mercoledì 25 novembre 2009

Traduttori traditori

Articolo sulle traduzioni di libri giapponesi pubblicato dalla rivista "LG Argomenti".

Cfr. Cristiano Martorella, Traditori del Sol Levante, in "LG Argomenti", n.2, anno XXXVIII, aprile-giugno 2002, pp.20-22.

Traditori del Sol Levante
di Cristiano Martorella

Traduttore traditore. Il famoso detto ha una versione anche nel lontano arcipelago giapponese: hon'yakusha wa uragirimono. Evidentemente è un giudizio condiviso da molti se ha una perfetta corrispondenza perfino in Giappone. Sembra che soltanto il filosofo americano Donald Davidson creda che sia possibile una traduzione radicale che non comporti perdite semantiche (1). Ma la sua posizione teorica (formale ed estremamente astratta) non è condivisa dai traduttori che si sentono sempre un po' traditori. E ciò vale a maggior ragione per i traduttori italiani dei testi giapponesi.
Scrivere un articolo sulle traduzioni italiane dei libri giapponesi di letteratura per l'infanzia è estremamente agevole. Infatti sono stati pubblicati pochissimi titoli (2). Nelle collane per ragazzi ci sono i seguenti titoli: Allarme! Allarme! di Miyazawa Kenji, In una notte di temporale di Kimura Yuichi, Il lampo di Hiroshima di Maruki Toshi, Il bucato della famiglia topini di Iwamura Kazuo, Lettere a mia madre di Hatano Isoko e Ichiro, Il pianeta dei delfini di Yo Shomei. Esistono altri importanti testi di letteratura giapponese per l'infanzia, inclusi però in collane che non sono rivolte ai bambini e ai ragazzi: Una notte sul treno della Via Lattea (Ginga tetsudo no yoru) e Il violoncellista Goshu (Sero hiki no Goshu) di Miyazawa Kenji, Racconti fantastici e Kappa di Akutagawa Ryunosuke.
Si tratta di uno scarso numero di libri del tutto insufficienti per capire la ricchezza e vastità della letteratura giapponese per l'infanzia (3). La scarsità dei testi tradotti ci impedisce di sviluppare un discorso articolato. Possiamo però segnalare il pessimo vizio degli editor, oppure dei curatori delle collane, che cambiano e alterano i titoli e addirittura i testi originali, spesso contro la volontà dei traduttori. Altre volte sono i traduttori stessi a cercare formule più semplici e banali che rendano i testi appetibili. Insomma, si fa a gara nel tradire l'autore.
Un esempio è costituito da Allarme! Allarme! di Miyazawa, pubblicato da Giunti. Il titolo originale era Asa ni tsuite no dowa teki kozu, ossia Una favola di una mattinata. Il titolo era indicativo e caratteristico, intimamente collegato alla vicenda narrata. A causa di una improvvisa e breve pioggia mattutina un fungo cresce inaspettato gettando nel panico le formiche. Ma l'allarme si rivelerà presto infondato. Come era apparso, così il fungo sparisce cadendo e disfacendosi. La morale è semplice. In un attimo anche le cose apparentemente più grandi possono dissolversi. Si tratta del noto principio buddhista dell'impermanenza. Dunque, il breve arco temporale del mattino è fondamentale perché raccoglie in sé il divenire incessante delle cose. L'universo può essere colto in un attimo attraverso la consapevolezza dell'impermanenza.
Certamente non ci attendiamo dagli editori italiani che raggiungano l'illuminazione buddhista, ma una maggiore cautela sarebbe auspicabile. Spesso descriviamo la cultura giapponese come imperscrutabile, misteriosa e complessa. In realtà facciamo di tutto per renderla incomprensibile al di là di ogni aspettativa. A volte dimostriamo di non aver nessun interesse per chi è diverso e può insegnarci molto. L'altro è precostituito. Siamo noi a definirlo prima di conoscerlo. Ebbene, questo è lo stesso atteggiamento che si ha nei confronti della letteratura giapponese per l'infanzia. C'è poi il rischio, sempre paventato, che i bambini italiani siano contaminati da altre culture. Il sospetto nei confronti della civiltà giapponese è sempre alto. Tranne il caso eccezionale di Bruno Munari, un genio che però è in contrasto con la mediocrità attuale, nessun italiano ha mai elogiato i metodi pedagogici giapponesi (4). D'altronde sappiamo bene che Il Castello dei Bambini a Tokyo era stato scritto da Munari rivolgendosi ai marziani, l'unico vero destinatario del libro. Quando Munari afferma che si può imparare dai giapponesi, quando elogia la pedagogia giapponese, si sta ovviamente rivolgendo ai marziani. A parte l'ironia, le questioni insolute rimangono.
Ci sono due difficoltà principali da affrontare. Il problema maggiore è costituito dalla mancanza di critici italiani di letteratura giapponese per l'infanzia. Chi può esprimere una valutazione delle traduzioni italiane? Chi conosce i testi originali? Evidentemente l'arretratezza e il livello formativo scadente nel settore si manifestano con chiarezza. Nonostante il clamore e gli elogi delle riviste settoriali, le carenze sono ancora enormi. Un altro problema riguarda il fumetto e l'animazione giapponese (5). Generalmente i critici letterari hanno un atteggiamento di sufficienza, se non addirittura di disprezzo, nei confronti di fumetto e cartoon. Non solo è un comportamento scorretto, ma addirittura dannoso. Fumetti e cartoon sono l'estensione con altri mezzi della narrazione. Il critico letterario non può e non deve sottovalutare la continuità fra i generi narrativi. Le opere del maestro dell'animazione Miyazaki Hayao sono capolavori che meritano ampiamente l'appellativo di "letteratura disegnata". Il rapporto e la continuità fra questi generi devono essere studiati con oculatezza. Soprattutto nel caso giapponese che attinge a un'ampia tradizione ancora vivace.
Al momento attuale l'ignoranza della letteratura giapponese per l'infanzia contribuisce soltanto a enfatizzare ogni tipo di incomprensione. Non gridiamo poi allo scandalo quando l'incomprensione si tramuta in conflitto. Tradurre significa soprattutto capire, e per capire bisogna ascoltare l'altro (non supporre di conoscerlo già, o peggio, negarlo). In questo sventurato periodo storico siamo ancora capaci di ascoltare gli altri? Probabilmente questa è l'autentica e più difficile forma di flessibilità.

Note

1. La posizione filosofica di Davidson è centrale nel pensiero contemporaneo statunitense e la sua influenza sui linguisti è notevole. Cfr. Davidson, Donald, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994. Esiste però il sospetto che Davidson sostenga una teoria che si poggia esclusivamente sull'esistenza di un pensiero unico omologante. Altrimenti è difficile comprendere da dove provengano tante astrazioni.
2. Per una verifica si consulti il database di Liber, l'aggiornato archivio bibliografico su cd-rom.
3. Una modesta introduzione a questo ricchissimo universo è stata però tentata. Cfr. Martorella, Cristiano, Introduzione alla letteratura giapponese per l'infanzia, in "LG Argomenti", n.3, anno XXXVII, luglio-settembre 2001, pp. 54-58.
4. Cfr. Munari, Bruno, Il Castello dei Bambini a Tokyo, Einaudi Ragazzi, Trieste, 1995.
5. Sulla questione degli adattamenti degli anime si consulti Marco Pellitteri. Anche se manca un discorso specifico sulle traduzioni, è comunque indicativo della situazione. Cfr. Pellitteri, Marco, Se paura fa rima con censura, in "Il Pepeverde", n. 10, 2001, pp. 38-43.

Bibliografia

Akutagawa, Ryunosuke, Kappa, trad. di Mario Teti, SE, Milano, 1992.
Akutagawa, Ryunosuke, Racconti fantastici, trad. di Cristiana Ceci, Marsilio, Venezia, 1995.
Kimura, Yuichi, In una notte di temporale, trad. di Paolo Volpato, Salani, Firenze, 1998.
Iwamura, Kazuo, Il bucato della famiglia topini, trad. di Suzuki Akane, Babalibri, Milano, 1999.
Hatano, Isoko e Ichiro, Lettere a mia madre, trad. di Luciano Tamburini, E. Elle, Trieste, 1994.
Maruki, Toshi, Il lampo di Hiroshima, trad. di Yamada Makiko, Perosini, Zevio, 1980.
Miyazawa, Kenji, Una notte sul treno della Via Lattea, trad. di Giorgio Amitrano, Marsilio, Venezia, 1994.
Miyazawa, Kenji, Allarme! Allarme!, trad. di Hiraishi Asako, Giunti, Firenze, 1994.
Miyazawa, Kenji, Il violoncellista Goshu, trad. di Muramatsu Mariko, La vita Felice, Milano, 1996.
Yo, Shomei, Il pianeta dei delfini, Il Punto d'Incontro, Vicenza, 1997.

martedì 24 novembre 2009

Bruno Munari in Giappone

Articolo sulla pedagogia di Bruno Munari pubblicato dal sito Nipponico.com.

Bruno Munari e la ricerca creativa di un metodo educativo
di Cristiano Martorella

3 gennaio 2001. A volte si scoprono delle vicinanze inaspettate fra Italia e Giappone. Così, ad esempio, è poco noto quanto in passato siano stati ricchi gli scambi fra la nostra cultura e quella giapponese riguardo alla ricerca di un modello educativo che stimoli la creatività infantile. In questo articolo vogliamo ricordare come l'opera di Bruno Munari sia stata recepita dai giapponesi, e come egli venga ancora oggi considerato un maestro innovativo, geniale e generoso, punto di riferimento assoluto.
Bruno Munari (1907-1998), figura eclettica della cultura italiana del Novecento, fu soprattutto un designer (e perciò ricevette il Premio Japan Design Foundation), e da questa attività ricadranno anche numerosi contributi come autore (per il quale ebbe il Premio Andersen) e illustratore di libri per ragazzi (fra cui le memorabili macchine e i disegni per i testi di Rodari). Egli citò spesso il Giappone come paese da cui imparare sia per quanto riguarda l'arte che per l'organizzazione e l'educazione civile. Bruno Munari ci ha lasciato un piccolo libro che racconta, in modo leggero, arguto e divertente, una delle sue esperienze in Giappone. Il testo è intitolato "Il castello dei bambini a Tokyo" e descrive la sua visita per una conferenza e l'allestimento di una mostra al teatro Aoyama nei pressi di Shibuya. Oltre a descrivere la struttura del castello dei bambini e lo svolgersi dell'evento della conferenza e della mostra, Munari ha l'occasione per prendere il Giappone come spunto di riflessione. Spesso egli è un po' provocatorio nei confronti dei soliti stereotipi che cerca di smontare:

"Nel nostro paese qualcuno dice che i giapponesi vengono da noi a copiare tutto. Ma perché, dico io, non copiamo anche noi qualcosa da loro?"

