Articolo sulle trasformazioni nell'organizzazione del lavoro pubblicato dal sito Nipponico.com.
Shigoto. Lavoro, qualità totale e rivoluzione industriale giapponese
di Cristiano Martorella
8 dicembre 2002. Si è scritto molto, forse troppo e in modo confuso, sulla qualità totale inserendo questo concetto in contesti spesso inopportuni (ad esempio la scuola) e mancando la comprensione del fenomeno autentico e affidandosi alla sua rappresentazione. Alcuni hanno sostenuto che i giapponesi avrebbero copiato come al solito dagli occidentali, ovvero dalle idee di Edwards Deming, il primo teorico della qualità totale. Questo è falso perché le intuizioni di Deming sono state accolte dai giapponesi e sviluppate in un modo che l’autore non avrebbe mai immaginato. Inoltre la qualità totale è divenuta nelle aziende giapponesi qualcosa di assolutamente contestualizzato alla situazione storica e culturale del paese, tanto da essere ancora oggetto di studio. E ciò risulta vero dall’osservazione delle difficoltà occidentali nell’imitare le tecniche giapponesi (1). Infatti i giapponesi usano il termine autoctono kaizen (miglioramento) in sostituzione del termine qualità totale, così da caratterizzare meglio la novità da loro apportata. E vedremo di quale rivoluzione si tratta.
Shigoto significa in giapponese lavoro. Ed è appunto il cambiamento nelle condizioni e nell’organizzazione del lavoro ad aver segnato lo sviluppo industriale e l’ascesa del capitalismo. Nella storia economica si indicano due rivoluzioni industriali avvenute in Europa. La prima avvenuta intorno al 1760 vide il passaggio dall’industria domestica alla fabbrica attraverso l’introduzione di nuovi macchinari (filatoio meccanico, macchina a vapore, laminatoio, etc.) e maturò nel periodo dal 1815 al 1840 grazie allo sfruttamento dell’energia termica ricavata dal carbone. La seconda rivoluzione industriale incominciò intorno al 1890 e fu favorita da una serie di innovazioni tecnologiche (il motore a combustione interna, il motore elettrico, etc.) e lo sfruttamento dell’energia elettrica e dell’energia termica ricavata dagli idrocarburi, indispensabili anche nella chimica. L’industria subì un’ulteriore trasformazione con l’introduzione della produzione a catena di montaggio di tipo fordista.
Fin qui abbiamo tracciato il quadro descritto nei libri di storia, ma esiste una storia che non è ancora ufficiale nonostante sia stata registrata da molti studiosi: la rivoluzione industriale giapponese.
La terza rivoluzione industriale avvenne intorno al 1974 con l’introduzione della produzione just in time e della qualità totale di tipo Toyota, e maturò grazie allo sfruttamento dell’informatica e delle tecnologie dei semiconduttori. La rivoluzione industriale giapponese segna anche il passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione poiché integra i processi produttivi nel nuovo sistema sociale.
Così come le prime due rivoluzioni industriali avvennero per rispondere ai gravi periodi di crisi economica, anche la terza fu la risposta a una seria crisi, quella petrolifera del 1973. All’epoca il Giappone, a differenza degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, non aveva nemmeno risorse petrolifere sul proprio territorio ed era in balìa dei rifornimenti stranieri. Non potendo eliminare questa dipendenza, gli industriali nipponici sollecitarono una ristrutturazione che permettesse la produzione anche in periodo di crisi. Il modello americano sul tipo di Henry Ford (1863-1947) fu abbandonato a favore del modello giapponese di Toyoda Kiichiro. Il concetto di lavoro (shigoto) fu rivisitato completamente.
Cominciamo con ordine stabilendo alcuni punti fondamentali per inquadrare quest’ultima rivoluzione industriale. Sono due i punti essenziali da ponderare:
- il rovesciamento della logica del marketing;
- la trasformazione dell’industria in un sistema informatico.
I sociologi hanno colto meglio il significato della rivoluzione industriale giapponese che era soprattutto concentrata nell’organizzazione del lavoro, e perciò sensibilmente trascurata dagli economisti attenti ai dati macroeconomici e dagli storici interessati alla cronaca. La comprensione riguardava piuttosto la psicologia sociale e le scienze sociali (2). I sociologi hanno dunque indicato quei cambiamenti nel lavoro che essi definiscono come avvento del postfordismo (altri chiamano questo nuovo modo di produrre come toyotismo, dal nome dell’azienda giapponese Toyota che lo introdusse per prima). Questi cambiamenti si articolano in diverse tecniche dell’organizzazione del lavoro. La qualità totale sostituisce la produzione in linea, basata sulla catena di montaggio, con le isole di produzione o circoli di qualità. I singoli lavoratori non sono specializzati in poche ed elementari mansioni ma hanno più mansioni e una capacità di controllo sul processo produttivo. Il controllo è infatti interno e autogestito dai lavoratori. Nell’organizzazione taylorista (3) del lavoro, il controllo era esterno e basato sulla divisione tra chi lavora e chi controlla il lavoratore. L’azienda diventa una rete. L’azienda rete si differenzia dall’azienda piramide perché privilegia la fase di vendita rispetto alla fase di produzione. I contatti diretti con la clientela assumono un ruolo preminente e l’innovazione proviene da chi lavora operativamente. L’innovazione è proposta dalla base, e non c’è un vertice che pianifica il lavoro. L’informazione e le comunicazioni sono orizzontali piuttosto che verticali. La produzione just in time (nel tempo opportuno) tiene presenti le richieste dei compratori e basa la produzione, per quantità e qualità, sulla domanda del mercato. Vengono abolite le scorte di magazzino e introdotta la flessibilità dei processi lavorativi.
