domenica 27 settembre 2009

Domanda e offerta

Articolo sull'economia globale secondo Ohmae Kenichi [Omae Ken'ichi] pubblicato dal sito Nipponico.com. L'articolo punta l'attenzione sulle diverse teorie circa la domanda e l'offerta e i cambiamenti internazionali dei mercati.

Juyokyokyu. Domanda e offerta
Il mercato postcapitalista e le nuove regole economiche
di Cristiano Martorella

19 gennaio 2003. Nel linguaggio economico si indica con la domanda e l'offerta il meccanismo che regolerebbe la formazione dei prezzi in un libero mercato. La domanda, in giapponese juyo e in inglese demand, è la quantità di merce che un individuo è disposto a comprare a un determinato prezzo. L'offerta, in giapponese kyokyu e in inglese supply, è la quantità di beni o servizi posta sul mercato per essere venduta a un determinato prezzo. La teoria della domanda e offerta (juyokyokyu) è centrale poiché costituisce il presupposto per la rappresentazione del mercato ideale utilizzato nell'analisi economica. Eppure, come si vedrà più avanti, essa comincia a vacillare sotto i colpi della critica e dei sostenitori dell'economia postcapitalista. In particolare, alcune osservazioni dell'economista giapponese Ohmae Kenichi (trascritto anche Omae Ken'ichi) hanno recentemente ridimensionato questa teoria ormai inadeguata al contesto internazionale e alla globalizzazione.La teoria della domanda e dell'offerta ebbe il suo momento d'oro con il successo della scuola economica dei marginalisti negli anni '70 del XIX secolo. Questo mutamento di indirizzo che si opponeva alla precedente scuola classica, fu portato avanti dal lavoro di William Stanley Jevons (1835-1882), Carl Menger (1840-1921) e Léon Walras (1834-1910). I marginalisti contestavano la teoria del valore lavoro che era stata la base dell'analisi economica. Essi sostenevano che il lavoro speso nella produzione di una merce è cosa passata che non può avere alcuna influenza sul valore della merce. Perciò ignorarono il costo di produzione espresso in ore di lavoro, considerando esclusivamente il valore d'uso. Dunque l'utilità di un bene divenne la determinante specifica del valore stesso, ossia il suo costo. Si aggiungeva a ciò l'interpretazione soggettiva del valore che diede appunto il nome alla teoria soggettiva del valore. Ricapitolando, i marginalisti affermano che i prezzi dei beni si formano in un mercato dove i singoli individui ne richiedono una quantità sulla spinta dell'esigenza soggettiva. Questa impostazione psicologista pone come centrali le preferenze del consumatore e il suo comportamento sul mercato, e fa emergere la domanda e l'offerta come fondamentale criterio di autoregolazione dell'economia. In teoria, il meccanismo dell'equilibrio fra domanda e offerta funziona in questo modo: quando c'è un eccesso di offerta il prezzo diminuisce finché la quantità domandata si adegua a quella offerta, se c'è un eccesso di domanda il prezzo sale finché la quantità domandata si riduce a quella offerta. Il valore soggettivo è considerato in funzione della quantità disponibile del bene e misurato alla soddisfazione resa possibile dall'ultima dose del bene stesso. A questa soddisfazione minima gli economisti marginalisti danno il nome di utilità marginale.Ma la teoria soggettiva del valore conteneva i presupposti per la completa eliminazione di qualsiasi teoria del valore dalla scienza economica. Infatti questa impostazione rende inutile ogni considerazione dei fattori psicologici. Gustav Cassel esprime bene questa posizione.

"La teoria economica è essenzialmente una teoria dei prezzi. Il suo compito principale consiste nella spiegazione dell'intero processo attraverso il quale i prezzi si fissano ai loro effettivi livelli. È perciò naturale che, fin dal suo stesso inizio, la teoria debba essere basata sul concetto di prezzo. Non è necessario, come i vecchi economisti usavano fare, sviluppare dapprima una speciale teoria del valore e rimandare a una fase successiva l'introduzione del concetto di prezzo."(1)

Si comprende come la teoria della domanda e dell'offerta, eliminata la teoria del valore, sia oggi divenuta centrale nella scienza economica assumendo il ruolo precedentemente svolto da altri concetti. Eppure, come stiamo scoprendo, la domanda e l'offerta erano soltanto meccanismi dell'economia che svolgevano un ruolo secondario e subordinato prima della svolta teorica della scuola marginalista. Tornando indietro si rivela che perfino David Ricardo (1772-1823), economista classico, aveva messo in dubbio la fondatezza della teoria della domanda e dell'offerta.

"In definitiva, il costo di produzione - non già, come spesso si è affermato, il rapporto tra offerta e domanda - regola necessariamente il prezzo delle merci. Per un certo tratto di tempo il rapporto che intercede tra offerta e domanda può certo influire sul valore di mercato di una data merce, fin che più o meno abbondante non ne divenga l'offerta a seconda che la domanda sia aumentata o diminuita: effetto questo, per altro, solo di breve durata. L'idea che i prezzi delle merci dipendano esclusivamente dal rapporto che intercede tra offerta e domanda e tra domanda e offerta, divenuta quasi un assioma dell'economia politica, è stata fonte di parecchi errori nell'ambito di tale scienza. [...] Il valore d'ogni merce aumenta sempre in ragione diretta della domanda e in ragione inversa dell'offerta [secondo Jean-Baptiste Say, ndr]. [...] Affermazioni queste, esatte per quanto attiene alle merci monopolizzate ed anche per quel che concerne il prezzo di mercato d'ogni altra merce per un periodo di tempo limitato. Se si raddoppia la domanda di cappelli, ne aumenta immediatamente il prezzo: l'aumento è però puramente temporaneo se non aumenta il costo di produzione dei cappelli, cioè il loro prezzo naturale. Se un'importante scoperta scientifica nell'ambito dell'agricoltura adduce a una diminuzione del 50 per cento del prezzo del pane, non per ciò si determina un ingente aumento di domanda, nessuno desiderandone una quantità maggiore di quel che occorra per soddisfare i propri bisogni; non aumentando la domanda non aumenta neppure l'offerta: una merce viene infatti offerta, non per il semplice fatto che è possibile produrla, ma perché viene richiesta."(2)

Con una semplicità disarmante David Ricardo mostra che la teoria della domanda e dell'offerta è soltanto un'ipotesi che trova scarse conferme nella pratica.L'incertezza della teoria della domanda e dell'offerta viene addirittura scavalcata dall'economista giapponese di orientamento liberista Ohmae Kenichi che propone d'abbandonarla in favore di un'analisi empirica della nuova economia fondata sul lavoro intellettuale, la rete virtuale di Internet, la cibernetica e la globalizzazione. Ohmae afferma che il prezzo non è fissato dalla legge della domanda e dell'offerta.

"Nel nuovo continente [il mondo virtuale in cui agisce l'economia contemporanea, ndr] il valore è quasi completamente indipendente dal costo. Il valore di Microsoft Windows, come quello di una Lexus o di Final Fantasy (un videogioco di successo), dipende dalla sensazione che il software produce nell'utente. Se costa poco, è affidabile e compatibile con altri programmi e computer, il suo valore cresce. Queste caratteristiche non sono tutte collegate al costo dello sviluppo del software. E il prezzo di 98 dollari non è fissato dalla legge della domanda e dell'offerta. A ben vedere, il prezzo di Windows deriva dal suo rango di piattaforma, e dalle sue possibilità di conservare questo status. A 400 dollari, il prezzo sarebbe stato abbastanza elevato da attrarre altri concorrenti sul mercato e minacciare la piattaforma. A 20 dollari, il prezzo sarebbe risultato abbastanza basso da convincere i concorrenti di poter produrre un'alternativa in grado di offrire un margine più elevato, e quindi ancora una volta, di minacciare la piattaforma. Bill Gates ha scelto 98 dollari perché è un prezzo abbastanza basso per scoraggiare i concorrenti nel produrre prodotti alternativi più economici, e abbastanza alto per generare margini e da convincere gli utenti che vale la pena di comprarlo. D'ora in avanti i prezzi di beni e servizi dipenderanno dalla capacità di sfruttare la concorrenza. Chi continua a fissare il prezzo dei propri beni con un metro di giudizio da vecchio mondo, basato sul costo, prenderà decisioni sbagliate."(3)

Ohmae Kenichi reintroduce il concetto di valore e di costo di produzione riconoscendo implicitamente che la teoria del valore lavoro era in linea di massima corretta nel vecchio mondo. Ma aggiunge che essa non possa tenere in considerazione i cambiamenti avvenuti nel sistema economico contemporaneo. Egli sostiene che la formazione del prezzo non possa avvenire secondo le propensioni soggettive degli individui, piuttosto sia fissato dalle organizzazioni economiche più forti (aziende, multinazionali, istituti finanziari, etc.). Si passa dunque da una teoria soggettiva del valore a una teoria globale del valore. Il prezzo viene stabilito dalla concorrenza fra le aziende e dalla loro capacità di gestire fette sempre più ampie di mercato. Questa considerazione sposta l'attenzione da un contesto formale che ritiene liberi gli individui posti nel mercato a un contesto storico che pone in primo piano il potere delle organizzazioni aziendali e le loro ramificazioni nel tessuto sociale.Anche se Ohmae Kenichi è un sostenitore estremo del liberismo economico, le sue analisi forniscono ottimi argomenti per comprendere storicamente lo sviluppo economico. Invece di opporre le differenti teorie, possiamo convenire che la teoria del valore lavoro è adatta alla descrizione di una società industriale, la teoria soggettiva del valore è in parte adeguata a spiegare la società dei consumi di massa, e la teoria globale del valore è indispensabile per comprendere la società dei servizi e dell'informazione. La teoria globale del valore, secondo la quale il valore è indipendente dal costo ed è fissato dalle organizzazioni aziendali, contraddice e rende superflua la teoria della domanda e dell'offerta. Eppure se ci fermassimo qui non avremmo nemmeno sfiorato la questione principale sollevata da queste osservazioni. Un sistema economico dove il lavoro non ha più un valore, il prezzo e il profitto non sono collegati alla produzione, e il mercato non è regolato dalla legge della domanda e offerta, non può dirsi capitalista. Infatti sono le definizioni stesse del capitalismo che inequivocabilmente contraddicono ogni tentativo di riportare questa realtà al vecchio schema industriale basato sul capitale (possesso dei beni e dei mezzi di produzione). La gestione della produzione con la tecnica informatica ha introdotto un elemento virtuale e la smaterializzazione del lavoro. L'elettronica e la cibernetica hanno svuotato di senso il lavoro materiale. Il lavoro materiale era prima misurato in ore, l'attuale lavoro intellettuale viene considerato come una prestazione misurata sull'obiettivo. Viene pagato il servizio offerto o l'informazione, ciò indipendentemente dai costi. Però la tecnica informatica rompe la dicotomia fra lavoratore e mezzi di produzione. Con l'informatica il lavoratore può essere anche il proprietario dei mezzi di produzione (computer e periferiche). La stessa rete informatica non ha proprietari ed è condivisa dagli utilizzatori che ne garantiscono l'esistenza attraverso il loro hardware.L'economia postcapitalista permette alle grandi aziende una maggiore penetrazione e pervasività nel mercato attraverso la globalizzazione, eppure quest'ultima costringe a una estensione della partecipazione che nessuna multinazionale può controllare. Cade l'opposizione fra chi produce e chi consuma, in conclusione, fra offerta e domanda.

Note
1. Citato da Claudio Napoleoni. Cfr. Napoleoni, Claudio, Dizionario di economia politica, Edizioni di Comunità, Milano, 1956, p. 1710. Quest'opera di Napoleoni, a cui collaborarono anche Paolo Sylos Labini, Federico Caffè, Maurice Dobb ed altri, merita un particolare plauso per la chiarezza, la precisione e la documentazione sempre pertinente e approfondita.
2. Ricardo, David, Principi dell'economia politica e delle imposte, UTET, Torino, 1948, pp. 291-292. Si tratta del capitolo 30 intitolato "Dell'influenza della domanda e dell'offerta sui prezzi". Questo duro attacco alla teoria della domanda e dell'offerta viene raramente ricordato nei manuali di economia che la presentano invece come un dato di fatto, mentre si tratta soltanto di una ipotesi spesso in contrasto con i fenomeni dell'economia reale.
3. Ohmae, Kenichi, Il continente invisibile. Oltre la fine degli stati-nazione: quattro imperativi strategici nell'era della Rete e della globalizzazione, Fazi Editore, Roma, 2001, p. 330.

Bibliografia
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Currò, Franco (a cura di), L'economia dalla a alla z, Sperling & Kupfer, Milano, 1992.Drucker, Peter, La società post-capitalistica, Sperling & Kupfer, Milano, 1993.
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Napoleoni, Claudio (a cura di), Dizionario di economia politica, Edizioni di Comunità, Milano, 1956.
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Ohmae, Kenichi, Il continente invisibile. Oltre la fine degli stati-nazione: quattro imperativi strategici nell'era della Rete e della globalizzazione, Fazi Editore, Roma, 2001.
Ohmae, Kenichi, Il mondo senza confini: lezione di management nella nuova logica del mercato globale, Il Sole 24 Ore, Milano, 1991.
Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era post-mercato, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.
Tachibanaki, Toshiaki, Nihon no keizai kakusa, Iwanami shoten, Tokyo, 1998.
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Teulon, Frédéric, Vocabulaire économique, Presses Universitaires de France, Paris, 1993.