Infatti, nel libro mostrerà quante attività dei bambini giapponesi potrebbero essere svolte anche dai nostri. Munari attinge ad ampie mani, e integra il suo percorso sperimentale con la tradizione culturale giapponese. Così si fondono origami, texture, disegni composti, il tutto in un florilegio di figure e colori per il trionfo della fantasia e creatività. Per quanto riguarda l'analisi delle tecniche operative, Munari ha una proposta concreta. A volte le cose sono molto più semplici di quanto sembrino, vogliamo soltanto non riconoscerle. Munari utilizza l'espressione "risolvere i problemi alla base" per mettere in mostra qualcosa di elementare che per la sua semplicità pare sfuggirci, così come la soluzione di un puzzle a portata di mano:

"Ma nel frattempo, che cosa ho imparato io dal pensiero giapponese? In parte ho avuto la conferma che certi principi progettuali che applico normalmente erano giusti. Altre regole o procedimenti utili a migliorare i progetti o le comunicazioni, o semplicemente altri comportamenti quotidiani, erano invece da capire e applicare. Un esempio è che i problemi vanno risolti alla base.
A Venezia ci sono dei natanti che vanno in giro per la laguna a pulire le acque. Questo è necessario perché i cittadini buttano spesso i rifiuti nei canali. Il problema si risolve insegnando ai bambini a non sporcare la laguna. Se nessuno (utopia) butta l'immondizia nella laguna, non c'è niente da pulire. Altro esempio: noi occidentali siamo bravissimi nell'inventare elettrodomestici sofisticati, per pulire la casa, lucidare i pavimenti, lavare i vetri, raccogliere i rifiuti. I giapponesi non sporcano la casa, non ci sono pavimenti da lucidare, quando entrano nelle loro case si tolgono le scarpe e camminano sul tatami in calze. Non buttano le cicche per terra per poi calpestarle, insomma sono, come si dice, educati, e il problema della pulizia della casa è risolto alla base."

Munari viene oggi considerato l'inventore di una metodologia d'insegnamento per i bambini ed è guardato con attenzione da studiosi di diverse discipline, da artisti, pedagogisti e scrittori. Coca Frigerio e Alberto Cerchi stanno cercando di organizzare il materiale lasciatoci da Munari tentando di approfondire e continuare il lavoro del maestro. Per far ciò hanno ideato una collana di libri, pubblicati dalle Edizioni Erga, intitolati Gli alfabeti munariani. Si tratta del contributo più completo che ci mostra la grande attualità dei temi trattati da Munari. Alla metodologia di Munari si ricollega idealmente un autore giapponese, Komagata Katsumi, graphic designer che nelle sue conferenze in Italia ha ricordato quanto egli si senta legato al lavoro del creativo milanese. I lettori italiani dovrebbero esserne a conoscenza anche grazie a un articolo di Paola Vassalli, intitolato A spasso fra premi e mostre, pubblicato sulla rivista "Andersen":

"[...] bellissimi libri di Katsumi Komagata, anch'egli giapponese, anch'egli allievo ideale di Munari, che a Bologna ha ricevuto una menzione d'onore nella nuova sezione del premio Bologna Ragazzi Award - Introducing Art to Children con la serie Mini Book."

Anche le riviste giapponesi considerano Komagata un illustratore di rilievo. Si veda, ad esempio, l'articolo del settembre 2000 dedicatogli dalla rivista giapponese "Moe". A quanto sembra, quindi, il lavoro di Munari sta mettendo frutti persino in quel paese lontano che egli guardava con ammirazione. Sicuramente avrà l'evoluzione migliore se si comprenderà che lo sviluppo creativo del bambino non deve essere soffocato da modelli culturali che esigono un'unica interpretazione della realtà. Per giungere a ciò, si deve considerare il bambino come una persona che ha pieni diritti, e quindi una propria modalità di sviluppo, e non come un soggetto passivo da addestrare. Finché il confronto fra le culture sarà vivace e fruttuoso, come Munari ha saputo mostrare con modestia, potremo trovare ampi spazi per l'invenzione creativa dei bambini. Ma quando la cultura diventa sterile e si irrigidisce in modelli predefiniti, essa stessa si presenta come nemica e ostacolo della creatività.

Bibliografia

Frigerio, Coca e Cerchi, Alberto, Gioco e arte, Edizioni Erga, Genova, 2000.
Kawabe, Shoko, Komagata Katsumi no hon. Ehon no waku o koeta katachi, in "Moe", n. 9, settembre 2000, p. 95.
Munari, Bruno, Il castello dei bambini a Tokyo, Edizioni E. Elle, Trieste, 1995.
Munari, Bruno, Da cosa nasce cosa. Appunti per una metodologia progettuale, Laterza, Bari, 1996.
Munari, Bruno, Artista e designer, Laterza, Bari, 1978.
Munari, Bruno, Design e comunicazione visiva, Laterza, Bari, 1985.
Munari, Bruno, Il mestiere dell'arte, in "Art e dossier", n. 8, dicembre 1986, pp. 18-21.
Vassalli, Paola, A spasso fra premi e mostre, in "Andersen", n. 159, maggio 2000, pp. 16-17.

domenica 22 novembre 2009

Lettura e tecnologia

Articolo sul tema dei rapporti fra lettura e tecnologia pubblicato dalla rivista "LG Argomenti".

Cfr. Cristiano Martorella, Dokusho. La lettura fra scienza e tecnologia, in "LG Argomenti", n.1, anno XL, gennaio-marzo 2004, pp.20-23.

Dokusho
La lettura fra scienza e tecnologia
di Cristiano Martorella

Dokusho significa lettura in giapponese, e indica l’attività dilettevole del leggere. Quando si tratta questo argomento emerge sempre la connessione fra la lettura e l’ideologia (spesso presentata come pedagogia), così in Giappone come in Italia (1). A Giorgio Bini va il merito di aver sollevato in proposito alcuni dubbi cruciali. Egli ha esposto una domanda tanto semplice quanto ardua nella risposta. Se la tecnologia multimediale ha cambiato il modo di fruire la narrativa, la letteratura giovanile deve adeguarsi con diversi moduli, stili, contenuti e linguaggi? In tal senso, sono cambiate anche le facoltà intellettive dei giovani?
Non si può fornire una risposta se prima non si riconosce l’influenza ideologica sulla letteratura giovanile. Questa influenza è stata opportunamente analizzata per quanto riguarda il passato, mentre è ignorata per il presente. Perché oggi fingiamo che la letteratura si sia liberata da questa influenza quando è vero il contrario? Purtroppo quando si è immersi nell’ideologia è più difficile vederla. L’assetto sociale dei nostri tempi è riconoscibile nell’attitudine economicista della letteratura contemporanea. Il valore di un libro è stabilito dai dati commerciali. Così il libro di un calciatore diventa un best-seller che oscura le opere degli autori contemporanei. La tanto proclamata e vantata liberazione della letteratura dalla pedagogia non è altro che lo spostamento verso un uso puramente commerciale del libro. In passato il libro era il veicolo dell’ideologia, ora è svincolato dai contenuti per rispondere appunto alle esigenze della nuova ideologia. Questa nuova ideologia che chiameremo emporiocrazia, ossia governo del mercato, considera la letteratura un bene di consumo e l’inserisce nel sistema economico che essa stessa sostiene. Insomma, si tratta di un’ideologia più subdola perché priva di contenuti e valori, è l’ideologia del consumismo. Riconosciuto ciò bisogna andare oltre e ottenere una visione complessiva che ci permetta di uscire da questa interpretazione puramente economicista per individuare le prospettive alternative. In tal senso l’esperienza giapponese è molto utile per diversi motivi. Innanzitutto il Giappone è il paese dove la tecnologia è più avanzata, con importanti ripercussioni sia positive sia negative. In secondo luogo, le problematiche riguardanti la letteratura e la tecnica hanno avuto approcci e soluzioni originali in questo paese più avanzato, decisamente ancora sconosciute in Occidente. Soprattutto la questione della tecnica investe il fenomeno degli otaku e della cultura giovanile giapponese (wakamono bunka).
Fin dagli anni ’80 è apparsa prima come una problematica, poi come una risorsa, la cultura giovanile giapponese. Inizialmente il fenomeno era inquadrato nelle categorie della sociologia funzionalista di Robert King Merton, attribuendo il carattere di devianza a ciò che era invece un’autentica innovazione coinvolgente non soltanto i costumi, ma anche i mezzi di produzione e i consumi. Con il termine spregiativo di otaku si intendeva qualcuno che si chiudeva in casa segregandosi per seguire una passione o un hobby in modo fanatico. Questo passatempo (shumi) poteva essere la lettura di fumetti, il modellismo, il collezionismo, etc. Dopo circa un decennio i sociologi si accorsero che il fenomeno non era soltanto passivo e non aveva aspetti unicamente negativi. Gli otaku avevano grande capacità di aggregazione e socialità favorite dalla loro passione, inoltre erano creatori attivi di fanzine (dojinshi), disegnavano, scrivevano, organizzavano raduni. Insomma, erano tutto tranne che asociali e indolenti come erano stati inizialmente descritti. Intanto la sociologia cambiava indirizzo influenzata dal metodo dell’interazionismo simbolico di George Herbert Mead. Così le vecchie analisi erano buttate alle ortiche. In Giappone cominciarono a fiorire studi e considerazioni ben diversi sulla cultura giovanile. Ormai Tokyo era divenuta un laboratorio vivente, specialmente nei quartieri di Harajuku, Shibuya e Akihabara, di questa nuova cultura. La tecnica svolgeva un ruolo importantissimo in questa trasformazione. Le possibilità offerte agli otaku provenivano dal sistema di produzione snella inventato dai manager giapponesi. Con un computer, una stampante, una fotocopiatrice, si poteva realizzare una piccola tipografia casalinga. Questa capacità nasceva negli anni ’80 grazie alla rivoluzione informatica. La comunicazione cambiava tramite internet e telefonia mobile. La televisione era scavalcata e resa obsoleta dal lettore DVD e dal file multimediale. In Giappone ciò fa parte della storia del passato recente, in Italia questo sarà il futuro prossimo.

Qual è dunque l’insegnamento che ci proviene dall’esperienza giapponese? L’aspetto principale che va rimarcato è che i cambiamenti delle tecniche non possono agire da soli sul cambiamento della società, piuttosto è vero il contrario. La richiesta di certe tecniche e il loro successo è dovuto a esigenze sociali. La televisione, così come è ancora concepita, è destinata all’obsolescenza poiché la società del futuro non può tollerare un uso così passivo di un mezzo di comunicazione. Attualmente c’è il tentativo di rendere la televisione interattiva, ma è soltanto un trucco che non inganna le nuove generazioni già avvezze alla navigazione in internet. L’altro insegnamento dell’esperienza giapponese riguarda la cultura e il linguaggio. Gli otaku hanno sfruttato le risorse tecnologiche ripiegandosi sulla cultura autoctona di matrice pagana e buddhista. Questo deve far sospettare che una spinta forte verso l’uso della tecnologia comporta come compensazione un recupero della cultura antica depositaria dell’equilibrio delle pulsioni irrazionali. La risposta sociale alla razionalità della tecnica è una virulenta irrazionalità controllabile soltanto da nuovi schemi simbolici e semiotici. Come diceva Martin Heidegger, citando Hölderlin, dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva. Perciò Giorgio Bini può stare davvero tranquillo sulla sorte della letteratura. Il futuro non vedrà affatto nuovi paradigmi logici, piuttosto risorgerà la saggezza dell’antichità capace di dare senso alla realtà irrazionale dell’essere. Non sarà la tecnica a creare un nuovo essere. Non esiste un essere digitale autonomo e separato dall’essere. La tecnica è un sostegno (Gestell), capacità di creare una realtà artificiale piegando la natura alla volontà dell’uomo. Però ciò che è solo tecnica non giunge mai all’essenza della tecnica. La tecnica ha una sua essenza che prescinde dall’uomo. Così come l’essenza dell’uomo non è la sua opera, così l’essenza della tecnica non è opera dell’uomo. La tecnica si separa e vive di vita propria indipendente dall’uomo perché l’essenza della tecnica è l’essere stesso. Non un nuovo essere, ma l’essere. Insomma, l’uomo non crea la realtà con le sue macchine, egli interagisce e le macchine sono protagoniste di un mondo complesso dove l’idea di controllo e creatore si disfa. Il pericolo è che l’essenza dell’uomo passi la mano all’essenza della tecnica. Dunque l’errore sarebbe quello di vedere un problema tecnico lì dove il problema è umano. I mali dell’uomo non vanno imputati alla tecnica, ma a un rapporto instabile causato dall’uomo moderno incapace di ritrovare se stesso. Un uomo che spesso è impegnato a cercare se stesso nelle macchine che ha creato senza ritrovarsi. L’essenza dell’uomo non è la sua opera. Purtroppo questo equivoco è la causa dell’incapacità di porre attenzione all’essenza della tecnica, e della confusione fra tecnica ed essenza, fra uso e vita. La svolta avviene quando si guarda dentro ciò che è, scoprendo che chi guarda ha lo sguardo rivolto verso se stesso. La ricerca della tecnica era ricerca dell’uomo. Dimenticato l’uomo, la tecnica diviene incapace di vedere. La letteratura giovanile sarà veramente emancipata quando vedrà il pericolo della tecnica come salvezza dell’uomo, perché dov’è il pericolo cresce ciò che salva. L’idea che la lettura sia un bene da salvaguardare è illusoria. Ciò che va tutelato è il soggetto pensante. Tutte le parole spese in Italia a favore della promozione della lettura si sono rivelate vacue e soprattutto inutili. Non poteva essere altrimenti. Gli studiosi giapponesi ci insegnano che la lettura è un’attività spontanea che non può essere pianificata dalla didattica. Ogni attività rivolta alla formalizzazione e razionalizzazione della lettura si distingue per essere controproducente e dannosa. Per questo motivo le biblioteche familiari (bunko) che hanno un approccio informale ed emotivo hanno tanto successo in Giappone. La lettura ha bisogno di essere liberata dalle ricette dei sedicenti esperti, dalle formule della lettura per piacere, dalla confusione del sensualismo pasticcione. I libri si leggono, se si leggono, perché interessano. Tutto il resto è vaneggiamento. L’interesse è un processo del soggetto su cui non si può agire tramite il libro che è soltanto un mezzo o meglio un medium. Non esistono ricette per scrivere bei libri. Non esiste un esperto della letteratura capace di convincere a leggere. Quando avremo compreso ciò potremo guardare alla questione della lettura come ciò che realmente è, un sottoproblema della sociologia che può essere trattato seriamente solo in un ambito più ampio.
La pedagogia e la critica giapponese hanno capito ciò da un bel po’ di tempo. Quando si emanciperà anche la critica letteraria italiana?

Note

1. Per la problematica in Giappone si consulti la rivista "Nihon jidobungaku" dedicata alla letteratura per l'infanzia.

Bibliografia

Drake, William, The New Information Infrastructure, Twentieth Century Fund Press, New York, 1995.
Drucker, Peter, Post-Capitalist Society, Harper Collins, New York, 1993.
Eagleton, Terry, Le illusioni del postmodernismo, Editori Riuniti, Roma, 1998.
Ferretti, Gian Carlo, Il mercato delle lettere, Einaudi, Torino, 1979.
Fukuyama, Francis, La Grande Distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale, Baldini & Castoldi, Milano, 1999.
Hardt, Michael e Negri, Antonio, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2001.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in “Quaderni Asiatici”, n.61, marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in “LG Argomenti”, n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in “Sushi”, n.3, ottobre 1996.
Masuda, Yoneji, The Information Society as Post-Industrial Society, World Future Society, Washington, 1981.
Morikawa, Kaichiro, Learning from Akihabara. The Birth of a Personapolis, Gentosha, Tokyo, 2003.
Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.

Niju, il pluralismo del doppio

Articolo sul pluralismo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti".

Cfr. Cristiano Martorella, Niju, il pluralismo del doppio, in "LG Argomenti", n.3, anno XXXVIII, luglio-settembre 2002, pp.10-13.

Niju, il pluralismo del doppio
di Cristiano Martorella

In giapponese niju significa doppio. Dualismo si dice infatti nijusei. Ma nel pensiero filosofico e letterario giapponese il doppio non ha propriamente lo stesso senso acquisito in Occidente. In Estremo Oriente l'idea dell'unità e armonia dei contrari fu talmente pervasiva da essere messa in discussione soltanto quando si ebbero i primi contatti con la filosofia europea.
Nell'induismo il brahman riassume il principio unitario, l'assoluto. Poiché il pluralismo, e così il dualismo, può ottenersi soltanto nella determinazione, ossia nelle categorie di tempo e spazio, l'assoluto che è l'originario autentico e incorruttibile, non conosce il samsara (ciclo di nascita e morte) e con esso l'esistenza fenomenica. Dunque l'induismo riduce il dualismo a una semplice apparenza o inganno dei sensi.
Il taoismo riprende l'idea dei contrari e la pone alla base della dottrina. Non esisterebbe armonia senza la complementarietà di due princìpi: lo yang (maschile, luminoso, attivo e caldo) e lo yin (femminile, oscuro, passivo e freddo). Ma questa riduzione ha sempre rischiato di tramutarsi in una regolamentazione dettata dall'autorità, rischio che è stato amplificato dal confucianesimo e dai suoi interpreti (funzionari governativi, amministratori, etc.). Non è casuale che le valutazioni più severe e negative del concetto taoista di armonia provenissero dai marxisti cinesi che avevano assorbito le lezioni del materialismo storico all'inizio del Novecento (soprattutto la critica all'ideologia come sistema teorico delle classi dominanti).
Il buddhismo, ancorato più profondamente alla tradizione induista, elimina ogni forma di dualismo definendolo come un inganno, un'apparenza. Perfino la forma e il contenuto sarebbero la medesima realtà. Così il nulla e l'esistenza fenomenica sarebbero soltanto due aspetti della stessa realtà. L'espressione giapponese definisce in questo modo il concetto: ku soku ze shiki (il vuoto è la forma).
Lo shintoismo, culto autoctono nipponico, ha elaborato in modo indipendente il concetto di doppio nel mito di Izanagi e Izanami, la coppia di dei che crearono l'arcipelago giapponese. Gli dei del cielo (amatsukami) inviarono Izanagi e Izanami, fratello e sorella, per popolare la terra ancora nel caos. Essi crearono le isole del Giappone immergendo una lancia e mescolando l'acqua del mare. Quando l'acqua si addensò, sollevando la lancia la fecero gocciolare (simbolismo dell'eiaculazione) formando un'isola. Poi Izanagi (maschio che seduce) e Izanami (femmina che seduce) si accoppiarono generando altre isole, dei e creature che abitarono l'arcipelago nipponico. Questa coppia divina è rappresentata nel culto shintoista da due rocce affioranti dal mare nella baia di Futami presso il tempio di Ise (Daijingu). Le sacre rocce sono l'espressione simbolica più potente del concetto di armonia e unione dei contrari. Attraverso il legame, costituito da una corda, si accentua nel contempo la dualità e l'unità.
Nel pensiero giapponese le matrici buddhiste e shintoiste sono quelle che maggiormente si avvertono. Ma a ciò si aggiunge una profonda conoscenza della letteratura europea che diviene parte costitutiva e dialogante del mondo nipponico. Letteratura e cinematografia nipponica non soltanto acquisirono le tecniche occidentali, ma con esse anche le tematiche, i diversi registri, la tipologia narrativa che si fusero in qualcosa di inseparabile alla tradizione già esistente.
Il regista Kurosawa Akira trattò il tema del doppio nel film Kagemusha (1980). In Kagemusha (Kagemusha, l'ombra del guerriero, produzione Toho e Kurosawa Films) si narra la vicenda del grande condottiero e daimyo Takeda Shingen e del suo sosia (interpretati da Nakadai Tatsuya). Shingen, morto a causa di una ferita, lascia come ordine che il suo decesso venga nascosto al nemico e anche alle persone che non fossero comandanti militari del clan Takeda. Il posto di Shingen viene preso da un sosia perfetto che ha però modeste origini. Il sosia era un ladruncolo condannato per furto. L'uomo si sostituisce al condottiero, ma il peso e la responsabilità del suo comportamento si ripercuotono in modo inaspettato. Il sosia comincia a sentirsi perseguitato da Shingen, tanto da identificarsi in lui e non riconoscere più la sua personalità da quella del nobile Shingen. Egli riesce a ingannare tutti, le concubine, il nipote ancora bambino e soprattutto i nemici. Arriva addirittura a condurre le truppe vittoriosamente contro le forze avversarie. Sembrerebbe aver raggiunto lo scopo di una duplicazione perfetta, ricoprendo al meglio il ruolo assegnatoli. Però un giorno decide di cavalcare un fiero destriero che soltanto Shingen era capace di domare. Il cavallo riconosce per istinto l'estraneo e lo disarciona. Caduto a terra, le concubine si accorgono dell'assenza delle ferite che il vero Shingen aveva, e viene scoperto l'inganno del sosia. Così il gemello ideale di Shingen viene scacciato. Il clan Takeda si avvia al declino. La battaglia di Nagashino nel 1575 ne segna la fine, e la conseguente ascesa di Nobunaga.
Il tema del doppio è qui trattato da Kurosawa nell'ottica del relativismo. Il sosia si immedesima tanto nel suo ruolo da soffrirne quando viene allontanato. Egli sente perfino la stessa responsabilità di Shingen nei confronti del clan. Il tema del relativismo è presente con maggiore insistenza in un altro capolavoro di Kurosawa, il film Rashomon tratto dall'omonimo libro di Akutagawa Ryunosuke. In questo caso il doppio è costituito da una coppia di sposi. L'episodio specifico è tratto dal racconto Yabu no naka (Nel bosco). La relazione duale marito-moglie si scompone nel triangolo marito-moglie-amante, poi in un quartetto, quintetto, sestetto costituito dalle testimonianze dell'omicidio del marito. Il tutto si ricompone nella rivelazione di una medium che proferisce nello stato di trans la confessione del marito suicida. La confessione del marito riporta la pluralità all'unità. Il senso del racconto è nelle testimonianze che mostrano il relativismo dei differenti punti di vista dei personaggi. La tensione della coppia non è risolvibile nella complementarietà così come credeva il taoismo, ma esplode in una pluralità di contraddizioni risolvibili soltanto nell'unità del cosmo. Qui il relativismo di Akutagawa rivela la matrice shinto-buddhista. La natura dell'universo è costituita da un'infinità di contraddizioni tenute insieme dalla contraddizione assoluta: l'uno è il molteplice, il molteplice è l'uno. Si richiede dunque d'abbandonare la logica classica e aprire lo sguardo alla realtà e al pensiero creativo (ciò che i saggi chiamano satori, oppure illuminazione).
L'influenza della letteratura straniera, compresa quella per l'infanzia, ha introdotto il tema del doppelgänger (in giapponese ikiryo). Anche il tema dei gemelli ha avuto una rielaborazione attraverso la lettura dei classici occidentali. Amanuma Haruki ha riscritto il capolavoro di Lewis Carroll ispirandosi liberamente all'immaginario paese delle meraviglie (cfr. Amanuma, Haruki, Alicetopia. Fushigi no kuni no boken, Parorusha, Tokyo, 2000). Il libro è magnificamente illustrato dalle tavole surrealiste di Otake Shigeo. I fratelli Tweedledum e Tweedledee diventano così due sorelle gemelle. Ma l'essere identici è causa di discordia. Come afferma la ragazza: "Se è uguale, allora è meglio vivere con uno specchio". I doppi uguali, come per la legge del magnetismo, si respingono. Il conflitto è inevitabile.
E qui ritornano i princìpi filosofici introdotti all'inizio. Essendo la realtà impermanente (shogyo mujo), il principio d'identità ha valore soltanto nel paese delle meraviglie, luogo dove le contraddizioni logiche sono l'ordinaria esistenza. Ma nel mondo effimero (ukiyo) dell'esistenza umana non vi è posto per il doppio e il dualismo, incessantemente scavalcato dal pluralismo del reale.

Bibliografia

Akutagawa, Ryunosuke, Rashomon e altri racconti, UTET, Torino, 1983.
Amanuma, Haruki, Alicetopia. Fushigi no kuni no boken, Parorusha, Tokyo, 2000.
Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. I miti dell'antichità, Vol. 1, Graphos, Genova, 1991.
Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. L'incontro con la cultura cinese, Vol. 2, Graphos, Genova, 1992.
Boisselier, Jean, La sagesse du Bouddha, Gallimard, Paris, 1993.
Confucio, I classici confuciani, trad. di Yuan Huaqing, Antonio Vallardi, Milano, 1995.
Delay, Nelly, Le Japon éternel, Gallimard, Paris, 1998.
Futo no Yasumaro, Kojiki, Kadokawa Shoten, Tokyo, 1993.
Kurosawa, Akira, L'ultimo samurai. Quasi un'autobiografia, Baldini & Castoldi, Milano, 1995.
La Rosa, Giorgio e Sirtori, Vittorio (a cura di), Dizionario delle religioni orientali, Antonio Vallardi, Milano, 1993.
Moore, Charles, The Japanese Mind: Essentials of Japanese Philosophy and Culture, University of Hawaii Press, Honolulu, 1967.
Muccioli, Marcello, La letteratura giapponese, Sansoni, Firenze, 1969.
Novielli, Maria Roberta, Storia del cinema giapponese, Marsilio, Venezia, 2001.
Reischauer, Edwin, Japan, Tradition and Transformation, Allen & Unwin, Sidney, 1979.

venerdì 20 novembre 2009

Le scuse per Hiroshima

Intervento pubblicato dal quotidiano "Il Secolo XIX". Cfr. Cristiano Martorella, Il Nobel Barack non ammette l'orrore di Hiroshima, in "Il Secolo XIX", giovedì 19 novembre 2009, p.22.

Il Nobel Barack non ammette l'orrore di Hiroshima

Nonostante il clima di distensione, e il premio Nobel vinto per la pace, Barack Obama non riesce a fare un passo indietro ammettendo la gravità dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. Le autorità giapponesi avevano suggerito quanto fossero ritenute opportune le scuse per un atto che storicamente appare simile ad altri crimini di guerra, nell'evidenza dello sterminio di massa indifferenziato. Ma la storia è sempre scritta soprattutto dai vincitori, e ciò impedisce di far emergere i fatti piuttosto che le interpretazioni politiche. Negli Stati Uniti ancora vige una versione storica che considera i bombardamenti atomici del Giappone come necessari per evitare una strage di truppe americane in un eventuale sbarco. Questa giustificazione è falsa. I bombardamenti atomici furono un test per valutare l'effettiva potenza e la possibilità di utilizzo delle armi nucleari, e nello stesso tempo un avvertimento per la crescente potenza sovietica. La giustificazione del bombardamento atomico è stata supportata per anni da una mistificazione di regime che ha sempre ridicolmente descritto i giapponesi come ostinati combattenti pronti a morire tutti pur di non arrendersi. Sappiamo invece da numerosi documenti che le autorità politiche giapponesi erano consapevoli di aver perso la guerra e cercavano semplicemente una resa dignitosa. Però le trattative per una resa non furono facilitate dagli Stati Uniti che pretesero l'umiliazione del Giappone con una resa incondizionata e l'occupazione militare del paese. Il Giappone perse la sua indipendenza e ritornò un paese sovrano soltanto nel 1952. I territori del Giappone furono drasticamente ridimensionati sottraendo tutte le zone acquisite dopo il 1895. Anche Okinawa divenne una regione ad amministrazione fiduciaria americana, e alcune isole a nord dell'Hokkaido furono cedute all'Unione Sovietica. Il Trattato di San Francisco del 1951, e il suo rinnovo a Washington nel 1960, pose delle condizioni molto limitanti per il Giappone, e sancì una subordinazione politica del Giappone alla potenza militare americana. Gli scontri violentissimi fra manifestanti e polizia che si ebbero nel periodo della firma dei trattati furono sostenuti sia dall'estrema sinistra sia dall'estrema destra, in un clima di generale insoddisfazione della popolazione. Tutto ciò non può essere dimenticato e cancellato. Gli Stati Uniti possono e devono fare un passo indietro per vedere la storia del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki senza più usare le lenti distorcenti della politica.
Cristiano Martorella

martedì 17 novembre 2009

Il militarismo giapponese

Articolo sul militarismo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.

Fukoku kyohei
Militarismo, colonialismo e libero mercato
di Cristiano Martorella

19 giugno 2005. L’espressione fukoku kyohei (paese ricco ed esercito forte) fu lo slogan usato nell’era Meiji (1868-1912) che ben descrive il militarismo (gunkokushugi) che permeò il moderno Giappone fino alla metà del XX secolo. Dell’argomento si parla spesso con superficialità cadendo nelle consuete banalizzazioni strumentali all’ideologia corrente, senza capire quali siano le motivazioni dell’agire dei protagonisti della storia. Perciò è necessario fare un po’ di chiarezza anche a costo di essere anticonformisti e controversi. Soprattutto sarà il metodo storico comparativo(1) a permetterci di analizzare gli eventi liberandoci della visione pregiudizievole dell’ideologia. Non bisogna dimenticare che lo storico Noro Eitaro (1900-1934) nella sua Storia dello sviluppo del capitalismo giapponese (Nihon shihonshugi hattatsushi) dimostrò per primo la validità del metodo comparativo applicato alla storia giapponese (2).
Lo scopo della nostra analisi verterà quindi sull’esplicazione dei rapporti fra militarismo e libero mercato, mettendo in evidenza i seguenti punti:

1) Differenza fra il militarismo capitalista moderno e il militarismo aristocratico feudale;
2) Origini rurali dell’estrema destra giapponese e debolezza della borghesia liberale;
3) Imitazione giapponese del modello coloniale e militarista occidentale;
4) Persistenza del modello militarista “paese ricco ed esercito forte” nelle democrazie del XXI secolo.

La distinzione fra guerrieri aristocratici samurai ed esercito nazionale di plebei della leva obbligatoria, appare chiaramente evidenziando alcuni eventi cruciali della storia. La coscrizione obbligatoria per l’esercito fu avviata nel 1873, ed era soltanto uno dei passaggi di un grande processo di mutamento della struttura sociale giapponese. I samurai erano stati per secoli i migliori funzionari del Giappone feudale. Oltre ad essere guerrieri abilissimi, erano preparati nelle lettere e nelle arti, risultando un ottimo strumento dell’amministrazione finché non apparve con risalto il declino del potere dello shogun. Il Giappone feudale si scontrò con le nazioni colonialiste occidentali, presentando l’impossibilità di competere con l’organizzazione moderna industriale, anche e soprattutto con la struttura burocratica nazionalista degli stati capitalisti del XIX secolo. Il Giappone era un efficiente impero feudale dell’Oriente, ciò non era però sufficiente per un confronto paritario con la forza militare dell’Occidente finché non fosse divenuto uno stato moderno capitalista. D’altronde era la forza militare che garantiva la penetrazione dei commerci occidentali nelle colonie, garantendo l’esistenza di un libero mercato imposto con l’uso delle armi (3). La coscrizione obbligatoria era soltanto un passaggio della trasformazione del Giappone. Però i samurai, esclusi e ridimensionati nella nuova società, si ribellarono all’evidente svantaggio che li privava dei privilegi e diritti della casta aristocratica, a partire dal diritto di portare pubblicamente le due spade simbolo del guerriero. Già nel 1874 si ebbe a Saga una rivolta guidata da Eto Shinpei (1834-1874) soffocata dal governo. Nel 1876 la ribellione dei samurai avvenne a Kumamoto. Poco dopo la rivolta esplose a Kagoshima, dove quindicimila samurai si scontrarono con quarantamila contadini arruolati e ben equipaggiati dal governo. Il capo dei ribelli era Saigo Takamori (1827-1877), già ministro dimessosi per protesta e valente guerriero. Ma i samurai erano ormai sia tecnicamente sia politicamente obsoleti, e non poterono opporsi all’avanzata delle riforme propulse dall’accoppiata industria e capitale. Il 24 settembre 1877, Saigo Takamori fu sconfitto e perse la vita nell’ultimo scontro decisivo per i samurai.
Lo scontro fra samurai ed esercito di coscritti ebbe come conseguenza anche le rivendicazioni sociali di una massa di plebei che erano ben lontani dalle idee illuministe di eguaglianza, fratellanza e libertà, concetti recepiti soltanto dalla borghesia colta e da alcuni aristocratici intellettuali (4). Questi strati della plebe alimentarono la formazione di una destra estremista che in nome del patriottismo auspicava l’uso della violenza per imporre il proprio governo autoritario. Un tentativo riuscito che portò prima alla penetrazione nelle forze armate, poi al controllo del governo da parte dell’esercito. La formazione di forze armate composte da contadini fu un processo che attinse a un movimento spontaneo. I contadini avevano costituito autentici eserciti ostili al governo dello shogun, il bakufu, e le loro rivolte avevano indebolito il potere militare dei Tokugawa, fino al crollo definitivo nel 1867. La coscrizione obbligatoria del 1973 integrò i contadini nella nuova società, però comportò anche gravi squilibri. Praticamente il nuovo stato nasceva tramite una militarizzazione di massa, a discapito delle forze sane e propulsive dell’economia come i commercianti (chonin). Intanto il malcontento dei samurai fu placato inserendoli nell’apparato burocratico come funzionari governativi, amministratori locali, membri della polizia, e personale scolastico docente e amministrativo. Ruoli che svolsero zelantemente grazie all’indubbia preparazione.
Il governo Meiji, preoccupato della minaccia di insurrezioni, cercò di evitare ad ogni costo il conflitto di classe generando così una situazione pericolosa ignorata da tutti, ovvero la militarizzazione della società. Anche l’industria si sviluppò in tal senso privilegiando l’industria pesante utile alle costruzioni belliche. Questi squilibri erano amplificati dalla debolezza della borghesia giapponese. Lo sviluppo del paese aveva come obiettivo la potenza militare, viceversa mancava una borghesia intellettuale che sostenesse l’arricchimento del paese per il benessere dei cittadini. C’erano numerose eccezioni, ma si trattava di intellettuali dalle idee brillanti che raramente trascinavano il consenso delle masse. Ed erano essi stessi a denunciare la pericolosità del conformismo dell’opinione pubblica. Lo slogan fukoku kyohei (paese ricco ed esercito forte) andava così interpretato come paese ricco per un esercito forte, ciò nell’acclamazione generale delle folle. Nonostante l’impiego di masse contadine, l’esercito fu molto lontano dall’avere un pur minimo aspetto democratico essendo ancora dominato da interessi personali. Yamagata Aritomo del feudo di Choshu assunse il comando della guardia imperiale dal 1872, così da stabilire il predominio della sua signoria sull’esercito fino all’inizio del XX secolo. Yamagata Aritomo fu anche l’artefice di una ordinanza che stroncava qualsiasi attività democratica nell’esercito, e imponeva una rigida politica reazionaria. Paradossalmente si formava così un esercito privo di ideali aristocratici e composto da plebei ostili alla democrazia, inoltre ciò avveniva in un paese formalmente democratico con leggi e istituzioni liberali. Purtroppo un simile processo non era qualcosa di particolare, ma aveva come modello le potenze coloniali occidentali. D’altronde gli eserciti occidentali delle democrazie liberali non hanno mai avuto alcun ordinamento democratico, costituendo la contraddizione palese di un sistema autoritario gerarchico all’interno di sistemi politici a rappresentanza elettorale. La contraddizione è tuttora ignorata, anche quando le forze armate delle democrazie si rendono colpevoli di crimini di guerra, sempre definiti come rare eccezioni, in realtà né rare né eccezioni.
La struttura dell’esercito giapponese divenne estremamente pericolosa quando cominciò a controllare la politica e a saldare l’alleanza con le cricche economiche (zaibatsu). Il binomio libero mercato e militarismo non è così inconsueto se si considerano le economie delle potenze coloniali occidentali. Il militarismo giapponese non è un’eccezione, ma il perseguimento di una regola, quella regola espressa dallo slogan paese ricco ed esercito forte.
Il fenomeno delle formazioni politiche paramilitari e militari è tipico della prima metà del XX secolo, e può essere inquadrato col termine fashizumu (fascismo) usato ampiamente anche da Maruyama Masao. Anche se è ancora controversa la definizione di “fascismo giapponese”, poiché mancava un partito unico ed esistevano altre caratteristiche peculiari, si può essere concordi su ciò che si intende definire (5). Come fasciste si intendono le organizzazioni militari armate che praticavano violenze, compreso l’omicidio degli avversari politici e il colpo di stato, con lo scopo di controllare il paese e rafforzare la propria ideologia distorta della via dell’imperialismo (kodo). Queste formazioni militari avevano origine nelle campagne ancora radicate a valori reazionari e antiprogressisti, in tutto e per tutto ostili ai valori liberali. Per queste masse di contadini la dialettica delle istituzioni democratiche era una degenerazione sociale e politica. Non accettavano i principi liberali e la garanzia dei diritti, invocando invece il principio d’autorità, il rispetto delle gerarchie e l’uso della forza. Ci furono parecchi fautori della svolta autoritaria che tentarono di teorizzare ciò che gli eventi tumultuosamente affermavano. Uchida Ryohei (1874-1937) sosteneva che i confini del Giappone dovessero essere estesi fino al fiume Amur in Cina, e fondò la Kokuryukai (Società del drago nero). Un altro leader ultranazionalista fu Toyama Mitsuru (1855-1944), fautore del dominio dell’Asia sotto la guida del Giappone (panasiatismo nipponico) e organizzatore di numerosi attentati politici. Sicuramente il primo e più agguerrito teorico del nazionalismo estremista giapponese fu Kita Ikki (1883-1937) che sosteneva l’eliminazione del parlamento, l’abolizione della costituzione, l’instaurazione di un’economia popolare contro zaibatsu e latifondi, e l’occupazione della Cina. Kita Ikki fu implicato in un tentativo di colpo di stato e venne giustiziato proprio da quella autorità imperiale che egli strumentalmente appoggiava.
Il 15 maggio 1932 il primo ministro Inumai Tsuyoshi fu assassinato da un gruppo di ufficiali dell’esercito e della marina ponendo fine all’ultimo governo sostenuto dai partiti senza influenze militari. Il 26 febbraio 1936 si sollevarono ventidue giovani ufficiali dell’esercito e della marina alla guida di 1400 uomini che uccisero alcuni importanti politici, fra cui il ministro delle finanze Takahashi Korekiyo e l’ammiraglio Saito Makoto, e occuparono vari palazzi. In nome di una presunta autorità imperiale, essi invocarono un rinnovamento del paese e la fedeltà assoluta all’imperatore. Fu lo stesso imperatore Hirohito a soffocare la sommossa inviando l’esercito contro i ribelli. Però la situazione era ormai compromessa, e con la giustificazione dell’ordine pubblico l’esercito eliminò ogni opposizione. L’imperatore Hirohito rimase così ostaggio della politica militarista, e anche se appoggiò i leader moderati e contrari alla guerra, come Konoe Fumimaro, non riuscì ad opporsi con forza alla follia dei governi presieduti da generali come Tojo Hideki.
I militari erano fuori dal controllo delle istituzioni e prendevano iniziative autonome che trascinavano poi il paese nel baratro oscuro (kurai tanima). Risulta evidente che chi doveva difendere le istituzioni le stava invece demolendo. Inoltre lo scontro nelle forze armate era esasperato perché da una parte la marina (kaigun) si ispirava al modello inglese, non concordando gli obiettivi con l’esercito (conquista della Cina e guerra con gli Stati Uniti), dall’altra anche all’interno dell’esercito chi si opponeva alle concezioni retrograde era considerato un avversario da eliminare.
Questa situazione complessa è ancora più articolata se si considera dinamicamente il quadro che la costituisce. Il militarismo giapponese fu alimentato dal movimento rurale (nohonshugi) delle campagne che fornì l’ideologia e gli uomini, trovò nell’esercito la struttura e l’istituzione che permetteva la penetrazione politica, ma il sostegno materiale fu fornito dai gruppi economici (zaibatsu) che attraverso la guerra potevano trovare uno sbocco commerciale per le produzioni belliche. Capitalismo e ruralismo si accoppiarono col comune interesse di creare nuovi mercati attraverso l’uso della forza militare, così da perpetuare il modello famigliare al di là dei confini nazionali. Perciò è appropriata l’espressione che definisce la grande famiglia panasiatica (daitoa kyoeiken), l’area di comune prosperità, anche se distorta, illiberale e assurda. Però ancora oggi non è stata soppiantata l’idea di creare un modello politico unico attraverso l’uso della forza militare e l’espansione del mercato economico. Dopo la fine del fascismo e del socialismo, sembra essere in discussione anche l’univoco modello della democrazia capitalista come modello egemone, perché nella forma della globalizzazione ricompare lo stesso militarismo che si era alleato col capitalismo. Con la giustificazione della lotta al terrorismo, non sono più i fascisti a sostenere la necessità dell’uso della forza militare per garantire l’ordine sociale, ma i governi democratici. Uno smacco che annienta secoli di lotte per i diritti civili.

Note

1. Il metodo comparativo applicato alle scienze storico-sociali è estremamente efficace ma difficilmente recepito nella sua portata e profondità. Illustri storici come Otto Hintze, Karl Lamprecht, Wilhelm Roscher e Max Weber, fecero ampio uso del metodo comparativo. Nella formazione accademica di chi scrive ha avuto importanza l’insegnamento di Giuseppe Di Costanzo, studioso appunto di questi autori presso l’Università Federico II di Napoli.
2. Sempre Noro Eitaro affermò che bisogna prendere in esame l’ineluttabilità (hitsuzen) della storia, piuttosto che l’occasionalità (guzen). La storia non è un racconto qualunque che si può interpretare a piacere, ma una connessione di fatti.
3. Emblematici i casi dell’India e della Cina sottomesse dalla forza della più potente economia liberista del mondo. La Gran Bretagna, culla della rivoluzione industriale e fautrice del libero mercato, fu anche il più grande impero coloniale del XIX secolo, estendendo i suoi domini e il controllo dei traffici commerciali su tutto il pianeta. Truppe e cannoniere britanniche tutelavano sia gli interessi politici sia quelli economici, spesso coincidenti. Fu per motivi commerciali che scoppiò la Guerra dell’oppio (1840-1842). Infatti fu imposto alla Cina di importare l’oppio prodotto dalle colonie britanniche nell’Asia centrale. Il rifiuto portò al bombardamento di Nanchino, il blocco di Canton e l’acquisizione di Hong Kong tramite un contratto, oltre al pagamento in denaro dell’indennizzo di guerra. Cfr. Herbert Franke e Rolf Trauzettel, Storia Universale Feltrinelli, L’impero cinese, Vol.19, Feltrinelli, Milano, 1969.
4. Fra i samurai sostenitori delle idee illuministe e liberali spicca la figura di Fukuzawa Yukichi (1834-1901), autore di Incoraggiamento al sapere (Gakumon no susume) e La condizione dell’Occidente (Seiyo jijo).
5. Il dibattito sul fascismo giapponese (fashizumu ronso) è ancora vivo, pur risalendo alla controversia fra la scuola Koza e la scuola Rono, legata ai socialisti Yamakawa Hitoshi e Inomata Tsunao.

Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Samurai, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.
Barzini, Luigi, Giappone in armi, Treves, Milano, 1906.
Halliday, Jon, Storia del Giappone contemporaneo. La politica del capitalismo giapponese dal 1850 a oggi, Einaudi, Torino, 1979.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Maruyama, Masao, Le radici dell’espansionismo. Ideologie del Giappone moderno, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1990.
Positano De Vincentiis, Fiammetta, Incrociatori per il Sol Levante, De Ferrari, Genova, 2005.
Takeshita, Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Clueb, Bologna, 1996.
Yanaga, Chitoshi, Transition from military to bourgeois society, in “Oriens”, n.1, vol.8, 1955.
Vantaggi, Adriano, Giappone 1853-1905: Dalla fine dell’isolamento al ruolo di grande potenza, Lassa-Scalese, Genova, 1984.

Nichiren fra nazionalismo e militarismo

Articolo sui rapporti fra Nichiren e il militarismo pubblicato dal blog Discutiamo del Giappone.

Nichiren fra nazionalismo e militarismo
di Cristiano Martorella

29 settembre 2008. Nichiren (1222-1282) fu fra i più importanti monaci buddhisti riformatori dell'epoca Kamakura, e il suo ruolo di spicco appare non soltanto nella religione, ma anche e soprattutto nella storia e nell'ideologia della nazione giapponese. Attualmente la sua figura militante è associata ad alcune organizzazioni buddhiste che ne usano il nome e gli insegnamenti senza approfondire uno studio storico del personaggio, e ne nascondono volutamente i risvolti più controversi. Paradossalmente queste organizzazioni si presentano come sostenitrici del pacifismo, senza rivelare le contraddizioni e le strumentalizzazioni che si sono operate sulla figura di Nichiren. Egli, infatti, non soltanto fu invocato nelle preghiere dei buddhisti desiderosi della pace mondiale, ma venne idolatrato dai nazionalisti giapponesi che ne fecero un modello della loro dottrina politica. La confusione operata sulla figura di Nichiren fu facilitata dagli stessi atteggiamenti intransigenti che il monaco ebbe durante la sua vita. In particolare, alcuni suoi insegnamenti risultarono adatti a giustificare la politica militarista e imperialista del Giappone. Nel 1260 Nichiren aveva presentato al governo giapponese un documento intitolato Rissho ankoku (Insegnamento corretto per la pace della nazione) in cui spiegava il suo punto di vista. Secondo Nichiren, il Giappone era divenuto l'unico paese dove si praticava ancora l'autentico buddhismo, essendo ormai stato cacciato dall'India ed essendo anche in declino nella Cina. Quindi il governo giapponese aveva la responsabilità di preservarlo intatto perché soltanto il paese del Sol Levante aveva quel dono degli dei, anzi doveva davvero impegnarsi per diffonderlo nel mondo. Per compiere questa missione, il governo giapponese avrebbe dovuto proibire tutte le altre religioni, arrestando e giustiziando i sacerdoti dei culti rivali, e radendo al suolo tutti i loro templi. Nichiren non si riferiva solo alle religioni straniere, ma anche alle altre scuole buddhiste avversarie che considerava responsabili di trasmettere un falso buddhismo. Quest'ultimo insegnamento è presente anche oggi in tutte le sette che si ispirano a Nichiren. Infatti esse dichiarano apertamente che soltanto il buddhismo di Nichiren è quello autentico, mentre ogni altra scuola buddhista è falsa. Per far comprendere meglio il rapporto esclusivo e speciale fra il buddhismo e il Giappone, Nichiren scrisse nell'oggetto di culto (Gohonzon), venerato dai suoi seguaci, i nomi di due divinità protettrici del paese del Sol Levante, Hachiman e Tensho Daijin. Quest'ultima è anche chiamata Amaterasu Omikami dagli shintoisti, ed è la dea del sole che fondò, secondo la mitologia giapponese, la dinastia imperiale. Nichiren non si fermò a dichiarare la necessità di eliminare le altre religioni, ma nel testo intitolato Kaimokusho (Aprire gli occhi) spiega come la religione fosse ormai praticata con violenza, e non bisognava fermarsi alle apparenze delle parole, bensì prepararsi allo scontro fisico e all'aggressività. Questo insegnamento fu immediatamento seguito dai suoi seguaci. Il samurai Shijo Kingo raccontò nelle sue lettere di aver combattuto ferocemente contro i suoi avversari, e ciò provocò il compiacimento di Nichiren che lo incoraggiò sempre, e soprattutto gli raccomandò prudenza considerando l'irruenza dell'amico. La crudeltà degli scontri non risparmiò nemmeno lo stesso Nichiren che fu più volte aggredito. Nel 1264, in un suo viaggio ad Awa, Kagenobu Tojo tentò di assassinarlo. Ciò non scoraggiò Nichiren che riprese la sua predicazione basata sulla pratica dello shakubuku. Lo shakubuku, letteralmente spezzare e sottomettere, era un metodo di conversione basato su una veemente predicazione capace di confondere l'auditorio con la provocazione e suscitare deliberatamente l'ira. Secondo Nichiren, era un metodo efficace di conversione perché produceva uno sconvolgimento emozionale e creativo. In realtà ciò provocò le antipatie e l'ostilità delle autorità governative, mal disposte a sopportare disordini e risse, e soprattutto delle altre sette buddhiste, divenute oggetto di una critica feroce e violenta. Il risultato fu la condanna di Nichiren all'esilio per ben due volte, la prima dal 1261 al 1263 a Izu, la seconda dal 1271 al 1274 nell'isola di Sado. Nichiren giustificò le condanne che lo colpirono come una persecuzione nei confronti dei seguaci del Sutra del Loto, e ciò aggravò il suo fanatismo e la sua intolleranza. Infatti, quando fu liberato nel 1274, decise di ritirarsi in isolamento sul monte Minobu, dove visse in estrema solitudine. Durante la sua esistenza, aveva affermato la sicura salvezza attraverso la sua pratica religiosa, ma negli ultimi anni di vita incominciò a esprimere la speranza nella rinascita nel Ryozen jodo (La terra pura della montagna dello spirito), in netta contraddizione con l'insegnamento fino ad allora predicato. Nichiren aveva sostenuto che tutti i desideri espressi si sarebbero realizzati, purtroppo per lui non fu affatto così. Il governo giapponese non seguì i suoi consigli, i suoi avversari delle sette Zen e Jodo accrebbero il loro potere, e l'intero paese non scelse di seguire esclusivamente la sua religione. Nel Giappone contemporaneo non si professa affatto l'unica religione auspicata da Nichiren, ma è garantita la libertà religiosa a diversi gruppi di buddhisti, shintoisti e cristiani.

La vicenda esistenziale di Nichiren si è prestata a varie e contraddittorie interpretazioni. In particolare, Nichiren fu considerato come il salvatore del Giappone dall'invasione dei mongoli (1274 e 1281). Egli infatti aveva predetto, insieme ad altre terribili disgrazie, un'invasione da parte dei mongoli. In realtà la profezia di Nichiren era un po' differente, avendo auspicato una punizione per il popolo giapponese se non avesse seguito la sua religione. Ma ciò non avvenne perché i mongoli furono travolti da un tifone, e questo permise ai sacerdoti shintoisti di giustificare gli eventi come un atto della protezione degli dei attraverso il kamikaze (vento divino). I seguaci di Nichiren, invece, continuarono a sostenere che l'intervento del monaco fu provvidenziale, e addirittura egli avrebbe inventato la bandiera del Sol Levante (hinomaru) e l'avrebbe consegnata alle truppe giapponesi. Questa leggenda si è conservata nell'immaginario collettivo tanto da riapparire nelle considerazioni dei militari giapponesi. Quando l'ammiraglio Heihachiro Togo (1847-1934) si apprestava ad affrontare la flotta russa, egli si recò a pregare davanti all'enorme statua di bronzo di Nichiren che si trova a Fukuoka per ricordare la profezia dell'invasione dei mongoli. La vittoria schiacciante ottenuta a Tsushima (27 maggio 1905) sembrò convalidare la credenza che il Giappone avesse dovuto dominare il mondo. Altri militari e politici incominciarono a sostenere, interpretando a loro modo l'insegnamento di Nichiren, che la missione del Giappone consisteva nel diffondere la sua civiltà nell'intero pianeta. Sfruttando il fanatismo e l'intolleranza presenti nelle affermazioni di Nichiren, lo piegarono facilmente ai loro scopi politici. Nichiren sosteneva che l'unica religione vera fosse quella da lui predicata, e soprattutto condannava il lassismo e la passività, esortando al proselitismo e alla missione di kosen rufu (diffusione della fede). Nelle mani dei militari queste idee divennero una giustificazione della brutalità della guerra, considerata come una forma di rigenerazione e trasformazione del mondo. Un altro principio espresso da Nichiren, il principio di itaidoshin (diversi corpi uno stesso cuore), era manipolato per consolidare l'autoritarismo e la sensazione che il conformismo e l'obbedienza fossero il miglior bene auspicabile.

Fra i militari che sfruttarono il nazionalismo di Nichiren, spicca la figura del colonnello Kanji Ishiwara (1889-1949), un personaggio di spicco nella storia della guerra. Egli provocò, nel settembre 1931, l'incidente alla ferrovia presso Mukden in Manciuria, che diede l'avvio alla guerra con la Cina e all'invasione dell'Asia. Ishiwara era un sostenitore dell'occupazione dell'Asia e credeva nella necessità di uno scontro armato fra Stati Uniti e Giappone. Egli si basava sull'interpretazione della profezia di Nichiren, secondo il quale ci sarebbe stata una grande guerra che avrebbe messo fine a tutti i conflitti. Inoltre Ishiwara affermava che la guerra avrebbe spianato la strada alla ricostruzione e quindi fosse un processo di civilizzazione, e inoltre avrebbe risolto definitivamente la crisi economica.
Queste idee e interpretazioni di Kanji Ishiwara non erano isolate, ma erano molto diffuse e provenivano da un clima politico estremista e fanatico affermatosi in Giappone. Rinjiro Takayama (1851-1902) proclamò l'adesione incondizionata alla teoria della superiorità della nazione giapponese, e soprattutto si orientò verso una forma di individualismo di ispirazione nietzschiana, imperniato sulla convinzione che l'emozione estatica fosse il fattore più importante nella formazione dell'uomo. Per Takayama il superuomo nietzschiano era incarnato perfettamente da Nichiren. Ancora più esplicito fu Chigaku Tanaka (1861-1939), un esponente del partito nazionalista di destra, che nel periodo Taisho (1912-1926) promosse ciò che egli definì nichirenismo (nichirenshugi). Il nichirenshugi è una dottrina sviluppata come reazione ai movimenti dei lavoratori, e che sosteneva la fedeltà allo stato nazionale (kokutai) con a capo l'imperatore. L'influenza di Chigaku Tanaka fu forte nel periodo Taisho e fu una delle fonti del nazionalismo militante giapponese. La sua ideologia lasciò segni anche in Kakutaro Kubo (1892-1944) fondatore della setta Reiyukai.
Nissho Inoue (1886-1967) fu un altro fervente sostenitore del nichirenismo che interpretava il pensiero di Nichiren in chiave nazionalista e militarista. Nissho Inoue, oltre a sostenere con forza le sue idee come intellettuale e pensatore, divenne anche un attivista politico e leader del Ketsumeidan, un gruppo terroristico di estrema destra che provocò l'assassinio del ministro Junnosuke Inoue.
Anche i monaci si schierarono apertamente con il regime militare. Nell'aprile 1938 un gran numero di monaci eminenti della Nichiren Shu fondarono l'Associazione per la pratica del buddhismo secondo la via imperiale (Kodo bukkyo gyodo kai). A capo dell'associazione vi era il monaco Nichiko Takasa che sosteneva di aver raccolto circa 1800 iscritti. La Kodo bukkyo gyodo kai affermava l'unità divina del sovrano e del Buddha, e la venerazione dell'imperatore. Ciò era in netto contrasto con quanto predicato da Nichiren che affermava la superiorità del buddhismo nei confronti dello shintoismo, e la necessità che le autorità governative si adeguassero all'insegnamento della sua dottrina. Alcuni evidenziarono il contrasto e si verificò una parziale rottura fra laici e monaci che sarebbe divenuta più marcata nel dopoguerra. Infatti in quel periodo i dissidenti furono facilmente emarginati e messi a tacere con l'arresto.

Nella società contemporanea ci sono molte sette religiose e organizzazioni di laici che si ispirano a Nichiren. Quasi sempre sono in conflitto fra loro, come il caso eclatante della Nichiren Shoshu che nel 1991 ha scomunicato i membri della Soka Gakkai. Le lotte e i conflitti fra le diverse scuole che si ispirano a Nichiren dimostrano la difficoltà a interpretare correttamente i suoi insegnamenti. Nichiren predicava l'unità dei fedeli della sua religione, nel rispetto del principio di itaidoshin. Però le varietà di interpretazioni che sono state fornite indicano anche la necessità di una maggiore conoscenza storica delle vicende. Un approfondito studio che distingua una conoscenza approssimativa, o peggio, una completa ignoranza dei fatti, dalla consapevolezza della pratica buddhista. Infatti, il Buddha storico, Shakyamuni, insegnava che l'ignoranza è l'origine di tutti i mali. Riconoscere il problema è già l'inizio del cammino che porterà a risolverlo. Per questo motivo bisogna assolutamente squarciare il velo dell'illusione che ci presenta un buddhismo senza difficoltà, contrasti e contraddizioni. Questa illusione non rispecchia la storia del buddhismo che ha in sé anche molte vicende negative.


Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Lo spirito del Giappone. La filosofia del Sol Levante dalle origini ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 2008.
Filoramo, Giovanni (a cura di), Dizionario delle religioni, Einaudi, Torino, 1993.
Forzani, Giuseppe, I fiori del vuoto. Introduzione alla filosofia giapponese, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.
Henshall, Kenneth, Storia del Giappone, Arnoldo Mondadori, Milano, 2005.
Komatsu, Hosho, Nichiren Shonin zenshu, Shunjusha, Tokyo, 1998.
Yampolsky, Philip, Selected Writings of Nichiren, Columbia University Press, New York, 1990.

Kaijo jieitai

Articolo sulla Marina giapponese pubblicato dal blog Discutiamo del Giappone.

La Marina giapponese oggi
di Cristiano Martorella

La Marina del Sol Levante, chiamata in giapponese Kaijo jieitai (Forza di Autodifesa Marittima), è attualmente la seconda maggiore forza navale, dopo la U.S. Navy, essendo dotata di ben 50 moderne unità navali, 80 aerei da pattugliamento marittimo e più di un centinaio di elicotteri da attacco antisom. Le quattro navi più potenti appartengono alla classe Kongo, armate con 18 missili Standard SM-3, i più avanzati dispositivi antimissili balistici, e dotate dei potenti radar del sistema AEGIS. Accanto a queste navi, si aggiunge la classe Atago, composta da due unità (Atago DDG-177 e Hashigara DDG-178), fornite di armamento similare. Queste navi, collegate con la rete di sorveglianza radar e satellitare, e con le batterie di missili Patriot PAC-3 dislocate sul territorio nazionale, garantiscono la difesa da attacchi missilistici. Sono infatti unità innovative studiate appositamente per la guerra contro i missili balistici. La Marina giapponese dispone anche di una moderna portaerei, la Hyuga DDH-181. Lunga 197 m, larga 33 m e con un dislocamento a pieno carico di 18.000 t, la Hyuga può trasportare 11 elicotteri nel suo hangar. L'armamento è composto da due gruppi di cannoni veloci a canne rotanti CIWS Vulcan-Phalanx, e un lanciatore per 16 missili RIM-162 e VL-ASROC. Il radar, di produzione giapponese, è un multifunzionale phased-array attivo MELCO FCS-3. Altre unità navali importanti sono i caccia delle classi Hatsuyuki, Asagiri, Murasame e Takanami, capaci di una velocità massima di 30 nodi, sono armati con missili antiaerei Sea Sparrow, missili antisom ASROC, missili antinave SSM-1B, cannoni CIWS Vulcan-Phalanx, cannoni Oto Melara da 76/62 mm oppure da 127/54 mm. Le tre navi anfibie della classe Osumi, da 14.000 t a pieno carico, possono trasportare un hovercraft tipo LCAC, e due elicotteri pesanti Chinook CH-47J. La flotta dispone anche di una trentina di dragamine, di cui dodici della classe Hatsushima, dodici della classe Sugashima e due della classe Nijima. Le forze leggere comprendono sei motomissilistiche della classe Hayabusa, capaci di raggiungere la notevole velocità di 44 nodi, e dotate di un pezzo da 76/62 mm e quattro missili antinave SSM-1B. Le navi motomissilistiche sono rafforzate da altri tre aliscafi velocissimi del tipo Sparviero, armati con 4 missili SSM-1B. La potente flotta giapponese comprende anche una considerevole componente subacquea composta da sofisticati sottomarini. La classe Oyashio è composta da 11 sottomarini di 3.500 t in immersione, con sei tubi lanciasiluri da 533 mm, missili antinave UGM-84 Sub-Harpoon, siluri antinave Type 89 e siluri antisom Type 80. L'altra classe Harushio è composta invece da 7 sottomarini di 3.200 t. Alla funzione di scorta ai mercantili che trasportano plutonio per le centrali nucleari giapponesi, è adibita la nave Shikishima che ha un dislocamento di ben 9.500 t, con una lunghezza di 150 m. La Marina giapponese possiede anche una considerevole forza aerea costituita dagli 80 quadrimotori Kawasaki P-3C Orion, armati di missili antinave ASM-2, i cinque aerei da sorveglianza elettronica EP-3, i quattro aerei per le contromisure elettroniche UP-3D, e i sei grossi idrovolanti da ricerca e ricognizione Shinmeiwa US-1A. Inoltre la componente aeronavale è completata da oltre un centinaio di elicotteri che costituiscono i mezzi comunemente utilizzati dalle portaerei e dai caccia. Gli elicotteri sono i Mitsubishi SH-60 J/K, costruiti su licenza americana, che possono usare anche i missili Hellfire a guida laser, gli S-80M-1 Sea Dragon, i Kawasaki MCH-101 e gli EH-101. La Marina giapponese possiede anche una componente terrestre di interdizione, e può operare in collaborazione con l'Esercito (JGSDF) che detiene l'uso di ben 92 complessi mobili di lanciamissili antinave Type-88 con sei missili SSM-1 per ogni autocarro. Le unità speciali sono la SBU (Special Boarding Unit) per antiterrorismo e la MIT (Marittime Interception Team) per l'abbordaggio e l'ispezione di unità sospette.

I dati qui forniti dimostrano la potenza dell'attuale flotta giapponese che può vantare la modernità dei suoi mezzi, l'efficienza e il continuo aggiornamento alle esigenze delle forze armate. Questa potenza ha avuto effettivamente un uso concreto. Nel 1991 partecipò con quattro cacciamine alle operazioni di bonifica delle acque del Golfo Persico. Nel 2000 la nave anfibia Osumi trasportò il contingente di soldati giapponesi a Timor Est per la missione di peace-keeping. Nel 2001 una nave nord-coreana che rifiutò di farsi identificare fu ingaggiata in combattimento, e l'unità ostile fu prontamente affondata. Si trattò del primo episodio di uso delle armi da parte della Marina giapponese dopo la Seconda Guerra mondiale. Dopo l'undici settembre 2001, durante l'operazione Enduring Freedom, la Marina giapponese ha dislocato due caccia e una nave da rifornimento nel Mare Arabico. Nel 2004 la nave anfibia Osumi, scortata dal caccia Murasame (DD-101), ha trasportato in Kuwait il contingente di soldati giapponesi della missione internazionale in Iraq. Durante l'operazione Enduring Freedom, per cinque anni consecutivi, le navi giapponesi hanno garantito il sostegno alle unità alleate con 700 rifornimenti in mare, fornendo il 40% del combustile utilizzato dalle forze internazionali. La missione è stata interrotta dal primo ministro Fukuda Yasuo (1 novembre 2007) a causa dell'opposizione del Parlamento. La nave rifornitrice Tokiwa e il caccia Kirisame fecero quindi ritorno in Giappone.

In conclusione, i fatti e le cifre ci mostrano la potenza dell'attuale Marina giapponese che viene dissimulata dalle esigenze politiche. Nonostante la volontà delle autorità giapponesi ad aumentare la propria forza bellica, lo scontro con i movimenti pacifisti e l'opinione pubblica, sfavorevoli a nuove avventure militari, impedisce un'esposizione esplicita di questo potere. Così, in perfetto stile giapponese, si applica omote e honne, ossia si mostra una facciata, un'apparenza che nasconde i veri sentimenti.

Bibliografia consultata

Massimo Annati, La Marina Giapponese, in "RID Rivista Italiana Difesa", n.10, anno XXVII, ottobre 2008, pp.74-81.

lunedì 16 novembre 2009

La fiaba giapponese

Articolo sulle caratteristiche morfologiche delle fiabe giapponesi pubblicato dalla rivista "LG Argomenti".

Cfr. Cristiano Martorella, Le forme della fiaba giapponese. I generi otogibanashi e mukashibanashi, in "LG Argomenti", n.2, anno XXXVIII, aprile-giugno 2002, pp.51-54.

Le forme della fiaba giapponese
I generi otogibanashi e mukashibanashi
di Cristiano Martorella

I fattori che determinano l’importanza straordinaria della fiaba giapponese sono da rintracciare in una serie di motivi ben evidenti: l’antichità delle storie (antropologicamente significative), la preziosità dello stile letterario (universalmente riconosciuta) e l’originalità culturale (tipicamente caratterizzata). Sono due i generi della fiaba giapponese: il mukashibanashi (racconto del “c’era una volta”) e l’otogibanashi (racconto per diletto). Una conoscenza più dettagliata di questi generi permetterà di comprendere meglio la nascita e lo sviluppo della fiaba giapponese.
Il mukashibanashi è la forma più antica e legata alla tradizione orale e popolare della fiaba giapponese. Le caratteristiche del mukashibanashi sono quelle specifiche della fiaba: la presenza di elementi magici o soprannaturali, la sospensione temporale in un luogo e periodo indefinito, la definizione di archetipi. La parola mukashibanashi è composta da mukashi (antichi tempi) e hanashi (racconto). L’espressione mukashimukashi è traducibile come “c’era una volta”, e indica la caratteristica stessa della fiaba, una sospensione temporale, una estraniazione.
L’importanza del mukashibanashi dal punto di vista antropologico è segnalata da una serie di studi di Ozawa Toshio. Molto sofisticato e approfondito è il saggio La cosmologia della fiaba giapponese (Mukashibanashi no kosumoroji) che ne traccia le origini tramite comparazioni fra fonti diverse e lontane sia temporalmente sia geograficamente. Con il medesimo metodo Ozawa presenta le caratteristiche del mukashibanashi nella sua Introduzione alla fiaba giapponese (Mukashibanashi nyumon). Ozawa Toshio non ha soltanto ripreso e immesso nuova linfa negli studi giapponesi per il racconto popolare già avviati da Yanagita Kunio, ma ha applicato un’analisi con un approccio antropologico e psicologico che ricorda Bruno Bettelheim, unendovi il rigore filologico di Max Lüthi. E le citazioni di questi autori non sono casuali poiché Ozawa ha studiato anche a Marburgo, e la sua formazione non è affatto ristretta all’ambito orientale, ma al contrario nasce dalla frequentazione delle opere dei Grimm a cui ha dedicato vari testi. Non deve sorprendere che l’applicazione di un metodo occidentale permetta di scoprire la specificità giapponese. Il pensiero degli intellettuali europei del XVIII e XIX secolo, a cui tutti siamo debitori, presentava il riconoscimento delle culture “altre” alla luce della ragione imparziale.
Ozawa usa il metodo comparativo per individuare la specificità della fiaba giapponese, le caratteristiche, la genesi e l’autonomia come genere letterario. Ad esempio, distingue due versioni della storia del marito serpe nella leggenda di Miwayama e nella fiaba di Kochi. La storia racconta la vicenda di una ragazza che ha una relazione con un bel ragazzo dalle origini misteriose. I genitori della ragazza, preoccupati, lo pungono con un ago rivelando la sua autentica identità, un dio-serpente. Nella versione di Miwayama c’è la presenza di una ossequiosità, un rispetto nei confronti del dio shintoista serpente. Aspetto che manca del tutto nella fiaba di Kochi che elabora gli aspetti letterari depurati dalle implicazioni religiose. Le varianti di questa fiaba sono numerose, ed esistono versioni di Niigata, Iwate, Nagano, Gifu e Nagasaki. Esiste perfino una fiaba simile in Corea. L’archetipo primitivo è costituito dall’antica venerazione del serpente che diventa piacere della letteratura nella trama della relazione fra la serpe e la ragazza.

Il genere otogibanashi deriva dai racconti popolari brevi detti otogizoshi in voga nel periodo Muromachi (1392-1573) e appartenenti alla tradizione orale. Trovarono una diffusione a stampa negli anni tra il 1716 e il 1735, quando Shibukawa Seiemon ne pubblicò una raccolta intitolata Otogi bunko. La parola otogibanashi è composta da hanashi (racconto) e otogi (tenere compagnia). Questi “racconti per diletto” si adattavano bene alle funzioni delle fiabe e divennero uno dei generi più versatili della narrativa per l’infanzia. Fra gli otogibanashi più popolari ricordiamo Issunboshi, giustamente definito come il Pollicino giapponese. Issunboshi significa letteralmente “bonzo d’un pollice”, ed è il nome del minuscolo bambino nato a una anziana coppia. Nonostante mangi tanto, Issunboshi non cresce più di tre centimetri d’altezza. Rattristato decide di lasciare casa e parte per la capitale. Arrivato a un grande palazzo, cerca di attirare le attenzioni di un servitore che rimane meravigliato di vedere un ragazzo tanto minuto. Egli lo porta dalla principessa che lo prende in simpatia e lo tiene a palazzo per compagnia. Un giorno, durante un viaggio, la principessa viene aggredita da un bandito. Issunboshi lo attacca con uno spillo, ma il bandito lo deride e lo inghiotte. Issunboshi non si perde d’animo e trafigge lo stomaco del ladro, poi sale per la gola ed esce dal naso. Il bandito fugge spaventato. La principessa trova un amuleto magico perso dal ladro. Issunboshi può esprimere il suo desiderio e diventa più alto. Raggiunta la statura normale, egli è ora un bel giovane e sposa la principessa.
Altra fiaba celebre è quella di Urashima Taro, il pescatore che salva la tartaruga. La creatura marina si trasforma in una principessa che per ringraziarlo lo trasporta nel suo regno negli abissi. Egli trascorre felicemente diversi giorni nel palazzo incantato, ma provando nostalgia implora di ritornare a casa. La principessa gli dona uno scrigno (tamatebako) chiedendogli di non aprirlo. Urashima Taro fa ritorno al suo villaggio, ma non trova né amici né parenti. Rassegnato apre lo scrigno e improvvisamente diventa vecchio. Il tempo trascorso negli abissi equivaleva a numerosi anni che erano stati racchiusi nello scrigno.

La tipologia della fiaba giapponese presenta diverse matrici, una delle quali è costituita dal “bambino straordinario”. A questo modello si ricollega quello della nascita meravigliosa come nel caso di Kaguya nata da un bambù, Momotaro da un frutto di pesca, Urikohimeko da un melone, etc. Nel caso del bambino, egli rivela presto una forza straordinaria, così come nelle fiabe di Kintaro e di Momotaro, e la capacità di realizzare straordinarie imprese come, ad esempio, sconfiggere gli orchi.
Questa idea che i bambini possano compiere ciò che è impossibile per gli adulti si è conservata nella mentalità giapponese tanto da essere rimasta intatta e rispecchiata negli anime. Nelle più recenti produzioni di cartoons, possiamo individuare adolescenti che guidano robot ed hanno la responsabilità di salvare il mondo (si veda Neon Genesis Evangelion). Il passaggio dal mukashibanashi all’anime è naturale ed è consentito dall’esistenza di questa matrice a livello simbolico e inconscio, il livello più profondo e duraturo. Purtroppo l’ignoranza della cultura e della storia giapponese è causa continua di fraintendimenti. Per fortuna le pubblicazioni e le ricerche, almeno in lingua giapponese, sono abbondanti così da supplire a una corretta indagine. In questo senso i lavori di studiosi come Yanagita Kunio e Ozawa Toshio si rivelano estremamente utili sia per la ricchezza della documentazione sia per lo sforzo teorico.

Bibliografia

Yanagita, Kunio, Nihon no mukashibanashi, Shinchosha, Tokyo,1983.
Yanagita, Kunio, Kodomo fudoki, Iwanami Shoten, Tokyo, 1976.
Ozawa, Toshio, Mukashibanashi no kosumoroji, Kodansha, Tokyo, 1994.
Ozawa, Toshio, Mukashibanashi nyumon, