, compreso l’omicidio degli avversari politici e il colpo di stato, con lo scopo di controllare il paese e rafforzare la propria ideologia distorta della via dell’imperialismo (kodo). Queste formazioni militari avevano origine nelle campagne ancora radicate a valori reazionari e antiprogressisti, in tutto e per tutto ostili ai valori liberali. Per queste masse di contadini la dialettica delle istituzioni democratiche era una degenerazione sociale e politica. Non accettavano i principi liberali e la garanzia dei diritti, invocando invece il principio d’autorità, il rispetto delle gerarchie e l’uso della forza. Ci furono parecchi fautori della svolta autoritaria che tentarono di teorizzare ciò che gli eventi tumultuosamente affermavano. Uchida Ryohei (1874-1937) sosteneva che i confini del Giappone dovessero essere estesi fino al fiume Amur in Cina, e fondò la Kokuryukai (Società del drago nero). Un altro leader ultranazionalista fu Toyama Mitsuru (1855-1944), fautore del dominio dell’Asia sotto la guida del Giappone (panasiatismo nipponico) e organizzatore di numerosi attentati politici. Sicuramente il primo e più agguerrito teorico del nazionalismo estremista giapponese fu Kita Ikki (1883-1937) che sosteneva l’eliminazione del parlamento, l’abolizione della costituzione, l’instaurazione di un’economia popolare contro zaibatsu e latifondi, e l’occupazione della Cina. Kita Ikki fu implicato in un tentativo di colpo di stato e venne giustiziato proprio da quella autorità imperiale che egli strumentalmente appoggiava.
Il 15 maggio 1932 il primo ministro Inumai Tsuyoshi fu assassinato da un gruppo di ufficiali dell’esercito e della marina ponendo fine all’ultimo governo sostenuto dai partiti senza influenze militari. Il 26 febbraio 1936 si sollevarono ventidue giovani ufficiali dell’esercito e della marina alla guida di 1400 uomini che uccisero alcuni importanti politici, fra cui il ministro delle finanze Takahashi Korekiyo e l’ammiraglio Saito Makoto, e occuparono vari palazzi. In nome di una presunta autorità imperiale, essi invocarono un rinnovamento del paese e la fedeltà assoluta all’imperatore. Fu lo stesso imperatore Hirohito a soffocare la sommossa inviando l’esercito contro i ribelli. Però la situazione era ormai compromessa, e con la giustificazione dell’ordine pubblico l’esercito eliminò ogni opposizione. L’imperatore Hirohito rimase così ostaggio della politica militarista, e anche se appoggiò i leader moderati e contrari alla guerra, come Konoe Fumimaro, non riuscì ad opporsi con forza alla follia dei governi presieduti da generali come Tojo Hideki.
I militari erano fuori dal controllo delle istituzioni e prendevano iniziative autonome che trascinavano poi il paese nel baratro oscuro (kurai tanima). Risulta evidente che chi doveva difendere le istituzioni le stava invece demolendo. Inoltre lo scontro nelle forze armate era esasperato perché da una parte la marina (kaigun) si ispirava al modello inglese, non concordando gli obiettivi con l’esercito (conquista della Cina e guerra con gli Stati Uniti), dall’altra anche all’interno dell’esercito chi si opponeva alle concezioni retrograde era considerato un avversario da eliminare.
Questa situazione complessa è ancora più articolata se si considera dinamicamente il quadro che la costituisce. Il militarismo giapponese fu alimentato dal movimento rurale (nohonshugi) delle campagne che fornì l’ideologia e gli uomini, trovò nell’esercito la struttura e l’istituzione che permetteva la penetrazione politica, ma il sostegno materiale fu fornito dai gruppi economici (zaibatsu) che attraverso la guerra potevano trovare uno sbocco commerciale per le produzioni belliche. Capitalismo e ruralismo si accoppiarono col comune interesse di creare nuovi mercati attraverso l’uso della forza militare, così da perpetuare il modello famigliare al di là dei confini nazionali. Perciò è appropriata l’espressione che definisce la grande famiglia panasiatica (daitoa kyoeiken), l’area di comune prosperità, anche se distorta, illiberale e assurda. Però ancora oggi non è stata soppiantata l’idea di creare un modello politico unico attraverso l’uso della forza militare e l’espansione del mercato economico. Dopo la fine del fascismo e del socialismo, sembra essere in discussione anche l’univoco modello della democrazia capitalista come modello egemone, perché nella forma della globalizzazione ricompare lo stesso militarismo che si era alleato col capitalismo. Con la giustificazione della lotta al terrorismo, non sono più i fascisti a sostenere la necessità dell’uso della forza militare per garantire l’ordine sociale, ma i governi democratici. Uno smacco che annienta secoli di lotte per i diritti civili.

Note

1. Il metodo comparativo applicato alle scienze storico-sociali è estremamente efficace ma difficilmente recepito nella sua portata e profondità. Illustri storici come Otto Hintze, Karl Lamprecht, Wilhelm Roscher e Max Weber, fecero ampio uso del metodo comparativo. Nella formazione accademica di chi scrive ha avuto importanza l’insegnamento di Giuseppe Di Costanzo, studioso appunto di questi autori presso l’Università Federico II di Napoli.
2. Sempre Noro Eitaro affermò che bisogna prendere in esame l’ineluttabilità (hitsuzen) della storia, piuttosto che l’occasionalità (guzen). La storia non è un racconto qualunque che si può interpretare a piacere, ma una connessione di fatti.
3. Emblematici i casi dell’India e della Cina sottomesse dalla forza della più potente economia liberista del mondo. La Gran Bretagna, culla della rivoluzione industriale e fautrice del libero mercato, fu anche il più grande impero coloniale del XIX secolo, estendendo i suoi domini e il controllo dei traffici commerciali su tutto il pianeta. Truppe e cannoniere britanniche tutelavano sia gli interessi politici sia quelli economici, spesso coincidenti. Fu per motivi commerciali che scoppiò la Guerra dell’oppio (1840-1842). Infatti fu imposto alla Cina di importare l’oppio prodotto dalle colonie britanniche nell’Asia centrale. Il rifiuto portò al bombardamento di Nanchino, il blocco di Canton e l’acquisizione di Hong Kong tramite un contratto, oltre al pagamento in denaro dell’indennizzo di guerra. Cfr. Herbert Franke e Rolf Trauzettel, Storia Universale Feltrinelli, L’impero cinese, Vol.19, Feltrinelli, Milano, 1969.
4. Fra i samurai sostenitori delle idee illuministe e liberali spicca la figura di Fukuzawa Yukichi (1834-1901), autore di Incoraggiamento al sapere (Gakumon no susume) e La condizione dell’Occidente (Seiyo jijo).
5. Il dibattito sul fascismo giapponese (fashizumu ronso) è ancora vivo, pur risalendo alla controversia fra la scuola Koza e la scuola Rono, legata ai socialisti Yamakawa Hitoshi e Inomata Tsunao.

Bibliografia

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Halliday, Jon, Storia del Giappone contemporaneo. La politica del capitalismo giapponese dal 1850 a oggi, Einaudi, Torino, 1979.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Maruyama, Masao, Le radici dell’espansionismo. Ideologie del Giappone moderno, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1990.
Positano De Vincentiis, Fiammetta, Incrociatori per il Sol Levante, De Ferrari, Genova, 2005.
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Yanaga, Chitoshi, Transition from military to bourgeois society, in “Oriens”, n.1, vol.8, 1955.
Vantaggi, Adriano, Giappone 1853-1905: Dalla fine dell’isolamento al ruolo di grande potenza, Lassa-Scalese, Genova, 1984.