Yugo, il modello economico giapponese

Saggio sul modello economico giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.

Yugo, un modello per l'economia giapponese
Saggio sociologico sull'economia e la struttura sociale
di Cristiano Martorella

Il sincretismo culturale

Il termine sincretismo (in giapponese yugo) è stato utilizzato, a volte abusato, per definire la peculiarità della società giapponese. Questo concetto è servito per sostenere, anche politicamente, un modello di assimilazione culturale sincretica che conserverebbe la cultura tradizionale (la differenza culturale) sfruttando la tecnica occidentale (la globalizzazione del mercato) secondo il motto: spirito giapponese e scienza occidentale (wakon yosai).
Ma la convinzione che il modello nipponico sia una forma di sincretismo (yugo) non è soltanto il prodotto di un’ideologia dominante a sostegno della nazione giapponese. L’idea è tuttavia molto diffusa a livello comune fra i giapponesi. Esiste anche l’espressione "tozai bunka no yugo" (fusione di cultura orientale e occidentale). Distinguere le singole posizioni rispetto alle credenze della collettività ha poco senso in ambito sociologico, poiché l’oggetto di studio è la società e le relazioni sociali nel complesso. Quindi bisogna studiare gli effetti e gli impatti della credenza nella società indifferentemente dal giudizio di valore attribuitole. Anche se il sincretismo nipponico (yugo) fosse un semplice artificio retorico, esso è talmente radicato nella mentalità dei giapponesi che non tenerne conto sarebbe ignorare un fattore determinante dell’organizzazione sociale giapponese.
Max Weber aveva insegnato quanto fosse importante riconoscere i valori operanti in una società senza che i nostri giudizi influenzassero l’analisi. In questo senso conviene davvero ispirarsi ai dettami della sociologia comprendente (verstehende Soziologie).
L’ascesa dell’economia nipponica nel XX secolo ha attirato l’attenzione di molti studiosi, ma la ricerca scientifica ha fornito risultati contraddittori. Non si è giunti nemmeno ad essere concordi sull’esistenza di un modello economico specificamente giapponese. Si è arrivati invece al punto di mettere in dubbio la stessa storiografia che risentendo gravemente delle diverse impostazioni, riceve l’accusa di subire forti influenze ideologiche (1).
Ci sembra opportuno riportare questi problemi nell’ambito della sociologia e cercare di impostare l’analisi alla luce della questione metodologica. Se la sociologia si è rivelata incapace nel descrivere compiutamente l’economia giapponese, tale debolezza è l’indizio di una carenza degli strumenti scientifici e del metodo di ricerca.

Lo studio oggettivo

Lo studioso che ha affrontato le problematiche delle scienze sociali in maniera compiuta fu Max Weber (2). Weber ha risolto in modo brillante la difficoltà dell'oggettivazione nelle scienze storico-sociali. Poiché nello studio dell'economia giapponese si riscontra la medesima difficoltà, è indispensabile ripercorrere l'insegnamento weberiano. La scientificità di molte tesi attuali è minata dalla mancanza della distinzione weberiana fra il giudizio di valore (giudizio personale e soggettivo) e l'affermazione di fatto (constatazione dei fatti). L'oggettivazione non è un'utopia, ma un processo cognitivo. Chi rifiuta l'attività scientifica come prodotto teorico di un'elaborazione intellettuale che interagisce con la realtà, si pone fuori dalla scienza. Questo erroneo atteggiamento molto comune fra gli studiosi comporta l'assunzione delle proprie opinioni elevate a verità assolute indiscutibili. Eppure non si fa scienza (epistéme) attraverso l'opinione (doxa). La scienza implica una considerazione dei fatti, una visione complessiva e non parziale, la verifica delle teorie. Tutto ciò può avvenire, secondo Weber, soltanto impostando una corretta metodologia di ricerca. Le scienze storico-sociali implicano una relazione ai valori. I valori di una società devono essere studiati nell'ambito delle relazioni sociali e materiali, così da rendere intelligibile il fenomeno storico che si vuole indagare. Se lo studioso fornisce una preventiva valutazione dei fatti storico-sociali, esprimendo un giudizio personale, impedisce alla ricerca di avanzare nella spiegazione dei nessi causali. Come dice Weber, questo genere di dogma è soltanto una "questione di fede".
Weber propone quindi una migliore definizione degli strumenti d'indagine scientifica. Egli definisce il tipo ideale (Idealtypus) come un costrutto intellettuale capace di elaborare la complessità empirica fornendo una lettura perspicua dei fenomeni. Ma la validità di un costrutto idealtipico non può essere accertata a priori. Il tipo ideale è uno strumento di lavoro e la sua validità viene accertata in base all'efficacia nella comprensione dei concreti fenomeni culturali.
Poiché Weber riconosce l'influenza del pensiero di un'epoca sullo studioso, egli non sfugge affatto alla problematicità dell'oggettivazione. Non si lascia però ingannare da facili e banali contrapposizioni che liquidano il concetto stesso di oggettività. Secondo Pierre Bourdieu la struttura sociale non è solo un condizionamento che determina l'azione degli individui, ma è anche il prodotto della loro azione che trasforma la struttura stessa (3).
L'oggettività è la relazione fra soggetto e oggetto. Essa va trattata come tale escludendo quella falsa e fuorviante concezione dell'oggettività come ipostatizzazione e neutralizzazione del rapporto soggetto/oggetto. Questa falsa oggettività nasconde il soggetto conoscente. Estremamente interessante è notare come tale concezione del soggetto e dell'oggetto come relazione processuale coincida con la stessa elaborata dal filosofo Nishida Kitaro (4). Il soggetto può conoscere se stesso soltanto tramite l'oggetto, e apprendere dell'oggetto tramite il sé. Non si tratta di una coincidenza. Nishida e Weber erano debitori di una concezione elaborata in modo ampio e sofisticato da Georg Wilhelm Friedrich Hegel.
In un ambito epistemologico, la scienza sociale deve riconoscere che la visione e l'interpretazione sono una componente dell'intera realtà del mondo sociale. Sembra superfluo mettere in evidenza l'enorme differenza fra chi sostiene verità indiscutibili e chi propone modelli teorici che interagiscono con la realtà. Eppure gli studi sull'economia giapponese hanno risentito negativamente del primo atteggiamento (5).
Già negli anni '70, l'antropologa e sociologa Nakane Chie rimproverava agli occidentali di usare pedissequamente i modelli teorici elaborati per le società occidentali senza tenere in considerazione la realtà giapponese (6). Nakane cerca di individuare le peculiarità strutturali della società nipponica. Innanzitutto osserva che la coscienza di gruppo giapponese dipende dalle relazioni interpersonali (frame o struttura) piuttosto che dall'attributo (status). I giapponesi tenderebbero a costituire dei gruppi che sarebbero poi il contesto delle loro attività. I vincoli di parentela fissati dallo status sarebbero poco determinanti, perfino nelle famiglie tradizionali (ie) dove prevaleva il criterio di gruppo residenziale (si consideri l'importanza della moglie e della nuora superiore ai parenti trasferitisi altrove, ma anche l'usanza delle adozioni). Il passaggio dalla struttura sociale all'economia è fin troppo facile. Risulta agevole individuare questa tipologia negli zaibatsu, e poi nei keiretsu.
Nakane Chie ritiene che il gruppo corporativo fondato su una struttura di relazioni interpersonali sia il principio edificativo della società giapponese. Si potrebbe obiettare che questa visione sia troppo appiattita sul modello giapponese degli anni '70 e non tenga presente la dinamica sociale sull'asse diacronico. Comunque, Nakane non sbaglia nell'individuare un fattore giapponese e nel suggerire di studiare le modalità della struttura sociale nipponica secondo criteri specifici. Una proposta che ha suscitato polemiche.
Attualmente la situazione non è migliorata. Si assiste, anzi, allo scontro fra teorici della specificità giapponese (nihonjinron) e teorici dell'indifferenza (chi sostiene che la società giapponese vada spiegata con le stesse categorie usate per l'Occidente). Si tratta di un conflitto chiuso e interno a se stesso. I risultati sono abbastanza evidenti: l'incapacità di fornire teorie e spiegazioni sulla società giapponese che non siano banali stereotipi. Come ha osservato Nakane Chie, gli occidentali sono stati abilissimi a sostenere un conflitto culturale fra la tradizione giapponese e la società moderna. Tanto abili da sostenere la medesima teoria per più di un secolo attraversando tutti i mutamenti sociali, economici e politici del Giappone con uguale indifferenza. Affermare che questa sia una grave miopia è il minimo. Il Giappone non è un paese misterioso e incomprensibile, è soltanto il caso evidente di una cattiva impostazione metodologica degli studiosi.
Per evitare di trascinarci in questo pantano di inconcludenti polemiche, bisogna impostare necessariamente la questione metodologica della società giapponese nell'ambito della sociologia.

Nihonjinron e agire razionale

Le scienze sociali riconoscono lo sviluppo storico della società diversificato secondo differenti variabili. La specificità di ogni società è dunque la premessa e non il risultato dell’indagine scientifica. E tale condizione è dettata dallo svolgimento storico che non è regolato da nessuna legge deterministica (7). Quindi il concetto di nihonjinron (specificità culturale giapponese) è superfluo, ma non è falso. Si tratta di una banalità (ogni società ha una sua specificità) che si dimostra particolarmente debole quando viene assunta come principio esplicativo astratto, non contestualizzato e metastorico. La storia economica del Giappone rispecchia un proprio quadro teorico semplicemente perché le condizioni materiali, culturali e politiche del paese erano diverse.
Come ci ricorda Ito Takatoshi, le condizioni per il decollo economico del Giappone furono realizzate autonomamente e secondo il contesto storico-sociale nel periodo Edo (1603-1867), ossia prima dell’apertura all’Occidente (8). I fattori indicati da Ito sono quattro: 1) Alto livello di istruzione 2) Accumulazione di capitale 3) Miglioramento delle tecniche agricole 4) Sviluppo delle infrastrutture.
L’elevato livello di istruzione raggiunto in Giappone, ancora oggi una discriminante straordinaria rispetto ad altri paesi, era determinato da un insieme di elementi culturali e sociali (9). All’insegnamento in famiglia si aggiunse l’educazione nei terakoya (scuole private) estremamente diffuso nel periodo dei Tokugawa sia nelle città sia nei villaggi. Il sistema dei terakoya era rivolto a ragazzi e ragazze fra i 6 e i 14 anni. Gli insegnanti erano in maggioranza ronin (samurai senza padrone), medici, sacerdoti shintoisti e soprattutto chonin (mercanti). Il livello di scolarizzazione del Giappone dell’epoca Edo era piuttosto elevato rispetto ad altri paesi: il 40% dei ragazzi e il 10% delle ragazze. Si contavano più di 10.000 terakoya nell’intero paese. Si consideri che il sistema dei terakoya era rivolto alla classe media, alla popolazione comune. La classe aristocratica dei samurai poteva vantare livelli di istruzione ancora più elevati. Tenendo presente che i samurai senza padrone (ronin) potevano divenire insegnanti nei terakoya, si intuisce come questo sapere non fosse elitario e chiuso.
Importantissima fu l’accumulazione di capitale generata da nuovi assetti politici e dall’organizzazione sociale. La divisione in nuove classi sociali, la stabilità politica e la pace duratura furono le premesse all’ascesa della chonin bunka (cultura dei commercianti). Nonostante i chonin non potessero svolgere un ruolo politico attivo e diretto, essendo privi di qualsiasi potere militare (detenuto dai samurai), furono gli artefici dello sviluppo urbano, dell’esercizio commerciale e della circolazione monetaria. In particolare, fu il meccanismo della komezukai no keizai (economia dell’uso di scambio del riso) ad avviare l’aumento di volume d’affari dei chonin (commercianti) e la circolazione monetaria. Infatti i daimyo riscuotevano le imposte e i samurai ricevevano gli stipendi in natura, ossia in riso, ma erano costretti a convertirlo in moneta dai commercianti. La frequentazione dei quartieri urbani da parte dei samurai innescava un’economia dei consumi e l’attivazione di una forte circolazione monetaria. I chonin raggiunsero ricchezze cospicue, a volte superiori a quelle dei daimyo. Una figura di spicco fra i chonin fu Kinokuniya Bunzaemon, facoltoso commerciante.
Queste sono in breve le caratteristiche della storia economica giapponese alle sue origini (10).
Per aumentare il grado di comprensione dei fenomeni economici giapponesi, suggeriamo di seguire la metodologia weberiana assumendo l’avalutatività (Wertfreiheit) come criterio indispensabile per la scienza. Infatti qualsiasi pregiudizio inficia inevitabilmente lo svolgimento teorico della sociologia.
In secondo luogo, Weber elaborò un concetto di razionalità che risulta estremamente utile per lo studioso (11). Egli distinse rispetto all’agire sociale quattro tipi ideali: agire razionale rispetto allo scopo (zweckrational), agire razionale rispetto al valore (wertrational), atteggiamento affettivo (affektuell) e tradizionale (traditional). L’agire razionale rispetto allo scopo è orientato al conseguimento dei mezzi ritenuti adeguati per realizzare un certo scopo. L’agire razionale rispetto al valore tiene presenti certe credenze in base a un valore attribuito socialmente. L’agire affettivo è determinato da emozioni, sensazioni, affetti. L’agire tradizionale è determinato dalle abitudini acquisite e dai costumi di una civiltà.
Il grado di razionalità e intelligibilità dei fenomeni diminuisce passando dall’agire razionale all’atteggiamento tradizionale irrazionale. L’intenzione di Weber è comunque di riportare ciò che viene considerato irrazionale sotto l’indagine scientifica. Infatti, il fenomeno sociale non è mai puramente formale, ma in diversi gradi può essere costituito da una combinazione dei quattro tipi ideali dell’agire sociale. La conseguenza più importante è la conclusione, secondo Weber, che la razionalità non può riferirsi a un unico modello.
Questa considerazione sociologica rispecchia la posizione della filosofia giapponese del Novecento. Nishida Kitaro coniò il termine toyoteki ronri (logica orientale) per distinguere la razionalità formale giapponese da quella occidentale (12). Tanabe Hajime si dedicò alla filosofia della scienza e scrisse Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza) (13). Anch’egli riconobbe la necessità di elaborare una logica che tenesse presenti le caratteristiche giapponesi. Watsuji Tetsuro pensò addirittura di poter rintracciare le caratteristiche del pensiero giapponese nell’influenza dell’ambiente e del clima (14). Mutai Risaku criticò l’idea che la logica occidentale rappresenti la forma corretta e universale del pensiero (15).
Le conseguenze dal punto di vista sociologico ed economico sono enormi. Per avere una comprensione dei comportamenti economici giapponesi è necessario avere una conoscenza delle variabili che determinano l’agire sociale. E questo può avvenire soltanto tenendo presenti i valori nella società giapponese. L’errore metodologico consiste nel riportare l’agire razionale giapponese a un atteggiamento irrazionale tradizionale o affettivo, indicando come sopravvivenze di un sistema arcaico ciò che è semplicemente diverso dalla razionalità occidentale.