Complessivamente queste innovazioni sono integrate in un sistema che rende possibile sia il rovesciamento della logica del marketing sia la trasformazione dell’industria in un sistema informatico. E ciò avviene necessariamente insieme perché soltanto una gestione integrata dell’informazione può permettere la soddisfazione dei requisiti della qualità totale prima enunciati. Il rovesciamento della logica del marketing significa porre la soddisfazione del cliente come primaria. Invece di tentare di convincere gli acquirenti, bisogna venire incontro alle loro esigenze e abbandonare la concezione della produzione di massa standardizzata. Ogni processo produttivo deve essere flessibile e capace di apportare cambiamenti e miglioramenti (kaizen). Questo può avvenire soltanto in una fabbrica capace di comunicare istantaneamente le informazioni sui processi e le condizioni della produzione. Gli strumenti per far ciò sono il kanban (cartello) e lo andon (pannello). Si tratta di mezzi molto semplici ed elementari che hanno dimostrato quanto l’organizzazione del lavoro fosse importante, e semplici innovazioni basate sulla comunicazione divenissero determinanti. L’introduzione delle nuove macchine informatiche elettroniche esalta e accelera questa tendenza abbattendo le vecchie logiche e i vecchi dispositivi.
La rivoluzione industriale giapponese ha così trasformato la fabbrica in un sistema informatico ed ha liberato l’uomo dal lavoro meccanico, trasformandolo in un supervisore dei processi produttivi. Ciò avviene in un periodo storico che vede il passaggio dalla società industriale alla società post-industriale. Questa svolta epocale sarà ben compresa quando il passaggio alla società dei servizi e dell’informazione sarà completato.
Note
1. Si è arrivati addirittura a negare i successi giapponesi attribuendo il merito alle metodologie occidentali presumibilmente copiate. Eclatante il caso di un articolo di "Business Week" decisamente propagandistico e falso. Cfr. Dawson, Chester et alii, The Americanization of a Japanese Icon, in "Business Week", 15 aprile 2002, pp.26-30.
2. Recentemente molti manuali di sociologia hanno inserito paragrafi sulle innovazioni imprenditoriali giapponesi. Cfr. Ungaro, Daniele, Capire la società contemporanea, Carocci, Roma, 2001, pp.50-61.
3. Cfr. Taylor, Frederick, L’organizzazione scientifica del lavoro, Edizioni di Comunità, Milano, 1952.
Bibliografia
Deming, Edwards, What Top Management Must Do, in "Business Week", 20 luglio 1981, pp.19-21.
Drucker, Peter, Getting Control of Corporate Staff Work, in "The Wall Street Journal", 28 aprile 1981, p.24.
Imai, Masaaki, Kaizen. La strategia giapponese del miglioramento, Il Sole 24 Ore, Milano, 1986.
Ishikawa, Kaoru, Guide to Quality Control, Asian Productivity Organization, Tokyo, 1972.
Ishikawa, Kaoru, Che cos’è la qualità totale, Il Sole 24 Ore, Milano, 1992.
Ohno, Taiichi [Ono, Taiichi], Lo spirito Toyota. Il modello giapponese della qualità totale, Einaudi, Torino, 1993.
Pollard, Sidney, La conquista pacifica. L’industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970, Il Mulino, Bologna, 1989.
Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.
Taguchi, Genichi [Taguchi Gen'ichi], Introduzione alle tecniche per la qualità, Franco Angeli, Milano, 1991.
Tanaka, Minoru, Il segreto del kaizen, Franco Angeli, Milano, 1998.
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lunedì 5 ottobre 2009
domenica 4 ottobre 2009
Kaizen, il miglioramento costante
Articolo sulle implicazioni sociologiche del kaizen pubblicato dal sito Nipponico.com.