Religione e società

Weber aveva studiato l'influenza delle credenze religiose sull'economia fornendo una teoria sul capitalismo occidentale molto apprezzata negli ambiti storici e sociologici. Ne L'etica protestante e lo spirito del capitalismo (16), egli osserva un fatto statistico, ossia la prevalenza delle imprese e proprietà protestanti in Europa. Analizzando il fenomeno nella dimensione diacronica, si trova conferma dello sviluppo del capitalismo in centri protestanti a partire dal XVI secolo. Weber cerca quindi una spiegazione del fenomeno che trova nelle caratteristiche del protestantesimo. Secondo Weber nasce dall'etica protestante la concezione del capitalismo moderno basata sulla disciplina del lavoro, la dedizione al guadagno tramite un'attività economica legittima, e la mancanza dello sperpero del guadagno che invece viene reinvestito (17). Un'analisi weberiana della società e economia giapponese è stata tentata da Morishima Michio (18). Secondo Morishima, in Europa l'etica protestante incoraggiò il capitalismo, mentre in Giappone fu il confucianesimo a sostenerlo. L'enfasi confuciana sulla fedeltà ai genitori, agli anziani, e allo stato avrebbe promosso la cooperazione tra gli imprenditori e il governo. Tuttavia la teoria di Morishima è per molti versi insoddisfacente, nonostante abbia avuto ampia diffusione e consensi (19). Le motivazioni sono di ordine storico e filosofico. Il confucianesimo cinese è una dottrina funzionale alla stabilità delle classi aristocratiche e alla conservazione del mondo contadino. Ciò è in contraddizione con il dinamismo moderno e il capitalismo. In effetti, si deve riconoscere che il neoconfucianesimo giapponese ha tratti completamente diversi dal confucianesimo cinese (20). Il neoconfucianesimo sviluppato in epoca Edo (1603-1867) esaltava il razionalismo e lo studio delle scienze (21).
Ma nemmeno le particolarità del neoconfucianesimo giapponese sono sufficienti per spiegare i fenomeni economici del XX secolo. Gli influssi dello shintoismo e del buddhismo sono stati eccessivamente trascurati. Lo shintoismo fornisce una considerazione delle cose (mono) differente dalle religioni monoteiste. L'insistenza sul valore e sulla natura divina delle cose attribuisce al prodotto un significato particolare. Non si tratta di una rozza forma di animismo, ma di una concezione che elimina il dualismo cartesiano (spirito e materia) tipico del pensiero occidentale. La mancanza di una distinzione fra mente e materia permette di concepire le idee con una progettualità concreta e il prodotto con le implicazioni della sensibilità umana. Una concezione che è rispecchiata nel marketing come evidenziato da Johansson e Nonaka (22).
L'analisi dell'organizzazione industriale rivela l'applicazione di un pensiero derivato dal buddhismo zen. Innanzitutto il concetto di kaizen, la qualità totale, che riprende l'idea di miglioramento tipica dello zen. Ma soprattutto l'intero processo di fabbricazione che responsabilizza l'operaio. Una concezione opposta e contraria allo Scientific Management americano inventato da Frederick Taylor (23) e applicato al fordismo. L'operaio nel Toyota Production System ha la facoltà di bloccare l'intera linea di produzione per apportare modifiche e miglioramenti. Questo arresto in linea era inconcepibile nelle fabbriche occidentali, tanto che fu ridicolizzato dal comico Charlie Chaplin nel suo celebre film Tempi moderni (1936). Secondo i manager giapponesi, una linea produttiva che non si arresta mai è una linea perfetta oppure una linea con una quantità enorme di problemi. La seconda ipotesi è la più probabile. Infatti la mancanza dell'arresto della linea impedisce di far emergere e individuare le disfunzioni. L'addetto alla linea non deve essere un semplice esecutore di ordini, ma conoscere e controllare gli eventi della produzione. Nella fabbrica giapponese c'è un surplus di coscienza.
Anche la considerazione del "nulla" (mu) come elemento attivo, elaborata dal pensiero zen, è ripresa nella definizione dei "sei zeri": zero stock (nessuna scorta in magazzino), zero difetti, zero conflitto, zero tempi morti di produzione, zero tempo d'attesa per il cliente, zero cartacce (eliminazione della burocrazia superflua)(24). Concetti espressi anche con la definizione delle "tre emme": muri (eccesso), muda (spreco) e mura (irregolarità)(25). Il pensiero zen è in azione e applicato in questa considerazione del nulla come fattore produttivo. Una considerazione che ha permesso ai giapponesi di perfezionare un sistema di fabbricazione just-in-time estremamente efficiente che è stato poi imitato anche dagli occidentali.
Ovviamente le forme del pensiero e della cultura non generano la realtà materiale, ma tuttavia interagiscono con essa in maniera forte e determinante. Rifiutare il riconoscimento dell'interazione di fattori psicologici e mentali, del sistema di credenze, del mondo simbolico con l'apparato economico, equivale a una lobotomia del pensiero scientifico che trae la sua forza proprio nella capacità di fornire una elaborazione concettuale (Begriffbildung) esplicativa della complessità empirica.
Economia e cultura
Il modello economico giapponese che è stato sostenuto maggiormente è il tipo dell'assimilazione culturale sincretica (yugo) del Giappone che ne avrebbe conservato la cultura tradizionale adottando le tecniche occidentali (wakon yosai). Ma questo modello rischia di rivelarsi una banalità. Innanzitutto non si definisce cosa si intenda per tradizione giapponese. Considerando che la tradizione giapponese è già essa stessa una forma sincretica fra la cultura autoctona e la cultura cinese, questa distinzione perde di efficacia. Inoltre non esiste cultura che non sia una forma di assimilazione e trasformazione. L'immobilità è la morte di una cultura, e non costituisce uno stato di conservazione. Quindi è superfluo considerare l'assimilazione culturale in Giappone come un evento particolare e singolare. E altrettanto inutile è meravigliarsi delle forme sincretiche nipponiche (yugo) che sono la semplice manifestazione di una civiltà vitale.
Piuttosto risulta estremamente interessante considerare la dinamica sociale che è terribilmente sottostimata. L'idea di una società immobile e gerarchica viene attribuita al Giappone in maniera superficiale e stereotipata, mentre gli studi storici evidenziano una mobilità sociale che ha innescato importanti fenomeni. Questo errore è consueto negli autori che posseggono una scarsa dimestichezza con le categorie sociologiche. Ad esempio, è frequente l'uso maldestro del concetto di classe sociale senza alcuna considerazione della stratificazione sociale. Ogni individuo può appartenere a una sola classe, ma contemporaneamente a parecchi strati sociali poiché esistono diversi criteri di stratificazione (economico, politico, professionale, scolastico, religioso, etnico, etc.). Come conseguenza, l'ignoranza della stratificazione sociale impedisce di vedere e comprendere la mobilità sociale.
Eppure non mancano gli studiosi che hanno mostrato quanti cambiamenti abbia attraversato il Giappone. Il posto fisso nell'azienda, per esempio, è un fenomeno recente che risale al dopoguerra. Perciò non costituisce una regola e non va inteso come una caratteristica del sistema economico giapponese su lunga scala. Noguchi Yukio ha individuato notevoli differenze del sistema economico prima del 1940, e suggerisce di considerare con maggiore attenzione il periodo prebellico (26). Questi cambiamenti sarebbero indicati anche da Okazaki Tetsuji e Okamura Masahiro ne L'origine del sistema economico giapponese (27).
Ma ritorniamo alla questione dello sviluppo tecnologico. Per quanto riguarda le tecniche occidentali, sono molti gli studiosi che hanno segnalato come l'adozione di una tecnica non implichi necessariamente una particolare struttura sociale(28). La credenza che l'innovazione tecnologica comporti uno sviluppo lineare è stata da tempo criticata e respinta (29). Il mito della modernizzazione crolla ogni giorno davanti alla realtà storica contemporanea, la cui complessità smentisce ogni tipo di dogma.
Dopo aver riconosciuto i limiti del modello sincretico, possiamo comunque rivalutare il suo apporto teorico all'indagine sociologica. L'economia giapponese è costituita da un insieme di variabili che non possono essere riportate a un modello tradizionale e neppure al modello occidentale della modernizzazione. Inoltre non si tratta di una semplice combinazione additiva fra antica tradizione e moderna tecnologia. I rapporti fra questi diversi elementi hanno generato fenomeni completamente nuovi. Lo sviluppo economico del Giappone non può essere considerato un'addizione fra tradizione e tecnologia. Infatti gli influssi vicendevoli fra elementi materiali e fattori culturali hanno innescato un reciproco cambiamento. La tecnologia giapponese si sviluppa ormai in maniera autonoma e secondo proprie direttive. Prodotti come il Walkman, la Playstation, il Gameboy che tanto influenzano la vita quotidiana dei giovani, sono nati dalla creatività giapponese (30).
Come ci ricordano gli storici della scienza, la tecnica è semplicemente ciò che serve per soddisfare un bisogno. Una concezione della tecnica scevra di ogni tentazione metafisica, ci permette di comprendere come possa essere applicata in ambienti diversi. Il sincretismo giapponese fra cultura e tecnologia è il semplice riconoscimento della concretezza della scienza e della tecnica. Un pragmatismo, come si è detto in precedenza, favorito dalle scuole neoconfuciane giapponesi. La cultura, a sua volta, non è minacciata dalla modernità. Ogni società che è capace di adattarsi e assimilare elementi nuovi è estremamente vitale. Interpretare le trasformazioni di una cultura come una sua negazione significa non possedere una conoscenza perspicua della sociologia e dell'antropologia culturale.

Note

1. Sulla questione è utile consultare: Najita, Tetsuo, On Culture and Technology in Postmodern Japan, South Atlantic Quarterly, vol. 87, n. 3, Summer 1988, pp. 401-418. Anche Harootunian ha sviluppato la polemica sul rapporto fra storiografia e ideologia. Cfr. Harootunian, Harry, Visible Discourses/Invisible Ideologies, South Atlantic Quarterly, vol. 87, n. 3, Summer 1988, pp.446-474. L'analisi più profonda e pertinente resta comunque quella operata da Yamamura Kozo, professore di economia all'Università di Washington, che ha evidenziato i limiti e gli errori della storiografia. Cfr. Yamamura, Kozo, "L'industrializzazione del Giappone. Impresa, proprietà, gestione", in Storia Economica Cambridge, vol. VII, cap. 5. Einaudi, Torino, 1980, pp. 267-329.
2. Weber, Max, Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftlehre, Mohr, Tübingen, 1922 (trad. it. Weber, Max, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 1958).
3. Bourdieu, Pierre, Réponses. Pour une anthropologie réflexiv, Editions du Seuil, Paris, 1992 (trad. it. Bourdieu, Pierre, Risposte. Per un'antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino, 1992).
4. Nishida Kitaro, Nishida Kitarou zenshu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1948, vol. 6.
5. Ricordiamo un caso emblematico, quello di Karel van Wolferen, che fornisce una visione critica e negativa del sistema economico giapponese. Cfr. Van Wolferen, Karel, Nelle mani del Giappone, Sperling & Kupfer, Milano 1990.
6. Nakane Chie, Japanese Society, London, Weidenfeld & Nicolson, London, 1973 (trad. it. Nakane Chie, La società giapponese, Raffaello Cortina, Milano, 1992).
7. Miki Kiyoshi addirittura considera il pensiero un prodotto storico ribaltando la questione. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.
8. Ito, Takatoshi. 1992. The Japanese Economy, Massachusetts Institute of Technology, Cambridge, 1992.
9. Fondamentale il lavoro di Ronald Dore che mise in evidenza la discriminante dell'istruzione come fattore di sviluppo. Cfr. Dore, Ronald. Education in Tokugawa Japan, University of California Press, Berkeley & Los Angeles, 1965.
10. Anche Halliday riconosce l'importanza dello sviluppo economico del periodo Edo per la successiva ascesa della società industriale dell'epoca Meiji. Cfr. Halliday, Jon, A Political History of Japanese Capitalism, Pantheon Books, New York, 1975. Sullo sviluppo del periodo Edo ha scritto in maniera completa ed esaustiva Claudio Zanier. Cfr. Zanier, Claudio, Accumulazione e sviluppo economico in Giappone, Einaudi, Torino, 1975.
11. Il lavoro di Weber è fondamentale per la sociologia. Indubbiamente si tratta dell'autore più fecondo, e i suoi trattati teorici sul metodo sociologico sono ancora di una straordinaria attualità. Così come le teorie sulla società moderna, l'economia e lo sviluppo. Si consultino i testi dedicati da Franco Ferrarotti al sociologo tedesco. Ferrarotti, Franco, Max Weber e il destino della ragione, Laterza, Bari, 1985.
12. Cfr. Giancarlo Vianello. "La scuola di Kyoto attraverso il Novecento", in Marchianò, Grazia (a cura di), La scuola di Kyoto. Kyoto-ha, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 1996, p. 37.
13. Tanabe Hajime, Kagaku gairon, Iwanami Shoten, Tokyo, 1918.
14. Watsuji Tetsuro, Fudo: ningengakuteki kosatsu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1979.
15. Mutai Risaku, Shisaku to kansatsu, Keiso Shobo, Tokyo, 1971.
16. Weber, Max, "Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus", in Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie. Mohr, Tübingen 1922 (trad. it. Weber, Max, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze, 1945).
17. Una bella esposizione del pensiero weberiano è fornita da Giddens che approfondisce e paragona le analisi di Weber a quelle di altri studiosi. Giddens, Anthony, Capitalism and Modern Social Theory, Cambridge University Press, Cambridge, 1971.
18. Morishima, Michio, Why has Japan Succeeded?, Cambridge University Press, Cambridge, 1982.
19. Ad esempio nel lavoro di Ronald Dore e altri studiosi occidentali. Dore, Ronald, Taking Japan Seriously. A Confucian Perspective on Leading Economic Issue, Athlon Press, London 1987 (trad. it. Dore, Ronald, Bisogna prendere il Giappone sul serio. Saggio sulla varietà dei capitalismi. Bologna, il Mulino, 1990).
20. Cfr. Takeshita, Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Clueb, Bologna, 1996, pp. 144-148.
21. Cfr. Tenneriello, Andrea, La legislazione per la scienza e la tecnologia nel Giappone moderno, Unicopli, Milano, 2001, p. 8.
22. Johansson, Johny e Nonaka, Ikujiro, Senza tregua. L'arte giapponese del marketing. Baldini & Castoldi, Milano, 1997.
23. Taylor, Frederick, Scientific Management, Harper & Brothers, New York, 1947. Si consulti Smiraglia per un quadro completo. Smiraglia, Stanislao, Psicologia sociale della società industriale, Pàtron, Bologna, 1993.
24. Cfr. Ohno Taiichi, Lo spirito Toyota. Einaudi, Torino, 1993, pp. XVI-XVII.
25. Cfr. Schonberger, Richard, Tecniche produttive giapponese, Franco Angeli, Milano, 1987, pp. 72-73.
26. Noguchi, Yukio, Senkyuhyakuyonjunen taisei, Toyo Keizai Shinposha, Tokyo, 1995.
27. Ozaki, Tetsuji e Okamura, Masahiro, Gendai Nihon keizai shisutemu no genryu, Nihonkeizai Shinbunsha, Tokyo, 1993.
28. Il problema è trattato da Franco Crespi. Cfr. Crespi, Franco, Le vie della sociologia, Il Mulino, Bologna, 1985, pp. 337-388. Un approccio critico al problema è esposto da Giddens con il solito acume. Giddens, Anthony, Sociology. A Brief but Critical Introduction, Macmillian, London, 1982.
29. La critica più autorevole è quella di Immanuel Wallerstein, importante sociologo. Wallerstein, Immanuel, The Modern World System, Academic Press, New York, 1974.
30. Gli studi sulla cultura giovanile giapponese cadono nell'errore frequente di isolare la cultura di massa senza considerare la partecipazione individuale alla società nella sua completezza. Eppure questi elementi hanno senso soltanto quando considerati insieme. Lo studio della società di massa non può avvenire separatamente dallo studio della società in tutti i suoi aspetti istituzionali, economici e relazionali. Infatti la società di massa è soltanto un aspetto della società moderna. Questo genere di errore è evidente in Sharon Kinsella e Alessandro Gomarasca che definiscono mistificatori gli studi sulla società giapponese e rigettano ogni tipo di indagine scientifica che non rientri nel loro quadro di riferimento. Cfr. Gomarasca, Alessandro, La bambola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo, Einaudi, Torino, 2001.

Il concetto giapponese di economia

Saggio sull'economia giapponese pubblicato dall'Associazione Italiana per gli Studi Giapponesi (AISTUGIA). Cfr. Cristiano Martorella, Il concetto giapponese di economia. Le implicazioni sociologiche e metodologiche, in Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002, pp.393-401.

Il concetto giapponese di economia. Le implicazioni sociologiche e metodologiche
di Cristiano Martorella

L’ascesa dell’economia giapponese nel XX secolo ha attirato l’attenzione di molti studiosi. Notevolissima è dunque la produzione di testi che ha arricchito una vasta saggistica. Ma la ricerca scientifica ha fornito risultati ambigui e contraddittori per quanto riguarda l’economia giapponese. Non si è giunti nemmeno ad essere concordi sull’esistenza di un modello economico specificamente giapponese. Si è arrivati invece al punto di mettere in dubbio la stessa storiografia che risentendo gravemente delle diverse impostazioni riceve l’accusa di subire influenze ideologiche molto forti.(1)
Ci sembra opportuno riportare questi problemi nell’ambito della sociologia e cercare di impostare l’analisi alla luce di una questione metodologica. Se la sociologia si è rivelata incapace nel descrivere compiutamente l’economia giapponese, tale debolezza è l’indizio di una carenza degli strumenti scientifici e del metodo di ricerca.
L’autore che ha affrontato queste problematiche in maniera compiuta fu Max Weber.(2) Weber ha risolto in modo brillante la difficoltà dell’oggettivazione nelle scienze storico-sociali. Poiché nello studio dell’economia giapponese si riscontra la medesima difficoltà, è indispensabile ripercorrere l’insegnamento weberiano. La scientificità di molte tesi attuali è minata dalla mancanza della distinzione weberiana fra il giudizio di valore (giudizio personale) e l’affermazione di fatto (constatazione dei fatti). L’oggettivazione non è un’utopia, ma un processo cognitivo. Chi rifiuta l’attività scientifica come prodotto teorico di un’elaborazione intellettuale che interagisce con la realtà, si pone fuori dalla scienza. Questo erroneo atteggiamento molto comune fra gli studiosi comporta l’assunzione delle proprie opinioni elevate a verità assolute indiscutibili. Il passo successivo è la personalizzazione del settore di studio e la tendenza ad avallare le proprie teorie in base a una supposta autorità.
Eppure non si fa scienza (epistéme) attraverso l’opinione (doxa). La scienza implica una considerazione dei fatti, una visione complessiva e non parziale, la verifica delle teorie. Tutto ciò può avvenire, secondo Weber, soltanto impostando una corretta metodologia di ricerca. Le scienze storico-sociali implicano una relazione ai valori. I valori di una società devono essere studiati nell’ambito delle relazioni sociali e materiali, così da rendere intelligibile il fenomeno storico che si vuole indagare. Se lo studioso fornisce una preventiva valutazione dei fatti storico-sociali, esprimendo un giudizio personale, impedisce alla ricerca di avanzare nella spiegazione dei nessi causali. Come dice Weber, questo genere di dogma è soltanto una "questione di fede".
Weber propone quindi una migliore definizione degli strumenti d’indagine scientifica. Egli definisce il tipo ideale (Idealtypus) come un costrutto intellettuale capace di elaborare la complessità empirica fornendo una lettura perspicua dei fenomeni. Ma la validità di un costrutto idealtipico non può essere accertata a priori. Il tipo ideale è uno strumento di lavoro e la sua validità viene accertata in base all’efficacia nella comprensione dei concreti fenomeni culturali.
Poiché Weber riconosce l’influenza del pensiero di un’epoca sullo studioso, egli non sfugge affatto alla problematicità dell’oggettivazione. Non si lascia però ingannare da facili e banali contrapposizioni che liquidano il concetto stesso di oggettività. Secondo Pierre Bourdieu la struttura sociale non è solo un condizionamento che determina l’azione degli individui, ma è anche il prodotto della loro azione che trasforma la struttura stessa.(3)
L’oggettività è la relazione fra soggetto e oggetto. Essa va trattata come tale escludendo quella falsa e fuorviante concezione dell’oggettività come ipostatizzazione e neutralizzazione del rapporto soggetto/oggetto. Questa falsa oggettività nasconde il soggetto conoscente. Estremamente interessante è notare come tale concezione del soggetto e dell’oggetto come relazione processuale coincida con la stessa elaborata dal filosofo Nishida Kitaro.(4) Il soggetto può conoscere se stesso soltanto tramite l’oggetto, e apprendere dell’oggetto tramite il sé. Non si tratta di una coincidenza. Nishida e Weber erano debitori di una concezione elaborata in modo ampio e sofisticato da Georg Wilhelm Friedrich Hegel.
In un ambito epistemologico, la scienza sociale deve riconoscere che la visione e l’interpretazione sono una componente dell’intera realtà del mondo sociale. Sembra superfluo mettere in evidenza l’enorme differenza fra chi sostiene verità indiscutibili e chi propone modelli teorici che interagiscono con la realtà. Eppure gli studi sull’economia giapponese hanno risentito negativamente del primo atteggiamento.(5)
Come si è detto in precedenza, questa situazione ha comportato un grado di conflittualità elevata fra gli studiosi di nipponistica. Si tratta comunque di un fenomeno frequente e costante. Già negli anni ’70, la sociologa Nakane Chie rimproverava agli occidentali di usare pedissequamente i modelli teorici elaborati per le società occidentali senza tenere in considerazione la realtà giapponese.(6) Attualmente la situazione non è migliorata. Si assiste, anzi, allo scontro fra teorici della specificità giapponese (nihonjinron) e teorici dell’indifferenza (chi sostiene che la società giapponese vada spiegata con le stesse categorie usate per l’Occidente). E quest’ultimi, paradossalmente, non avrebbero niente da dire se non esistessero i primi. Si tratta di un conflitto chiuso e interno a se stesso. I risultati sono abbastanza evidenti: l’incapacità di fornire teorie e spiegazioni sulla società giapponese che non siano banali stereotipi. Dalla fine dell’Ottocento ad oggi, gli occidentali sono stati abilissimi a sostenere un conflitto culturale fra la tradizione giapponese e la società moderna. Tanto abili da sostenere la medesima teoria per più di un secolo attraversando tutti i mutamenti sociali, economici e politici del Giappone con uguale indifferenza. Affermare che questa sia una grave miopia è il minimo. Il Giappone non è un paese misterioso e incomprensibile, è soltanto il caso evidente di una cattiva impostazione metodologica degli studiosi.
Per evitare di trascinarci in questo pantano di inconcludenti polemiche, bisogna impostare necessariamente la questione metodologica della società giapponese nell’ambito della sociologia. Le scienze sociali riconoscono lo sviluppo storico della società diversificato secondo differenti variabili. La specificità di ogni società è dunque la premessa e non il risultato dell’indagine scientifica. E tale condizione è dettata dallo svolgimento storico che non è regolato da nessuna legge deterministica.(7)
Quindi il concetto di nihonjinron (specificità culturale giapponese) è superfluo, ma non è falso. Si tratta di una banalità (ogni società ha una sua specificità) che si dimostra particolarmente debole quando viene assunta come principio esplicativo astratto, non contestualizzato e metastorico. La storia economica del Giappone rispecchia un proprio quadro teorico semplicemente perché le condizioni materiali, culturali e politiche del paese erano diverse.
Per aumentare il grado di comprensione dei fenomeni economici giapponesi, bisogna seguire la metodologia weberiana assumendo l’avalutività (Wertfreiheit) come criterio indispensabile per la scienza. Infatti qualsiasi pregiudizio inficia inevitabilmente lo svolgimento teorico della sociologia.
In secondo luogo, Weber elaborò un concetto di razionalità che risulta estremamente utile per lo studioso.(8) Egli distinse rispetto all’agire sociale quattro tipi ideali: agire razionale rispetto allo scopo (zweckrational), agire razionale rispetto al valore (wertrational), atteggiamento affettivo (affektuell) e tradizionale (traditional). L’agire razionale rispetto allo scopo è orientato al conseguimento dei mezzi ritenuti adeguati per realizzare un certo scopo. L’agire razionale rispetto al valore tiene presenti certe credenze in base a un valore attribuito socialmente. L’agire affettivo è determinato da emozioni, sensazioni, affetti. L’agire tradizionale è determinato dalle abitudini acquisite e dai costumi di una civiltà.
Il grado di razionalità e intelligibilità dei fenomeni diminuisce passando dall’agire razionale all’atteggiamento tradizionale irrazionale. L’intenzione di Weber è comunque di riportare ciò che viene considerato irrazionale sotto l’indagine scientifica. Infatti, il fenomeno sociale non è mai puramente formale, ma in diversi gradi può essere costituito da una combinazione dei quattro tipi ideali dell’agire sociale. La conseguenza più importante è la conclusione, secondo Weber, che la razionalità non può riferirsi a un unico modello.
Questa considerazione sociologica rispecchia la posizione della filosofia giapponese del Novecento. Nishida Kitaro coniò il termine toyoteki ronri (logica orientale) per distinguere la razionalità formale giapponese da quella occidentale.(9) Tanabe Hajime si dedicò alla filosofia della scienza e scrisse Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza).(10) Anch’egli riconobbe la necessità di elaborare una logica che tenesse presenti le caratteristiche giapponesi. Watsuji Tetsuro pensò addirittura di poter rintracciare le caratteristiche del pensiero giapponese nell’influenza dell’ambiente e del clima.(11) Mutai Risaku criticò l’idea che la logica occidentale rappresenti la forma corretta e universale del pensiero.(12)
Le conseguenze dal punto di vista sociologico ed economico sono enormi. Per avere una comprensione dei comportamenti economici giapponesi è necessario avere una conoscenza delle variabili che determinano l’agire sociale. E questo può avvenire soltanto tenendo presenti i valori nella società giapponese. L’errore metodologico consiste nel riportare l’agire razionale giapponese a un atteggiamento irrazionale tradizionale o affettivo, indicando come sopravvivenze di un sistema arcaico ciò che è semplicemente diverso dalla razionalità occidentale.
Weber aveva perciò studiato l’influenza delle credenze religiose sull’economia fornendo una teoria sul capitalismo occidentale molto apprezzata negli ambiti storici e sociologici. Ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo,(13) egli osserva un fatto statistico, ossia la prevalenza delle imprese e proprietà protestanti in Europa. Analizzando il fenomeno nella dimensione diacronica, si trova conferma dello sviluppo del capitalismo in centri protestanti a partire dal XVI secolo. Weber cerca quindi una spiegazione del fenomeno che trova nelle caratteristiche del protestantesimo. Secondo Weber nasce dall’etica protestante la concezione del capitalismo moderno basata sulla disciplina del lavoro, la dedizione al guadagno tramite un’attività economica legittima, e la mancanza dello sperpero del guadagno che invece viene reinvestito.(14) Un’analisi weberiana della società ed economia giapponese è stata tentata da Morishima Michio.(15) Secondo Morishima, in Europa l’etica protestante incoraggiò il capitalismo, mentre in Giappone fu il confucianesimo a sostenerlo. L’enfasi confuciana sulla fedeltà ai genitori, agli anziani, e allo stato avrebbe promosso la cooperazione tra gli imprenditori e il governo. Tuttavia la teoria di Morishima è per molti versi insoddisfacente, nonostante abbia avuto ampia diffusione e consensi.(16) Le motivazioni sono di ordine storico e filosofico. Il confucianesimo cinese è una dottrina funzionale alla stabilità delle classi aristocratiche e alla conservazione del mondo contadino. Ciò è in contraddizione con il dinamismo moderno e il capitalismo. In effetti, si deve riconoscere che il neoconfucianesimo giapponese ha tratti completamente diversi dal confucianesimo cinese.(17) Il neoconfucianesimo sviluppato in epoca Edo (1600-1867) esaltava il razionalismo e lo studio delle scienze.(18)
Ma nemmeno le particolarità del neoconfucianesimo giapponese sono sufficienti per spiegare i fenomeni economici del XX secolo. Gli influssi dello shintoismo e del buddhismo sono stati eccessivamente trascurati. Lo shintoismo fornisce una considerazione delle cose (mono) differente dalle religioni monoteiste. L’insistenza sul valore e sulla natura divina delle cose attribuisce al prodotto un significato particolare. Non si tratta di una rozza forma di animismo, ma di una concezione che elimina il dualismo cartesiano (spirito e materia) tipico del pensiero occidentale. La mancanza di una distinzione fra mente e materia permette di concepire le idee con una progettualità concreta e il prodotto con le implicazioni della sensibilità umana. Una concezione che è rispecchiata nel marketing come evidenziato da Johansson e Nonaka.(19)
L’analisi dell’organizzazione industriale rivela l’applicazione di un pensiero derivato dal buddhismo zen. Innanzitutto il concetto di kaizen, la qualità totale, che riprende l’idea di miglioramento tipica dello zen. Ma soprattutto l’intero processo di fabbricazione che responsabilizza l’operaio. Una concezione opposta e contraria allo Scientific Management americano inventato da Frederick Taylor (20) e applicato al fordismo. L’operaio nel Toyota Production System ha la facoltà di bloccare l’intera linea di produzione per apportare modifiche e miglioramenti. Questo arresto in linea era inconcepibile nelle fabbriche occidentali, tanto che fu ridicolizzato dal comico Charlie Chaplin nel suo celebre film Tempi moderni (1936). Secondo i manager giapponesi, una linea produttiva che non si arresta mai è una linea perfetta oppure una linea con una quantità enorme di problemi. La seconda ipotesi è la più probabile. Infatti la mancanza dell’arresto della linea impedisce di far emergere e individuare le disfunzioni. L’addetto alla linea non deve essere un semplice esecutore di ordini, ma conoscere e controllare gli eventi della produzione. Nella fabbrica giapponese c’è un surplus di coscienza.
Anche la considerazione del "nulla" (mu) come elemento attivo, elaborata dal pensiero zen, è ripresa nella definizione dei "sei zeri": zero stock (nessuna scorta in magazzino), zero difetti, zero conflitto, zero tempi morti di produzione, zero tempo d’attesa per il cliente, zero cartacce (eliminazione della burocrazia superflua).(21) Concetti espressi anche con la definizione delle "tre emme": muri (eccesso), muda (spreco) e mura (irregolarità).(22) Il pensiero zen è in azione e applicato in questa considerazione del nulla come fattore produttivo. Una considerazione che ha permesso ai giapponesi di perfezionare un sistema di fabbricazione just-in-time estremamente efficiente che è stato poi imitato anche dagli occidentali.
Ovviamente le forme del pensiero e della cultura non generano la realtà materiale, ma tuttavia interagiscono con essa in maniera forte e determinante. Rifiutare il riconoscimento dell’interazione di fattori psicologici e mentali, del sistema di credenze, del mondo simbolico con l’apparato economico, equivale a una lobotomia del pensiero scientifico che trae la sua forza proprio nella capacità di fornire una elaborazione concettuale (Begriffbildung) esplicativa della complessità empirica.
Il modello economico giapponese che è stato sostenuto maggiormente è il tipo dell’assimilazione culturale sincretrica del Giappone che ne avrebbe conservato la cultura tradizionale adottando le tecniche occidentali (wakon yosai). Ma questo modello rischia di rivelarsi una banalità. Innanzitutto non si definisce cosa si intenda per tradizione giapponese. Considerando che la tradizione giapponese è già essa stessa una forma sincretica fra la cultura autoctona e la cultura cinese, questa distinzione perde di efficacia.
Inoltre non esiste cultura che non sia una forma di assimilazione e trasformazione. L’immobilità è la morte di una cultura, e non costituisce uno stato di conservazione. L’Impero Romano assimilò la filosofia, la religione e l’arte dei greci, vari culti religiosi dal Medio Oriente e numerose tecniche di guerra dai popoli che affrontò. La Cina fu governata dai mongoli che introdussero parecchie novità nella politica dello stato. L’Italia è stata terra di conquista di svariati popoli: francesi, spagnoli, austriaci, normanni, bizantini e arabi. Ma nonostante ciò continuiamo a parlare di cultura italiana senza troppo preoccuparci dei fenomeni di acculturazione.
Quindi è superfluo considerare l’assimilazione culturale in Giappone come un evento particolare e singolare. E altrettanto inutile è meravigliarsi delle forme sincretiche nipponiche che sono la semplice manifestazione di una civiltà vitale.
Per quanto riguarda le tecniche occidentali, sono molti gli studiosi che hanno segnalato come l’adozione di una tecnica non implichi necessariamente una particolare struttura sociale.(23) La credenza che l’innovazione tecnologica comporti uno sviluppo lineare è stata da tempo criticata e respinta.(24) Il mito della modernizzazione crolla ogni giorno davanti alla realtà storica contemporanea, la cui complessità smentisce ogni tipo di dogma.
Dopo aver riconosciuto i limiti del modello sincretico, possiamo comunque rivalutare il suo apporto teorico all’indagine sociologica. L’economia giapponese è costituita da un insieme di variabili che non possono essere riportate a un modello tradizionale e neppure al modello occidentale della modernizzazione. Inoltre non si tratta di una semplice combinazione additiva fra antica tradizione e moderna tecnologia. I rapporti fra questi diversi elementi hanno generato fenomeni completamente nuovi. Lo sviluppo economico del Giappone non può essere considerato un’addizione fra tradizione e tecnologia. Infatti gli influssi vicendevoli fra elementi materiali e fattori culturali hanno innescato un reciproco cambiamento. La tecnologia giapponese si sviluppa ormai in maniera autonoma e secondo proprie direttive. Prodotti come il Walkman, la Playstation, il Gameboy che tanto influenzano la vita quotidiana dei giovani, sono nati dalla creatività giapponese.(25)
Come ci ricordano gli storici della scienza, la tecnica è semplicemente ciò che serve per soddisfare un bisogno. Una concezione della tecnica scevra di ogni tentazione metafisica, ci permette di comprendere come possa essere applicata in ambienti diversi. Il sincretismo giapponese fra cultura e tecnologia è il semplice riconoscimento della concretezza della scienza e della tecnica. Un pragmatismo, come si è detto in precedenza, favorito dalle scuole neoconfuciane giapponesi. La cultura, a sua volta, non è minacciata dalla modernità. Ogni società che è capace di adattarsi e assimilare elementi nuovi è estremamente vitale. Interpretare le trasformazioni di una cultura come una sua negazione significa non possedere una conoscenza perspicua della sociologia e dell’antropologia culturale.

Note

1. Sulla questione è utile consultare Najita Tetsuo, "On Culture and Technology in Postmodern Japan", The South Atlantic Quarterly, 87, 3, Summer 1988, pp.401-418.
2. Max Weber, Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftlehre, Tübingen, Mohr, 1922 (trad. it. Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 1958).
3. Pierre Bourdieu, Résponses. Pour une anthropologie réflexive, Paris, Editions du Seuil, 1992 (trad. it. Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Torino, Bollati Boringhieri, 1992).
4. Nishida Kitaro, Nishida Kitaro zenshu (Opere complete di Nishida Kitaro), Tokyo, Iwanami Shoten, 1948, vol. 6.
5. Ricordiamo un caso emblematico, quello di Karel van Wolferen, che fornisce una visione critica e negativa del sistema economico giapponese. Karel van Wolferen, Nelle mani del Giappone, Milano, Sperling & Kupfer, 1990.
6. Nakane Chie, Japanese Society, London, Weidenfeld & Nicolson, 1973 (trad. it. La società giapponese, Milano, Raffaello Cortina, 1992).
7. Miki Kiyoshi addirittura considera il pensiero un prodotto storico ribaltando la questione. Miki Kiyoshi, Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero), Tokyo, Iwanami Shoten, 1946.
8. Il lavoro di Weber è fondamentale per la sociologia. Indubbiamente si tratta dell’autore più fecondo, e i suoi trattati teorici sul metodo sociologico sono ancora di una straordinaria attualità. Così come le teorie sulla società moderna, l’economia e lo sviluppo. Si consultino i testi dedicati da Franco Ferrarotti al sociologo tedesco. Franco Ferrarotti, Max Weber e il destino della ragione, Bari, Laterza, 1985.
9. Cfr. Giancarlo Vianello, "La scuola di Kyoto attraverso il Novecento", in Grazia Marchianò (a cura di), La scuola di Kyoto. Kyoto-ha, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 1996, p. 37.
10. Tanabe Hajime, Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza), Tokyo, Iwanami Shoten, 1918.
11. Watsuji Tetsuro, Fudo: ningengakuteki kosatsu (Il clima: analisi della natura umana), Tokyo, Iwanami Shoten, 1979.
12. Mutai Risaku, Shisaku to kansatsu (Riflessioni e osservazioni), Tokyo, Keiso Shobo, 1971.
13. Max Weber, "Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus", in Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, Tübingen, Mohr, 1922 (trad. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1945).
14. Una bella esposizione del pensiero weberiano è fornita da Giddens che approfondisce e paragona le analisi di Weber a quelle di altri studiosi. Anthony Giddens, Capitalism and Modern Social Theory, Cambridge, Cambridge University Press, 1971.
15. Morishima Michio, Why has Japan Succeeded?, Cambridge, Cambridge University Press, 1982.
16. Ad esempio nel lavoro di Ronald Dore e altri studiosi occidentali. Ronald Dore, Taking Japan Seriously. A Confucian Perspective on Leading Economic Issue, London, Athlon Press, 1987.
17. Cfr. Takeshita Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Bologna, Clueb, 1996, pp.144-148.
18. Cfr. Andrea Tenneriello, La legislazione per la scienza e la tecnologia nel Giappone moderno, Milano, Unicopli, 2001, p.8.
19. Johny Johansson e Nonaka Ikujiro, Senza tregua. L’arte giapponese del marketing, Milano, Baldini & Castoldi, 1997.
20. Frederick Taylor, Scientific Management, New York, Harper & Brothers, 1947. Si consulti Smiraglia per un quadro completo. Stanislao Smiraglia, Psicologia sociale della società industriale, Bologna, Patron, 1993.
21. Cfr. Ohno Taiichi, Lo spirito Toyota, Torino, Einaudi, 1993, pp.XVI-XVII.
22. Cfr. Richard Schonberger, Tecniche produttive giapponesi, Milano, Franco Angeli, 1987, pp. 72-73.
23. Il problema è trattato da Franco Crespi. Cfr. Franco Crespi, Le vie della sociologia, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 337-388. Un approccio critico al problema è esposto da Giddens con il solito acume. Anthony Giddens, Sociology. A Brief but Critical Introduction, London, Macmillian, 1982.
24. La critica più autorevole è quella di Immanuel Wallerstein, importante sociologo. Immanuel Wallerstein, The Modern World System, New York, Academic Press, 1974.
25. Gli studi sulla cultura giovanile giapponese cadono nell’errore frequente di isolare la cultura di massa senza considerare la partecipazione alla società nella sua completezza. Eppure questi elementi hanno senso soltanto quando considerati insieme.

venerdì 25 settembre 2009

Jikan, tempo e produzione

Articolo sul concetto di tempo e produzione nei sistemi industriali giapponesi pubblicato dal sito Nipponico.com.

Jikan. Tempo e produzione
Un'analisi del concetto di tempo fra economia e filosofia
di Cristiano Martorella

18 marzo 2003. Jikan significa tempo in giapponese. Eppure la complessità che una simile parola comporta può essere appena sfiorata. Qui tratteremo l'argomento in relazione ai sistemi produttivi giapponesi. Ma getteremo uno sguardo anche ai temi filosofici in relazione ad un'analisi sociologica che è indispensabile per una corretta indagine. Partiamo appunto dalle scienze sociali per mettere a fuoco alcuni problemi. Recentemente si è abusato degli studi dell'arabo Edward Said per rigettare la storiografia sulla civiltà giapponese, in modo da evitare qualsiasi confronto con i nipponisti e invalidare la ricerca scientifica. Sotto un certo punto di vista, ciò risulta molto buffo. Edward Said, intellettuale palestinese nato a Gerusalemme nel 1935, cita la Cina e il Giappone per far notare la confusione che avviene in orientalistica utilizzando le stesse idee per civiltà estremamente differenti(1). L'errore denunciato da Said è il medesimo che viene compiuto da chi usa il suo stesso lavoro indirizzato esclusivamente al mondo islamico per spiegare il Giappone. Edward Said nel suo libro intitolato Orientalismo, cita il Giappone soltanto sei volte e quasi sempre per indicarne le diversità dal contesto analizzato. Il fatto che il lavoro di Said sia rivolto in modo particolare al mondo islamico è dichiarato esplicitamente dall'autore.

"Per ragioni che esporrò tra breve ho ulteriormente limitato questo ambito di ricerca (comunque ancora estesissimo, a ben guardare) all'esperienza anglo-francese-americana nel mondo arabo e islamico, che per quasi mille anni è stato da molti punti di vista il paradigma di tutto l'Oriente. Sono così rimaste escluse vaste zone dell'Oriente geografico e culturale - India, Giappone, Cina e altre regioni dell'Estremo Oriente - , non perché queste ultime non siano importanti (è anzi ovvio che lo sono), ma perché l'esperienza europea del Vicino Oriente e del mondo islamico può essere discussa separatamente da quella dell'Estremo Oriente."(2)

Gli imitatori incauti di Edward Said, ovvero coloro che usano le sue idee in modo improprio e fuorviante, hanno cercato di sostenere che ogni studio sulla società giapponese fosse una semplice rappresentazione astratta, e soprattutto hanno contestato l'unità culturale nipponica frantumandola in decine di subculture ancora più astratte della cultura originaria. Il risultato è affascinante, ma pieno di equivoci, fraintendimenti e falsità. Soprattutto risulta ambiguo il tentativo di fornire un quadro alternativo della cultura giapponese che è però in contraddizione con la cultura tout court. Perciò queste critiche non scalfiscono minimamente l'analisi delle influenze culturali sul modello produttivo giapponese, e non possono sostituirvi qualcosa di plausibile tranne pittoresche divagazioni. La parola jikan è composto da due kanji. Il primo è ji, letto anche toki: significa momento, tempo e indica anche le ore del giorno. Il secondo è kan, letto anche aida e ma: indica un intervallo sia di tempo sia di spazio. Ciò implica un senso leggermente diverso della parola jikan rispetto al tempo inteso nel linguaggio occidentale. Jikan è uno spazio-tempo. Vedremo che la differenza a livello filosofico è ancora più accentuata, e come ciò si riverberi al livello sociologico (dove la coscienza collettiva è costituita dall'attribuzione di significati condivisi). La concezione occidentale del tempo non è spontanea, ma è l'assimilazione culturale di un'elaborazione filosofica precisa e determinata. Fu Aristotele (384-322 a.C.) che rompendo con la tradizione presocratica dei greci formulò una concezione chiara e schematica del tempo. Secondo Aristotele il tempo è "numero del movimento secondo il prima e il poi" (Fisica, IV, 11, 219b). Con ciò si intende il tempo come una successione lineare. Nel XVII secolo René Descartes (1596-1650), conosciuto con il nome di Cartesio, espose un sistema filosofico d'impianto meccanicistico che segnava la formalizzazione matematica della natura. La concezione aristotelica del tempo veniva così inserita in un sistema onnicomprensivo che privilegiava la misurazione e il numero, e soprattutto diveniva una componente della scienza moderna. Isaac Newton (1642-1727) utilizzò la concezione aristotelica ripresa da Cartesio senza dubitarne. Immanuel Kant (1724-1804), nonostante introducesse la funzione del soggetto, indicando il tempo come senso interno e lo spazio come senso esterno, attraverso lo schematismo ritornava addirittura alle categorie aristoteliche. Abbiamo dovuto attendere il 1927 perché Martin Heidegger fornisse un'analisi precisa e approfondita delle concezioni del tempo, mostrando quanto ciò che ritenevamo come una verità scientificamente incontrovertibile non fosse altro che un concetto filosofico, un pensiero, un modo di vedere la realtà. È superfluo sottolineare come in Estremo Oriente, in particolare in India, Cina e Giappone, la concezione del tempo fosse elaborata in modo del tutto diverso. Quando la filosofia giapponese incontrò la filosofia europea, fu messa in evidenza questa discrepanza. Nishida Kitaro (1870-1945) cercò di ricomporre le due tradizioni eliminando il conflitto.

"Si pensa comunemente che il tempo sia lineare, che vada dal passato al futuro. Il passato è passato e non è più. Il futuro non è ancora venuto e non è passato ancora. Così non c'è che il presente, l'istante che è presente. Ma l'istante che è presente non può essere il tempo. Il presente non si determina come presente altroché attraverso il passato e il futuro. Se il passato non c'è più, e il futuro non c'è ancora, il presente non ha né il passato né il futuro come confronto. E in questo caso il presente non ha alcun senso. Dunque il presente, il passato e il futuro esistono simultaneamente: orbene, la simultaneità è la caratteristica dello spazio. Quindi il tempo è spaziale. Se lo si chiama "determinazione lineare", il tempo può essere rappresentato da una linea perpendicolare, però può anche essere chiamato "determinazione circolare", lo spazio nel quale si rappresenta orizzontalmente, e lo si intende come un cerchio che si chiude. È così la determinazione lineare e la determinazione circolare, e viceversa."(3)

Gli aspetti evidenziati dalla filosofia giapponese corrispondono anche a una diversità concettuale presente nelle tradizioni religiose occidentali e orientali. Nella concezione del tempo giudaico-cristiana c'è un creatore del tempo e dello spazio. Il tempo ha un inizio e uno svolgimento lineare. Nei culti politeisti shintoisti e buddhisti non vi è un unico dio creatore esterno, ma il cosmo stesso è divino e le forze naturali sono divinità creatrici. Il tempo non è prodotto da alcuno e non ha un andamento lineare. Nishida Kitaro risolve il problema dell'unità del cosmo introducendo il principio logico dell'identità delle contraddizioni. Egli può così affermare che l'uno è molteplice, e il molteplice è l'uno.Il passaggio da una concezione condivisa socialmente all'organizzazione materiale del lavoro è ciò che emerge da un'analisi tecnica dell'economia giapponese. Il modello industriale di Henry Ford proponeva la catena di montaggio secondo una logica sequenziale inesorabile. I tempi erano scanditi in modo inarrestabile secondo la concezione temporale prima esposta. Toyoda Kiichiro ritenne inadatto il modello americano alla situazione giapponese. Le riforme avviate nelle fabbriche Toyota portarono a un rovesciamento di questa logica. Se per gli occidentali il tempo e la produzione non potevano tornare indietro, per i giapponesi erano circolari e la produzione poteva girare invece di avanzare. Furono così creati i circoli di qualità, la catena di montaggio a isole, il blocco in linea per il miglioramento della produzione. E soprattutto l'applicazione del just in time, ovvero la produzione flessibile in base alle richieste. Così il tempo della fabbrica cambiava continuamente. Inoltre quando un prodotto non è soddisfacente, non si eliminano gli scarti in eccesso, ma si studia come evitare di produrre gli scarti. Lo scarto diventa un oggetto d'indagine, non qualcosa da buttare. Il tempo non è orientato alla produzione, piuttosto ai miglioramenti dei processi (kaizen). Il tempo non scorre secondo il succedersi degli eventi (il prima e il poi), ma ogni evento ha il suo tempo. Ciò che si misura non è la velocità di produzione, piuttosto la qualità totale.Se le interpretazioni di questi aspetti tecnici possono essere diverse, l'identificazione della specificità del sistema economico giapponese non è facilmente eliminabile. Nel sistema capitalistico il tempo è lineare e progressivo. Nel sistema sincretico giapponese il tempo è sia lineare sia circolare. L'economia giapponese è una variante del capitalismo che ha in sé caratteristiche eversive che spingono la società al superamento del modello occidentale. La differente concezione del tempo è un elemento fondamentale di questa specificità.

Note

1. Edward Said aveva messo in evidenza queste differenze in un suo articolo sul Giappone. Cfr. Said, Edward, Un arabo a Tokyo , in AA.VV., Sol levante, Internazionale, Roma, 1996, pp. 69-72. L'articolo era apparso sul quotidiano "Al-Hayat" del 10 luglio 1995.
2. Said, Edward, Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente, Feltrinelli, Milano, 2001, pp. 25-26.
3. AA.VV., Les grands courants de la pensée mondiale contemporaine, Marzorati, Milano, 1964, p. 1152.

Bibliografia

Aristotele, Opere, Laterza, Roma-Bari, 1973.
Bezante, Alessandro e Martorella, Cristiano, Sul saggio di McDowell "De re senses", Relazione del corso di Filosofia del linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Genova, 1998.
Ishikawa, Kaoru, Che cos'è la qualità totale. Il modello giapponese, Il Sole 24 Ore, Milano, 1992.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami shoten, Tokyo, 1966.
Ohno, Taiichi [Ono Taiichi], Lo spirito Toyota. Il modello giapponese della qualità totale, Einaudi, Torino, 1993.
Severino, Emanuele, I principi del divenire, La Scuola, Brescia, 1959.
Womack, James e Jones, Daniel e Roos, Daniel, La macchina che ha cambiato il mondo, Rizzoli, Milano, 1993.

Da cuore a cuore

Articolo pubblicato dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, Filosofare da cuore a cuore, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.12-13.

Filosofare da cuore a cuore
di Cristiano Martorella

La parola zen deriva dal cinese ch’an, a sua volta adattamento dal sanscrito dhyana e del pali jhana. Con questo termine si indica semplicemente la meditazione, ma ha assunto anche il significato di un tipo di buddhismo giapponese dal nome della setta omonima. La leggenda narra che il primo patriarca dello zen fu Kashyapa. Durante un’assemblea Buddha rimase misteriosamente silenzioso guardando semplicemente un fiore che teneva in mano. Poi rivolse lo sguardo ai discepoli. Nessuno lo comprese tranne Kashyapa che gli sorrise. Buddha ricambiò il sorriso e questa fu l’illuminazione del suo allievo. La leggenda indica chiaramente le caratteristiche del buddhismo zen che si concentra sul fenomeno dell’esperienza dell’illuminazione. Lo strumento per raggiungere l’illuminazione è la meditazione. La meditazione è, secondo Taisen Deshimaru, la condizione originale del corpo e della mente liberati dai condizionamenti. Quanto ciò sia facile da dire e difficile da applicare è ben noto a chi pratica lo zen che è sicuramente una scuola buddhista dalla disciplina severa e austera, e tuttavia affascinante per gli occidentali. Motivo di tanto interesse è dovuto anche all’influenza che lo zen ha avuto sulle arti giapponesi. Dal teatro (no) alla calligrafia (shodo), dall’arte della disposizione dei fiori (ikebana) alla cerimonia del tè (chanoyu), dal tiro con l’arco (kyudo) alla scherma (kendo), ogni arte giapponese sembra permeata dai princìpi dello zen. La ragione è da ritrovare nella flessibilità amorfa della pratica zen. In effetti non è zen ciò che si fa, ma come si fa. A questo punto è necessario un passo indietro per approfondire alcuni aspetti del buddhismo e comprendere cosa si intenda per pratica zen.
Il dilemma della condizione umana è nell’essere afflitti da tormenti e tribolazioni generati da una mente incapace di restare tranquilla. La soluzione non è nell’attitudine del pensiero, nelle idee, che più spesso sono la causa del dilemma, e nemmeno in una condizione fisica che ignora il malessere mentale. C’è bisogno di una pratica che sappia risolvere il conflitto fra la mente e la realtà, il pensiero e il corpo, l’individuo e l’ambiente, la vita e la morte, insomma la soluzione di ogni dualismo. Infine ecco l’illuminazione immediata secondo l’insegnamento dello zen. L’illuminazione è l’esperienza della percezione dell’identità delle contraddizioni. Il dualismo è soltanto un’idea della mente, la realtà è l’unità dei fenomeni dell’universo. Chi riconosce il carattere illusorio del conflitto si emancipa dai ceppi che impediscono alla mente di vedere il carattere autentico del quotidiano. La mente dell’illuminazione (bodaishin) è la mente che vive in accordo con la realtà del sé e delle cose, libera da attaccamenti e condizionamenti. Il metodo per sviluppare la mente dell’illuminazione è la via di Buddha (butsudo) senza spirito di profitto (mushotoku). Concretamente ciò si può realizzare in diversi modi, e infatti sono diverse le tecniche usate dalle scuole zen. La setta Rinzai adotta lo zen della meditazione sulle parole (kanna zen) attraverso i koan, paradossi logici, mentre la setta Soto applica lo zen dell’illuminazione silenziosa (mokusho zen) tramite lo zazen, il restare seduti. Lo zazen è una pratica enigmatica nella sua semplicità e banalità, la quale consiste nello stare seduti in quiete senza tensione e senza torpore. Questa semplice condizione, se guidata dalla consapevolezza del corretto insegnamento buddhista, porta all’unità inscindibile di corpo e mente (shinjin ichinyo) e alla liberazione della mente che non si attacca e fissa ai pensieri, ma accetta il cambiamento del reale. Lo zen è dunque la realizzazione della mente originale, mentre il resto è vaneggiamento mondano e illusorio.
Caratteristica dello zen è l’importanza attribuita al metodo dell’insegnamento detto "da cuore a cuore" (ishindenshin) che è simboleggiato dall’illuminazione di Kashyapa. Il vero insegnamento di Buddha non è una conoscenza concettuale trasmissibile tramite le parole, piuttosto è l’intuizione del reale aspetto di tutti i fenomeni e la visione (kensho) dell’autentico sé. Questa intuizione non può avvenire e nemmeno essere trasmessa attraverso i pensieri, bensì può essere indotta soltanto con l’apertura della mente alla ricezione e al raggiungimento dell’illuminazione immediata. D’altronde la stessa definizione di illuminazione immediata rimanda etimologicamente a qualcosa che non è mediato. Da un punto di vista filosofico occidentale ciò rappresenterebbe un ostacolo rilevante. Trasmettere un insegnamento senza l’ausilio del pensiero è inconcepibile. Tuttavia per il buddhismo zen ogni pensiero è illusorio perché è di parte, relativo, particolare, finito, insomma non conosce l’assoluto. Meglio allora liberarsi di questo pensiero restando seduti in silenzio. Drastico ed efficace. Così è lo zen, austero e severo, irremovibile dalla necessità di estirpare l’errore dalla mente umana. Così come Bodhidharma che rimase seduto in meditazione per nove anni rivolto al muro.
Il carattere non speculativo dello zen spiega la sua penetrazione nelle arti giapponesi. Lo zen è pratica continua e applicazione costante in ogni aspetto della vita. L’arte ha inteso sommamente questo interesse per la vita svincolata da condizionamenti e costrizioni, e perciò l’ha esaltato in massimo grado. Non è nemmeno trascurabile il fatto storico ossia che i maestri dello zen più importanti siano stati giapponesi come Dogen, Keizan, Ikkyu, Hakuin, Bankei e Deshimaru. Per questi motivi si può affermare che il tratto caratteristico della cultura giapponese è tipicamente buddhista e zen, a differenza della Cina profondamente e orgogliosamente confuciana. Il Giappone è perciò il paese attualmente più vicino all’insegnamento dello zen.
In conclusione, a che serve allora lo zen? A niente. Lo scopo dello zen è liberare la vita da scopi artificiosi e innaturali rivelandone il suo autentico potenziale. Lo zen si presenta sempre come contraddittorio e inafferrabile perché non accetta appunto qualsiasi genere di manipolazione e strumentalizzazione. Ogni volta che si tenta di fissare la mente a qualcosa, immediatamente lo zen lo nega. Se ci si rivolge alla negazione, nega anche quest’ultima. La verità non è in qualcosa, la verità è in tutto. La mente offuscata è capace soltanto di discriminare e distinguere, viceversa la mente illuminata è capace di comprendere e compenetrare. Per questo motivo la mente dello zen è più vicina alla mente di un bambino che gioca, ed è lontanissima dalla mente di chi è convinto delle opinioni e tronfio delle certezze. Dogen affermava che tenendo la mano aperta in un deserto passerà tutta la sabbia trasportata dal vento, mentre tenendo la mano chiusa si stringeranno pochi granelli. Lo zen insegna a concepire le opportunità e rifiutare il possesso di ciò che può divenire un ostacolo per la vita. Un esempio della mente ingannevole è fornito dall’immagine della scimmia che si agita e tormenta perché non riesce ad afferrare il riflesso della luna nell’acqua. Quante volte la mente umana si comporta così, tormentandosi e agitandosi nel tentativo di possedere qualcosa? Una domanda senza soluzione è sufficiente a gettare nell’angoscia e nelle tribolazioni. Pur essendo evidente la dannosità di un simile atteggiamento, non si riesce ad evitarlo. La mente non è addestrata a rifiutare la tentazione delle cattive abitudini. La pratica dello zen consiste nello sforzo supremo di imparare a guidare la mente, e non farsi trascinare e controllare dalla mente ingannata e ingannevole. Si comincia osservando la mente e imparando a conoscerla. Quando ciò è avvenuto, la mente non è più un avversario che si scontra con la realtà, ma un compagno di viaggio. Sconcertante, eppure lo zen è semplicemente questo.

Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Storia del buddhismo Ch’an, Mondadori, Milano, 1992.
Deshimaru, Taisen, Autobiografia di un monaco zen, Mondadori, Milano, 1995.
Guareschi, Fausto Taiten (a cura di), Guida allo zen, De Vecchi Editore, Milano, 1994.
Hisamatsu, Shin'ichi, La pienezza del nulla, Il Melangolo, Genova, 1993.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Mondadori, Milano, 1981.
Lamparelli, Carlo, Il libro delle 399 meditazioni zen, Mondadori, Milano, 1996.
La Rosa, Giorgio Dizionario delle religioni orientali, Garzanti, Milano, 1993.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Il pluralismo del doppio, in "LG Argomenti", n.3, anno XXXVIII, luglio-settembre 2002.
Pasqualotto, Giangiorgio, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia, 1992.
Suzuki, Shunryu, Mente zen, mente di principiante, Astrolabio, Roma, 1977.
Watts, Alan, Beat zen e altri saggi, Arcana, Milano, 1978.

Wakugumi, il paradigma teorico

Articolo pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Wakugumi.

Wakugumi
Il nuovo paradigma teorico della filosofia giapponese
di Cristiano Martorella

1. Nuovo paradigma

Nella terminologia filosofica si indica con paradigma (dal greco parádeigma) un insieme di teorie e pratiche che funge da modello nell’organizzazione del sapere scientifico. In inglese il termine è anche reso con la parola framework. In giapponese con wakugumi. In particolare si definisce con rironteki wakugumi un paradigma teorico.
Il termine paradigma ebbe ampia diffusione grazie all’uso che ne fece il filosofo americano Thomas Kuhn. Secondo Kuhn la scienza di un’epoca si rifarebbe a certi paradigmi scientifici finché le teorie non si dimostrano incapaci di produrre spiegazioni. In tal caso il paradigma dominante cade in disgrazia e viene sostituito da un nuovo paradigma. Fu quanto accadde con la teoria geocentrica tolemaica sostituita dalla teoria eliocentrica copernicana.
Kuhn mise in luce anche l’influenza di fattori di natura sociale e psicologica sulle scelte teoriche degli scienziati (1). Inoltre contestava l’idea che fosse possibile un progresso scientifico che conquisti incessantemente una sempre maggiore porzione di verità. Infatti, i paradigmi scientifici si sostituirebbero l’un l’altro e non dipenderebbero esclusivamente dalla teoria, ma piuttosto dal grado di sviluppo della società. Perciò la filosofia della scienza di Thomas Kuhn è anche una concezione alternativa e antitetica all’epistemologia di Karl Popper e all’empirismo logico di Rudolf Carnap (2).
La filosofia giapponese (è però corretto chiamarla nippo-europea considerando le sue origini) trattò presto le complesse questioni di filosofia della scienza affrontate agli inizi del Novecento in Europa e America. Tanabe Hajime scrisse Kagaku gairon (Introduzione alla scienza) (3). Miki Kiyoshi, allievo di Nishida Kitaro, espresse una posizione teorica che riconosceva l’influenza della società nei confronti del sapere scientifico, così come sostenuto da Thomas Kuhn. Secondo Miki le idee e le teorie nascerebbero sotto l’influsso e la spinta delle forze storiche (4). Questo rapido avvicinamento alle problematiche della scienza, e soprattutto il forte sviluppo tecnico del Giappone, posero i filosofi giapponesi nella posizione di poter giudicare i fatti secondo due prospettive differenti. Da una parte la tradizione della saggezza orientale fondata su un sapere intuitivo. Dall’altra parte la scienza occidentale dotata di metodologie e capacità analitiche. Non è sempre detto che queste prospettive siano opposte. Come vedremo più avanti, la filosofia nippo-europea ha costituito una sintesi di queste diverse forme di sapere.

2. Filosofia passata

Unificare la filosofia orientale e la filosofia occidentale in un unico paradigma. Ma è davvero tanto necessario? In realtà ciò non nasce soltanto da un’esigenza intellettuale. La filosofia orientale gode di una sua autonomia e un certo credito, e la filosofia occidentale continua a sussistere nonostante le tante difficoltà. Le questioni filosofiche del pensiero occidentale e di quello orientale possono continuare a rimanere separate. Resta però un ambito che non appare nella ricerca dell’intellettuale: l’esigenza storica. Senza l’unificazione del pensiero occidentale e del pensiero orientale non è concepibile una civiltà planetaria. L’ipotesi dell’affermazione del pensiero occidentale sull’intero pianeta è ben lontana dalla realtà. Quest’ultimo è minato alle sue basi da tendenze irrazionalistiche che si manifestano con intensità sempre più forte nella vita quotidiana. La confusione regna nell’odierno pensiero, incapace di riconoscere i fenomeni storici e culturali, troppo debole per proporre chiavi di lettura efficaci della realtà. Da molte parti si parla di crisi del pensiero occidentale, gettandosi senza criterio nelle braccia di pseudo-sistemi filosofici che si rifarebbero alla saggezza orientale. Oppure ci si barrica in difesa di una presunta superiorità della civiltà occidentale e della sua scienza. Contro tutto ciò si deve ergere una scienza filosofica abbastanza forte da respingere atteggiamenti esasperati e dettati da un’emotività incontrollata che si mascherano dietro nuovi idoli. Per rispondere a questa esigenza storica e sociale bisogna unificare il pensiero sotto un unico paradigma capace di comprendere anche ciò che viene considerato irrazionale. Il nostro intento è ricondurre l’irrazionale sotto una luce diversa, alla lettura di differenti forme di razionalità. Il concetto più flessibile di razionalità da noi elaborato dovrebbe permetterci di coniugare quindi le due forme di pensiero occidentale e orientale (5). Abbiamo però bisogno di procedere in un modo particolare. Affrontando la filosofia occidentale e la filosofia orientale in maniera tecnica, esse diverrebbero incomunicabili a causa dei diversi linguaggi. Noi conosciamo benissimo entrambe le terminologie e ci rendiamo conto dell’impossibilità di parlare di concetti diversi usando un unico linguaggio. Quel linguaggio filosofico che non esiste ancora. Per risolvere questo problema dobbiamo spogliarci del nostro habitus, non parlare più come filosofi, ma come ingenui pensatori. Dobbiamo raggiungere la massima semplificazione dei temi trattati. Quindi introdurremo pochissimi concetti e li spiegheremo in maniera davvero elementare.
La filosofia giapponese ci fornisce una frase che è la sintesi della riflessione zen: ku soku ze shiki. Abbiamo la seconda parte che corrisponde alla lettura capovolta della stessa frase: shiki soku ze ku La circolarità del pensiero è presente sia nella concezione giapponese, e più in generale orientale, sia nell’ermeneutica filosofica. Costituisce una similitudine molto importante ed è giusto metterlo in luce anche in questo caso.
La traduzione più semplice è: "il vuoto è la forma e la forma è il vuoto"(ku soku ze shiki, shiki soku ze ku). Si tratta di un brano dell’importante Sutra del cuore (6).
La traduzione letterale è: "non c’è cielo senza colore, non c’è colore senza il cielo". Nella lingua giapponese l’ideogramma di cielo indica anche il vuoto, e quello del colore indica le cose sensibili (7). Dunque un’altra possibile traduzione potrebbe essere: "non c’è vuoto senza colore, non c’è colore senza vuoto". Da cui consegue anche: "non c’è il nulla senza le forme sensibili, non ci sono forme sensibili senza il nulla".
Resta un punto da chiarire. Il nulla giapponese (mu) viene identificato nella frase del Sutra del cuore con la "forma". Dunque cosa si intende con nulla?
Tenendo conto del senso giapponese del nulla, un’altra traduzione possibile potrebbe essere: "la forma è il contenuto e il contenuto è la forma". Questo nulla è un principio metafisico. Il nulla sarebbe l’indistinto e l’indeterminato da cui scaturiscono ed emergono le cose sensibili. Perciò alcuni traduttori lo considerano anche come "essere". Per la dottrina zen, questo nulla ha però un valore conoscitivo. Il vuoto mentale (mushin) permette la comprensione delle cose. Dunque la filosofia giapponese considera il nulla come un principio della conoscenza. L’essenza delle cose e la conoscenza coincidono. C’è un’identità fra gnoseologia, logica e ontologia. Ed è possibile grazie alle proprietà del pensiero giapponese che si rifanno alla tradizione orientale, la filosofia del passato.

3. Filosofia presente

Ma il centro della riflessione del Sutra del cuore fa parte anche degli ultimi indirizzi dell’epistemologia contemporanea. Ormai è presente anche nel pensiero occidentale il riconoscimento della necessità di eliminare la distinzione fra la forma e il contenuto. Quando Donald Davidson (8) afferma che si deve abbattere la distinzione fra schema e contenuto non sta forse usando una terminologia diversa per indicare ciò che è affermato anche dalla filosofia giapponese? Vediamo con precisione questa corrispondenza. I giapponesi usano la parola iro (9) per indicare le cose sensibili, più in generale le sensazioni. Davidson usa il termine "contenuto empirico" per indicare l’esperienza sensibile. Il nulla giapponese corrisponde alla conoscenza ultima della realtà, l’essenza dell’essere, la metafisica orientale. Dall’altra parte Davidson parla di "schema concettuale" ossia di un sistema concettuale metafisico. La corrispondenza fra la "metafisica" del nulla e la "metafisica" dello schema concettuale è perfetta. Sia Davidson che la filosofia giapponese si stanno riferendo alla stesso concetto. Ci accorgiamo che la critica al terzo dogma dell’empirismo di Davidson corrisponde ai principi del Sutra del cuore. Inoltre Davidson, sostenuto dagli studi di Sellars, critica il "mito del dato". Anche lo zen ritiene i dati sensibili illusori, e che non si possa fondare una conoscenza perfetta su di essi.
Ma l’affermazione di identità fra il nulla e l’esperienza sensibile, lo schema concettuale e i contenuti empirici, finisce per fornire una diversa concezione dello schema concettuale e della metafisica. La metafisica, più in generale l’attività concettuale, non può esistere senza esperienza sensibile. Perciò è impensabile il vuoto senza le cose sensibili e il pensiero senza l’esperienza. Infine tutto ciò che è formale viene riportato al concreto: la forma è l’essere, l’essere è la forma. E ciò corrisponde anche alla nostra proposta di riportare la nozione di schema concettuale in un ambito più concreto, in quello operativo di habit.
La convergenza dello zen giapponese e dell’epistemologia contemporanea non è una coincidenza. C’è una presa di coscienza della confluenza della riflessione filosofica di duemila anni. Si può sperare che dopo qualche millennio di speculazione filosofica sia possibile trovare delle conclusioni comuni a tutti gli uomini di questo pianeta.

4. Filosofia futura

Non ci resta che riconoscere l’esistenza di un cammino comune della filosofia giapponese, europea e americana. Come si coglie dalla nostra trattazione, non sussiste alcun motivo di separazione fra questi indirizzi della filosofia. C’è una sola difficoltà: trovare gli ingegni capaci di unificare tale pensiero. Purtroppo gli istituti culturali non hanno ancora presente questa situazione e non sentono il bisogno di unificare le filosofie di culture diverse. Ma ci sembrerebbe veramente strano che la nostra proposta e lo studio che abbiamo presentato sia un caso singolare nel panorama scientifico. Capiamo le difficoltà che sorgono nel dover possedere un bagaglio di conoscenze che permetta di destreggiarsi con la filosofia giapponese e occidentale, però non possiamo credere di essere gli unici capaci di concepire e pensare qualcosa del genere.
Un ultimo problema va risolto. Quello del realismo opposto al relativismo. Ci si chiede se è possibile conoscere la realtà finale delle cose. Questo punto trova una soluzione nella seguente affermazione di Edmund Husserl:

"L’effettivo processo delle nostre umane esperienze è tale da costringere la nostra ragione a superare le cose date visibilmente e a sostituirvi una «verità scientifica». Piuttosto si può pensare che il nostro mondo visibile sia l’ultimo, "dietro" il quale non ci sarebbe nessun mondo "fisico" ossia che le date cose nella percezione non ammettano una determinazione fisico-matematica, che i dati dell’esperienza escludano qualunque fisica sul tipo della nostra." (10)

La posizione di Husserl coincide con quella della filosofia giapponese, e ciò è testimoniato anche da molti lavori di filosofi giapponesi che hanno visto nella fenomenologia di Husserl un certa corrispondenza. Il vecchio motto di Husserl, "ritornare alle cose così come sono" coincide perfettamente con l’idea giapponese di "mono o aware" (percepire il sentimento delle cose). Come abbiamo visto, la filosofia giapponese è radicalmente fenomenologica e tratta gli argomenti sempre in relazione alle percezioni e alla coscienza. Ma l’idea di Husserl, che si trova anche nel pensiero giapponese, permette di abbandonare qualsiasi opposizione fra realismo e relativismo. Se non esiste una verità ultima e tutto quello che abbiamo sono le percezioni, d’altronde non ha senso parlare di altre realtà. Sia il realismo che il relativismo non sussistono. Si tratta di un problema, come fa notare Husserl, nato dalla nostra concezione della "verità scientifica". Come direbbe Wittgenstein, esso è uno pseudo-problema nato da una cattiva terminologia, dall’uso improprio del linguaggio. Infatti il problema della "realtà ultima delle cose" è soltanto una questione dibattuta dai filosofi che possiedono un linguaggio tecnico capace di amplificare gli errori linguistici. Chi è privo di tale linguaggio è incapace anche di porre la questione.
Non è pensabile qualcosa di diverso da ciò che ci forniscono i nostri sensi. Non abbiamo altro a disposizione. Le nostre costruzioni concettuali non possono controllare le sensazioni. L’intelletto permette di interagire con la realtà, ma il suo potere sulla sensazione non è assoluto. Non possiamo negare la realtà delle sensazioni, anche se sono fallibili e imprecise. L’intelletto non può sostituirsi ai sensi.
Infine il dubbio è alla base di ogni sano pensare. Qualsiasi indagine scientifica e filosofica non può fondarsi su certezza ed esattezza. Il dubbio resta la misura dell’efficacia del pensiero. La correttezza è il risultato dell’interagire fra il dubbio e la conoscenza. Minori sono i dubbi, maggiore è il nostro potere esplicativo. Ma se i dubbi sono completamente annientati, allora essi sono stati sostituiti da una fede e dal fanatismo. Non siamo più filosofi né scienziati ma incantatori.
Vogliamo concludere con un passo di Richard Rorty che abbiamo già citato perché crediamo che l’osservazione del filosofo americano sia in linea con i nostri intenti.

"Ma se potremo giungere a considerare sia la teoria della coerenza sia quella della corrispondenza delle banalità non antagonistiche, allora potremo andare finalmente oltre il realismo e l’idealismo. Potremo raggiungere un punto in cui, per dirla con Wittgenstein, saremo in grado di cessare di fare filosofia come e quando vogliamo." (11)

Il nostro lavoro costituisce un’alternativa, come auspicato da Rorty, che va oltre il realismo e l’idealismo poiché la logica giapponese non assume la verità né come coerenza né come corrispondenza. La filosofia giapponese non elabora costrutti teorici e concettuali sugli oggetti e questo impedisce che sorgano questioni del genere. Abbandonata ogni forma di dualismo, non resta alla filosofia che rinunciare a occuparsi della conoscenza oggettiva delle cose, per puntare la sua attenzione alla comprensione delle azioni sulle cose. Il passaggio da una filosofia speculativa teoretica a una filosofia sperimentale interazionistica sarebbe del tutto naturale. Qualcuno potrebbe chiedersi se sarebbe corretto chiamare ancora filosofia questo genere di attività. La risposta è che nessuno ci obbliga a fare filosofia secondo un modo consuetudinario.

Note

1. Cfr. Kuhn, Thomas, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1978.
2. Popper, Karl, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 1976; Carnap, Rudolf, Significato e necessità, La Nuova Italia, Firenze, 1976.
3. Tanabe, Hajime, Kagaku gairon, Iwanami Shoten, Tokyo, 1918.
4. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.
5. La concezione alternativa della razionalità che abbiamo elaborata ci è servita per spiegare le caratteristica dell’economia giapponese. Cfr. Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia dal punto di vista epistemologico, Tesi discussa alla Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Genova, A.A. 1999-2000.
6. Si può leggere una traduzione in italiano del Sutra del cuore in Hakuin, Veleno per il cuore, Ubaldini, Roma, 1998, pp.143-144.
7. La frase fu al centro della riflessione del dialogo fra Heidegger e il filosofo giapponese Tezuka Tomio. Cfr. Heidegger, Martin, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1990, p.93. Bisogna ricordare che molti filosofi giapponesi studiarono in Germania sotto la guida di Heidegger all’inizio del XX secolo. I rapporti, purtroppo poco noti, fra la filosofia occidentale e giapponese sono dunque già stati stretti in altri tempi. Si consulti Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova, 1998.
8. Davidson, Donald, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994.
9. Nella frase citata è shiki. In giapponese esistono diverse pronunce per lo stesso ideogramma. Iro è la lettura kun yomi e shiki è la lettura on yomi.
10. Husserl, Edmund, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino, 1965, Par.47, Cap.3, Sez.2, p.103.
11. Rorty, Richard, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano, 1986, p.51.