Un dualismo controverso: kaizen contro kakushin
di Cristiano Martorella
17 dicembre 2000. La nozione di kaizen (miglioramento), introdotta dai giapponesi nel sistema di produzione, comporta una revisione dei concetti occidentali alla base dell'idea di sviluppo industriale. Con l'adozione della logica del kaizen, si introduce un rapporto con il kakushin (innovazione) che può essere anche conflittuale. Kakushin equivale al concetto espresso in inglese con il termine breakthrough, ed è la realizzazione di un progetto di trasformazione in una prospettiva futura. Esso comporta la rimozione di fattori d'ostacolo e il rinnovamento delle strutture di produzione. I giapponesi non negano l'importanza dell'innovazione all'interno della fabbrica, ma la avvertono come una minaccia se essa non è interna a un processo di miglioramento continuo (kaizen). Secondo Tanaka Minoru, l'autentica innovazione è il risultato della sommatoria del prodotto di kaizen e kakushin. Per i giapponesi, l'innovazione deve essere integrata al miglioramento, se non addirittura subordinata. Non si possono introdurre cambiamenti se la qualità del processo di produzione non è buona.Innovare significa anche rompere la continuità del processo, obbligare a un salto, e sovente con gravi spese e perdite. Sarà sicuramente vero che le perdite presenti dovute all'innovazione vengono compensate e superate dai profitti che essa fornisce nel futuro. Ma questa logica non può essere sempre adottata, e dipende anche dal tipo di economia che la sostiene. Ammortizzare delle spese è possibile in un sistema che possiede ampie riserve. Non è sempre così. E questo spiega il mancato decollo delle economie dei paesi sottosviluppati che non hanno la possibilità di sostenere un sistema industriale. L'idea dello storico ed economista Rostow, teneva presente appunto questa situazione. Il decollo dello sviluppo industriale (take off) deve avere alle spalle un'accumulazione di capitale e di risorse. L'economia giapponese del dopoguerra non godeva di tale condizione, e ha dovuto ricorrere a un sistema di produzione mirato ai propri mezzi ed esigenze. Mentre Rostow, criticato aspramente da Gerschenkron, credeva che esistessero delle condizioni pregiudiziali per la crescita economica e un'unica tipologia di sviluppo, il Giappone dimostrava nei fatti che era possibile anche un modello diverso di organizzazione industriale.Ono Taiichi ci ricorda come nel dopoguerra i giapponesi fossero consapevoli delle diverse condizioni in cui si trovassero, e che le loro scelte di economia aziendale non si potevano rifare a un'imitazione pedissequa del modello statunitense per loro improponibile. Un'altra critica al kakushin (innovazione) è di tipo caratteriale ed emotivo. Gli occidentali hanno la tendenza a cambiare totalmente qualcosa che non funziona, buttando magari via un lavoro che necessitava di ritocchi, oppure che aveva in sé delle caratteristiche positive. Ricordiamo che il Walkman che oggi tutti noi conosciamo e usiamo, non è altro che la versione modificata e migliorata di un magnetofono portatile che era fallito miseramente, ma che fu ripreso da Morita Akio e lanciato sul mercato con successo inaspettato. Alla riluttanza nei confronti del kakushin (innovazione) corrisponde quindi un atteggiamento caratteriale. Ai giapponesi non piacciono le riforme che comportano cambiamenti drastici. E qui passiamo dal livello della produzione industriale a quello più articolato dell'economia finanziaria. Le pressioni degli occidentali sul sistema giapponese per l'introduzione di riforme strutturali non ha mai portato a buoni risultati. Le lamentele degli analisti si sono fatte sentire con più forza a partire dagli anni '90. Un articolo di Robert Neff intitolato Fixing Japan, apparso su "Business Week", sintetizzava bene le ragioni che spingevano a tali critiche. Tuttavia il Giappone cambia, e spesso radicalmente, ma mai secondo le aspettative degli occidentali. In realtà le lamentele degli analisti occidentali sono giustificate. I giapponesi non applicano riforme, piuttosto si limitano a "miglioramenti". Sarà pure significativo il fatto che nella storia del Giappone non è stata mai messa in discussione l'autorità dell'Imperatore, nemmeno nel periodo dello shogunato che vedeva il potere effettivo nelle mani del Generalissimo, riducendo la figura dell'Imperatore a una formalità. Tuttavia fu proprio un Imperatore del periodo Meiji (1868-1912), Mutsuhito, a spingere il Giappone al rinnovamento e all'adozione di quel sistema industriale che ha posto le basi della piena parità con le potenze occidentali. Tutte queste stranezze non possono essere sempre additate all'arcaismo della struttura sociale giapponese. Ragionare in termini di miglioramento comporta uno scontro con l'idea stessa di sviluppo industriale. Schumpeter aveva individuato nelle innovazioni tecnologiche il meccanismo che consentiva lo sviluppo economico superando le crisi cicliche che porterebbero alla stasi di qualunque sistema economico. Le innovazioni costituivano una sorta di volano per l'economia introducendo un elemento inaspettato e non presente nelle variabili delle funzioni matematiche: l'intelligenza umana. Ma l'introduzione del sistema giapponese di produzione ha comportato un modo diverso di vedere la realtà. Ed è difficile negare che non sia cambiato profondamente anche lo sviluppo storico ed economico.Probabilmente dovremo aspettare la conclusione di questi processi per capire seriamente il fenomeno. Sono trascorsi pochi decenni dai cambiamenti di cui abbiamo parlato, ed è eccessivo pretendere di descrivere tali processi come se fossero già conclusi.Finora molte previsioni degli economisti non si sono realizzate, e il Giappone resta ancora una incognita indisponente per chi vorrebbe vedere il mondo governato dall'omogeneità dello sviluppo economico.
Bibliografia
Gerschenkron, Alexander, La continuità storica. Teoria e storia economica, Einaudi, Torino, 1976.
Momigliano, Franco, Economia industriale e teoria dell'impresa, Il Mulino, Bologna, 1975.
Morita, Akio e Ishihara, Shintaro, No to ieru Nihon, Kobunsha, Tokyo, 1989.
Neff, Robert, Fixing Japan, in "Business Week", 29 marzo 1993, pp.38-44.
Ono, Taiichi [Ohno Taiichi], Lo spirito Toyota, Einaudi, Torino, 1993.
Rostow, Walt Whitman, Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino, 1962.
Schumpeter, Joseph, Capitalismo, socialismo e democrazia, Edizioni di Comunità, Milano, 1955.
Schumpeter, Joseph, Il processo capitalistico, Boringhieri, Torino, 1977.
Tanaka, Minoru, Il segreto del kaizen, Franco Angeli, Milano, 1998.
Un dualismo controverso: kaizen contro kakushin
di Cristiano Martorella
17 dicembre 2000. La nozione di kaizen (miglioramento), introdotta dai giapponesi nel sistema di produzione, comporta una revisione dei concetti occidentali alla base dell'idea di sviluppo industriale. Con l'adozione della logica del kaizen, si introduce un rapporto con il kakushin (innovazione) che può essere anche conflittuale. Kakushin equivale al concetto espresso in inglese con il termine breakthrough, ed è la realizzazione di un progetto di trasformazione in una prospettiva futura. Esso comporta la rimozione di fattori d'ostacolo e il rinnovamento delle strutture di produzione. I giapponesi non negano l'importanza dell'innovazione all'interno della fabbrica, ma la avvertono come una minaccia se essa non è interna a un processo di miglioramento continuo (kaizen). Secondo Tanaka Minoru, l'autentica innovazione è il risultato della sommatoria del prodotto di kaizen e kakushin. Per i giapponesi, l'innovazione deve essere integrata al miglioramento, se non addirittura subordinata. Non si possono introdurre cambiamenti se la qualità del processo di produzione non è buona.Innovare significa anche rompere la continuità del processo, obbligare a un salto, e sovente con gravi spese e perdite. Sarà sicuramente vero che le perdite presenti dovute all'innovazione vengono compensate e superate dai profitti che essa fornisce nel futuro. Ma questa logica non può essere sempre adottata, e dipende anche dal tipo di economia che la sostiene. Ammortizzare delle spese è possibile in un sistema che possiede ampie riserve. Non è sempre così. E questo spiega il mancato decollo delle economie dei paesi sottosviluppati che non hanno la possibilità di sostenere un sistema industriale. L'idea dello storico ed economista Rostow, teneva presente appunto questa situazione. Il decollo dello sviluppo industriale (take off) deve avere alle spalle un'accumulazione di capitale e di risorse. L'economia giapponese del dopoguerra non godeva di tale condizione, e ha dovuto ricorrere a un sistema di produzione mirato ai propri mezzi ed esigenze. Mentre Rostow, criticato aspramente da Gerschenkron, credeva che esistessero delle condizioni pregiudiziali per la crescita economica e un'unica tipologia di sviluppo, il Giappone dimostrava nei fatti che era possibile anche un modello diverso di organizzazione industriale.Ono Taiichi ci ricorda come nel dopoguerra i giapponesi fossero consapevoli delle diverse condizioni in cui si trovassero, e che le loro scelte di economia aziendale non si potevano rifare a un'imitazione pedissequa del modello statunitense per loro improponibile. Un'altra critica al kakushin (innovazione) è di tipo caratteriale ed emotivo. Gli occidentali hanno la tendenza a cambiare totalmente qualcosa che non funziona, buttando magari via un lavoro che necessitava di ritocchi, oppure che aveva in sé delle caratteristiche positive. Ricordiamo che il Walkman che oggi tutti noi conosciamo e usiamo, non è altro che la versione modificata e migliorata di un magnetofono portatile che era fallito miseramente, ma che fu ripreso da Morita Akio e lanciato sul mercato con successo inaspettato. Alla riluttanza nei confronti del kakushin (innovazione) corrisponde quindi un atteggiamento caratteriale. Ai giapponesi non piacciono le riforme che comportano cambiamenti drastici. E qui passiamo dal livello della produzione industriale a quello più articolato dell'economia finanziaria. Le pressioni degli occidentali sul sistema giapponese per l'introduzione di riforme strutturali non ha mai portato a buoni risultati. Le lamentele degli analisti si sono fatte sentire con più forza a partire dagli anni '90. Un articolo di Robert Neff intitolato Fixing Japan, apparso su "Business Week", sintetizzava bene le ragioni che spingevano a tali critiche. Tuttavia il Giappone cambia, e spesso radicalmente, ma mai secondo le aspettative degli occidentali. In realtà le lamentele degli analisti occidentali sono giustificate. I giapponesi non applicano riforme, piuttosto si limitano a "miglioramenti". Sarà pure significativo il fatto che nella storia del Giappone non è stata mai messa in discussione l'autorità dell'Imperatore, nemmeno nel periodo dello shogunato che vedeva il potere effettivo nelle mani del Generalissimo, riducendo la figura dell'Imperatore a una formalità. Tuttavia fu proprio un Imperatore del periodo Meiji (1868-1912), Mutsuhito, a spingere il Giappone al rinnovamento e all'adozione di quel sistema industriale che ha posto le basi della piena parità con le potenze occidentali. Tutte queste stranezze non possono essere sempre additate all'arcaismo della struttura sociale giapponese. Ragionare in termini di miglioramento comporta uno scontro con l'idea stessa di sviluppo industriale. Schumpeter aveva individuato nelle innovazioni tecnologiche il meccanismo che consentiva lo sviluppo economico superando le crisi cicliche che porterebbero alla stasi di qualunque sistema economico. Le innovazioni costituivano una sorta di volano per l'economia introducendo un elemento inaspettato e non presente nelle variabili delle funzioni matematiche: l'intelligenza umana. Ma l'introduzione del sistema giapponese di produzione ha comportato un modo diverso di vedere la realtà. Ed è difficile negare che non sia cambiato profondamente anche lo sviluppo storico ed economico.Probabilmente dovremo aspettare la conclusione di questi processi per capire seriamente il fenomeno. Sono trascorsi pochi decenni dai cambiamenti di cui abbiamo parlato, ed è eccessivo pretendere di descrivere tali processi come se fossero già conclusi.Finora molte previsioni degli economisti non si sono realizzate, e il Giappone resta ancora una incognita indisponente per chi vorrebbe vedere il mondo governato dall'omogeneità dello sviluppo economico.
Bibliografia
Gerschenkron, Alexander, La continuità storica. Teoria e storia economica, Einaudi, Torino, 1976.
Momigliano, Franco, Economia industriale e teoria dell'impresa, Il Mulino, Bologna, 1975.
Morita, Akio e Ishihara, Shintaro, No to ieru Nihon, Kobunsha, Tokyo, 1989.
Neff, Robert, Fixing Japan, in "Business Week", 29 marzo 1993, pp.38-44.
Ono, Taiichi [Ohno Taiichi], Lo spirito Toyota, Einaudi, Torino, 1993.
Rostow, Walt Whitman, Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino, 1962.
Schumpeter, Joseph, Capitalismo, socialismo e democrazia, Edizioni di Comunità, Milano, 1955.
Schumpeter, Joseph, Il processo capitalistico, Boringhieri, Torino, 1977.
Tanaka, Minoru, Il segreto del kaizen, Franco Angeli, Milano, 1998.
Kojo, la fabbrica giapponese
Articolo sul sistema produttivo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.
Kojo, la chimerica fabbrica del samurai
di Cristiano Martorella
4 novembre 2001. Fra i diversi tentativi di descrivere l’apparato industriale giapponese e il suo modello economico, va ricordato il suggerimento proposto da alcuni studiosi di accostare la figura del manager nipponico all’antico samurai. Questa fascinazione si è rapidamente diffusa, senza nessun preventivo controllo, tanto da coinvolgere sia studiosi sia giornalisti e opinionisti, arrivando ad essere un’idea molto comune.
L’accostamento della figura del samurai e dell’imprenditore è avvenuto in modo astratto e dilettantesco, tanto da provocare confusioni ed equivoci su due piani diversi e importanti. Il primo piano riguarda lo studio dell’economia, sfalsato da questo modello, il secondo quello della sociologia che rischia di rifiutare quei tratti culturali realmente esistenti a causa del rigetto di questo modello.
Prima di approfondire questo tema, vale la pena segnalare alcune opere che hanno risentito del modello riduzionista del samurai.
Francesco Gatti, profondo conoscitore della storia giapponese, ha scritto un discreto saggio intitolato La fabbrica dei samurai. Non soltanto il titolo suggeriva la possibilità di identificare il samurai e l’industrializzazione, ma gran parte del saggio suggeriva che le gerarchie del Giappone moderno fossero un’eredità dell’epoca feudale. Ciò è soltanto in parte vero. Il rischio di un riduzionismo di questo modello avviene nella mancanza di una comprensione complessiva dei fenomeni di interiorizzazione dei valori e della dinamica sociale. In parole semplici, l’idea che i samurai si fossero riciclati come imprenditori era affascinante, ma non spiegava come ciò fosse accaduto. Appellarsi alla "cultura" non era sufficiente, anzi indicava la necessità di spiegare come fosse stata prodotta la cultura (sia quella della classe dominante, sia quella popolare). Insomma, il samurai non era più una figura storica (con la Pax Tokugawa aveva perso il suo ruolo di combattente fin dal XVII secolo), ma era divenuto il soggetto di un’idealizzazione. Questo non significa che si sia ridotta la sua importanza, anzi si può dire proprio il contrario. L’idealizzazione del samurai fu usata un po’ da tutti in Giappone (classe dirigente, ceti popolari, scrittori, etc.) divenendo un elemento dell’immaginario molto potente. Un personaggio che affollava non soltanto le tradizionali opere del teatro kabuki, ma anche i modernissimi cinema, le serie televisive, perfino anime e manga.
Gli studi sociologici sul Giappone, profondamente viziati da impostazioni ideologiche, hanno risentito di questo potere immaginifico, ciascuno a suo modo. Per Karel van Wolferen, autore di Nelle mani del Giappone, la mentalità del samurai si manifesta nel Giappone moderno mai adeguatamente sviluppato democraticamente e tenacemente ancorato all’ideologia feudale. I pregiudizi di Wolferen partono dallo stereotipo del samurai che definisce l’economia giapponese come economia di guerra e di conquista (da cui l’eloquente titolo del libro).
Opinionisti e giornalisti sentivano avallato questo mito del samurai tecnologico al vertice del potere di una casta di burocrati e industriali. E ciò giustificava qualsiasi rappresentazione dell’uomo giapponese, a volte schiavo-robot, altre volte guerriero spietato della finanza. La stampa di tutto il mondo si è alimentata di questo mito. Emblematico l’articolo di Shere Hite intitolato Siamo ancora samurai.
"Orrendi omuncoli con i vestiti da duro: ecco come appaiono in televisione gli uomini d’affari giapponesi. Per non parlare degli scandali legati a famosi personaggi invischiati in casi di corruzione, manager troppo vicini al governo per operare in modo leale, uomini, uomini e ancora uomini."
Lasciando da parte queste note pittoresche, come si può verificare la correttezza della teoria del samurai-manager? Cerchiamo innanzitutto di esplicitarla. Quel che si crede è l’esistenza di un codice etico del samurai adottato nella società industriale: rigida gerarchia, inflessibile ubbidienza al dovere e spirito di sacrificio.
Questi elementi non sono però sufficienti a descrivere l’economia giapponese. Najita Tetsuo osserva l’impaccio e il carattere maldestro di questa formulazione, arrivando a ridicolizzarla:
" […] tanto che anche gli occidentali sono stati indotti a credere che il bushido sia la base delle pratiche tecnologiche e imprenditoriali giapponesi."
Come si è mostrato in precedenza, il samurai era una figura piuttosto idealizzata già nel Giappone del XVII secolo. Purtroppo la reale natura del samurai è coperta da queste incrostazioni ideologiche. Rappresentato da molti come uomo pronto a morire in ogni momento, il samurai perdeva ogni connotazione umana. E nella società industriale, i cui processi portavano a una forte alienazione, cosa c’era di più aderente al modello tecnologico di un uomo snaturato?
Queste interpretazioni si poggiavano su una falsa rappresentazione del samurai. In particolare era stato frainteso il senso del bushido, il codice morale del guerriero. Yoshimoto Tsunetomo, autore dello Hagakure, non era stato letto con attenzione, e nemmeno Nitobe Inazo. Il samurai non era un rozzo guerriero privo di sensibilità pronto a sacrificare la vita in nome del dovere, e nient’altro. Questa era una semplificazione estrema.
Lo Hagakure aveva costituito una riformulazione del buddismo e del confucianesimo funzionale alla società feudale giapponese. Ma per giungere a tanto bisognava che questa formulazione fosse condivisibile, insomma, che giungesse nell’animo delle persone (usando un termine sociologico, che fosse un valore interiorizzato). Perciò il bushido non è soltanto quel codice fondato sulla gerarchia e il dovere come si crede. L’insegnamento zen era stato applicato come trascendimento dell’individualità (l’io è un’illusione), ma l’eliminazione dell’io non significava "disumanità", piuttosto il riconoscimento dell’uomo come progetto di vita, l’innalzamento degli ideali al di sopra di ogni meschinità mondana. Tutto è illusione tranne la consapevolezza di questa natura illusoria , tutto è effimero tranne l’ideale del Buddha, e il satori può essere conosciuto soltanto provandolo. La dimensione estetica costituiva la base dell’etica del samurai, tanto che sarebbe più sensato parlare di estetica invece di etica. Qui intendiamo per estetica non soltanto una rappresentazione artistica, ma la dimensione della psiche che si fonda sul sentimento (in giapponese il kimochi). Si può quindi definire il samurai come un’opera d’arte vivente (così come la geisha per altri versi).
Detto ciò si può tornare al tema dell’economia. La fabbrica giapponese (kojo) non rispecchia affatto la rappresentazione stereotipata del samurai. Il samurai non è il modello a cui si ispirano i manager, piuttosto sono stati i samurai e i manager ad aver avuto entrambi come punto di riferimento la cultura giapponese. Ma l’applicazione di questi tratti culturali all’economia ha modalità differenti secondo il contesto e l’interazione di altre variabili.
La concezione del processo di miglioramento (kaizen) delle fabbriche giapponesi è sicuramente un frutto di una mentalità giapponese. Nel capitalismo occidentale la finalità della produzione è il profitto, e l’innovazione tecnologica è concepita come abbassamento dei costi (grazie a una razionalizzazione del processo di produzione). Il capitalismo giapponese pone la produzione come obiettivo e considera la qualità una variabile interna al processo di fabbricazione (e non un effetto).
Le differenze concrete fra le strutture e le operazioni delle fabbriche giapponesi (kojo) e delle fabbriche occidentali (factory) sono state ben descritte da Richard Schonberger, Ono Taiichi, Fujimoto Takahiro, Ishikawa Kaoru, Taguchi Gen’ichi, Tanaka Minoru e altri. Differenze riscontrabili nello scorrimento nella linea di montaggio, nelle cabine di saldatura, nell’uso di kanban (cartellini), del just-in-time, etc. Queste differenze materiali spostano il discorso della diversità culturale al livello fisico, così che risulta molto difficile negare ciò che invece, a livello astratto, era facile dubitare. Fra gli anni ’80 e ’90, il modello giapponese di fabbrica (kojo) fu imitato anche in Occidente, con risultati considerevoli. Ma l’adozione della chimerica fabbrica dei samurai non ha significato la trasformazione degli occidentali in feroci guerrieri armati di katana. Così come i giapponesi non sono divenuti occidentali adottando la tecnologia occidentale, nella stessa maniera gli occidentali non sono diventati giapponesi imitando le tecniche produttive giapponesi. Questo dovrebbe far riflettere sui modelli sociologici ed economici e prestare più attenzione al loro uso.
Bibliografia
Gatti, Francesco, La fabbrica dei samurai, Paravia, Torino, 2000.
Hite, Shere, Siamo ancora samurai, in "D la Repubblica delle Donne", 28 settembre 1999.
Najita, Tetsuo, On Culture and Technology in Postmodern Japan, in "The South Atlantic Quarterly", n.87, Summer, 1988.
Nitobe, Inazo, Bushido, Kodansha, Tokyo, 1998.
Schonberger, Richard, Japanese Manufacturing Techniques, The Free Pres, New York, 1982.
Yamamoto, Tsunetomo, Hagakure, Iwanami Shoten, Tokyo, 1998.
Wolferen, Karel, Nelle mani del Giappone, Sperling & Kupfer, Milano, 1990.
Taguchi, Gen’ichi, Off-line Quality Control, Central Japan Qualità Control Association, Nagoya, 1980.
Kojo, la chimerica fabbrica del samurai
di Cristiano Martorella
4 novembre 2001. Fra i diversi tentativi di descrivere l’apparato industriale giapponese e il suo modello economico, va ricordato il suggerimento proposto da alcuni studiosi di accostare la figura del manager nipponico all’antico samurai. Questa fascinazione si è rapidamente diffusa, senza nessun preventivo controllo, tanto da coinvolgere sia studiosi sia giornalisti e opinionisti, arrivando ad essere un’idea molto comune.
L’accostamento della figura del samurai e dell’imprenditore è avvenuto in modo astratto e dilettantesco, tanto da provocare confusioni ed equivoci su due piani diversi e importanti. Il primo piano riguarda lo studio dell’economia, sfalsato da questo modello, il secondo quello della sociologia che rischia di rifiutare quei tratti culturali realmente esistenti a causa del rigetto di questo modello.
Prima di approfondire questo tema, vale la pena segnalare alcune opere che hanno risentito del modello riduzionista del samurai.
Francesco Gatti, profondo conoscitore della storia giapponese, ha scritto un discreto saggio intitolato La fabbrica dei samurai. Non soltanto il titolo suggeriva la possibilità di identificare il samurai e l’industrializzazione, ma gran parte del saggio suggeriva che le gerarchie del Giappone moderno fossero un’eredità dell’epoca feudale. Ciò è soltanto in parte vero. Il rischio di un riduzionismo di questo modello avviene nella mancanza di una comprensione complessiva dei fenomeni di interiorizzazione dei valori e della dinamica sociale. In parole semplici, l’idea che i samurai si fossero riciclati come imprenditori era affascinante, ma non spiegava come ciò fosse accaduto. Appellarsi alla "cultura" non era sufficiente, anzi indicava la necessità di spiegare come fosse stata prodotta la cultura (sia quella della classe dominante, sia quella popolare). Insomma, il samurai non era più una figura storica (con la Pax Tokugawa aveva perso il suo ruolo di combattente fin dal XVII secolo), ma era divenuto il soggetto di un’idealizzazione. Questo non significa che si sia ridotta la sua importanza, anzi si può dire proprio il contrario. L’idealizzazione del samurai fu usata un po’ da tutti in Giappone (classe dirigente, ceti popolari, scrittori, etc.) divenendo un elemento dell’immaginario molto potente. Un personaggio che affollava non soltanto le tradizionali opere del teatro kabuki, ma anche i modernissimi cinema, le serie televisive, perfino anime e manga.
Gli studi sociologici sul Giappone, profondamente viziati da impostazioni ideologiche, hanno risentito di questo potere immaginifico, ciascuno a suo modo. Per Karel van Wolferen, autore di Nelle mani del Giappone, la mentalità del samurai si manifesta nel Giappone moderno mai adeguatamente sviluppato democraticamente e tenacemente ancorato all’ideologia feudale. I pregiudizi di Wolferen partono dallo stereotipo del samurai che definisce l’economia giapponese come economia di guerra e di conquista (da cui l’eloquente titolo del libro).
Opinionisti e giornalisti sentivano avallato questo mito del samurai tecnologico al vertice del potere di una casta di burocrati e industriali. E ciò giustificava qualsiasi rappresentazione dell’uomo giapponese, a volte schiavo-robot, altre volte guerriero spietato della finanza. La stampa di tutto il mondo si è alimentata di questo mito. Emblematico l’articolo di Shere Hite intitolato Siamo ancora samurai.
"Orrendi omuncoli con i vestiti da duro: ecco come appaiono in televisione gli uomini d’affari giapponesi. Per non parlare degli scandali legati a famosi personaggi invischiati in casi di corruzione, manager troppo vicini al governo per operare in modo leale, uomini, uomini e ancora uomini."
Lasciando da parte queste note pittoresche, come si può verificare la correttezza della teoria del samurai-manager? Cerchiamo innanzitutto di esplicitarla. Quel che si crede è l’esistenza di un codice etico del samurai adottato nella società industriale: rigida gerarchia, inflessibile ubbidienza al dovere e spirito di sacrificio.
Questi elementi non sono però sufficienti a descrivere l’economia giapponese. Najita Tetsuo osserva l’impaccio e il carattere maldestro di questa formulazione, arrivando a ridicolizzarla:
" […] tanto che anche gli occidentali sono stati indotti a credere che il bushido sia la base delle pratiche tecnologiche e imprenditoriali giapponesi."
Come si è mostrato in precedenza, il samurai era una figura piuttosto idealizzata già nel Giappone del XVII secolo. Purtroppo la reale natura del samurai è coperta da queste incrostazioni ideologiche. Rappresentato da molti come uomo pronto a morire in ogni momento, il samurai perdeva ogni connotazione umana. E nella società industriale, i cui processi portavano a una forte alienazione, cosa c’era di più aderente al modello tecnologico di un uomo snaturato?
Queste interpretazioni si poggiavano su una falsa rappresentazione del samurai. In particolare era stato frainteso il senso del bushido, il codice morale del guerriero. Yoshimoto Tsunetomo, autore dello Hagakure, non era stato letto con attenzione, e nemmeno Nitobe Inazo. Il samurai non era un rozzo guerriero privo di sensibilità pronto a sacrificare la vita in nome del dovere, e nient’altro. Questa era una semplificazione estrema.
Lo Hagakure aveva costituito una riformulazione del buddismo e del confucianesimo funzionale alla società feudale giapponese. Ma per giungere a tanto bisognava che questa formulazione fosse condivisibile, insomma, che giungesse nell’animo delle persone (usando un termine sociologico, che fosse un valore interiorizzato). Perciò il bushido non è soltanto quel codice fondato sulla gerarchia e il dovere come si crede. L’insegnamento zen era stato applicato come trascendimento dell’individualità (l’io è un’illusione), ma l’eliminazione dell’io non significava "disumanità", piuttosto il riconoscimento dell’uomo come progetto di vita, l’innalzamento degli ideali al di sopra di ogni meschinità mondana. Tutto è illusione tranne la consapevolezza di questa natura illusoria , tutto è effimero tranne l’ideale del Buddha, e il satori può essere conosciuto soltanto provandolo. La dimensione estetica costituiva la base dell’etica del samurai, tanto che sarebbe più sensato parlare di estetica invece di etica. Qui intendiamo per estetica non soltanto una rappresentazione artistica, ma la dimensione della psiche che si fonda sul sentimento (in giapponese il kimochi). Si può quindi definire il samurai come un’opera d’arte vivente (così come la geisha per altri versi).
Detto ciò si può tornare al tema dell’economia. La fabbrica giapponese (kojo) non rispecchia affatto la rappresentazione stereotipata del samurai. Il samurai non è il modello a cui si ispirano i manager, piuttosto sono stati i samurai e i manager ad aver avuto entrambi come punto di riferimento la cultura giapponese. Ma l’applicazione di questi tratti culturali all’economia ha modalità differenti secondo il contesto e l’interazione di altre variabili.
La concezione del processo di miglioramento (kaizen) delle fabbriche giapponesi è sicuramente un frutto di una mentalità giapponese. Nel capitalismo occidentale la finalità della produzione è il profitto, e l’innovazione tecnologica è concepita come abbassamento dei costi (grazie a una razionalizzazione del processo di produzione). Il capitalismo giapponese pone la produzione come obiettivo e considera la qualità una variabile interna al processo di fabbricazione (e non un effetto).
Le differenze concrete fra le strutture e le operazioni delle fabbriche giapponesi (kojo) e delle fabbriche occidentali (factory) sono state ben descritte da Richard Schonberger, Ono Taiichi, Fujimoto Takahiro, Ishikawa Kaoru, Taguchi Gen’ichi, Tanaka Minoru e altri. Differenze riscontrabili nello scorrimento nella linea di montaggio, nelle cabine di saldatura, nell’uso di kanban (cartellini), del just-in-time, etc. Queste differenze materiali spostano il discorso della diversità culturale al livello fisico, così che risulta molto difficile negare ciò che invece, a livello astratto, era facile dubitare. Fra gli anni ’80 e ’90, il modello giapponese di fabbrica (kojo) fu imitato anche in Occidente, con risultati considerevoli. Ma l’adozione della chimerica fabbrica dei samurai non ha significato la trasformazione degli occidentali in feroci guerrieri armati di katana. Così come i giapponesi non sono divenuti occidentali adottando la tecnologia occidentale, nella stessa maniera gli occidentali non sono diventati giapponesi imitando le tecniche produttive giapponesi. Questo dovrebbe far riflettere sui modelli sociologici ed economici e prestare più attenzione al loro uso.
Bibliografia
Gatti, Francesco, La fabbrica dei samurai, Paravia, Torino, 2000.
Hite, Shere, Siamo ancora samurai, in "D la Repubblica delle Donne", 28 settembre 1999.
Najita, Tetsuo, On Culture and Technology in Postmodern Japan, in "The South Atlantic Quarterly", n.87, Summer, 1988.
Nitobe, Inazo, Bushido, Kodansha, Tokyo, 1998.
Schonberger, Richard, Japanese Manufacturing Techniques, The Free Pres, New York, 1982.
Yamamoto, Tsunetomo, Hagakure, Iwanami Shoten, Tokyo, 1998.
Wolferen, Karel, Nelle mani del Giappone, Sperling & Kupfer, Milano, 1990.
Taguchi, Gen’ichi, Off-line Quality Control, Central Japan Qualità Control Association, Nagoya, 1980.
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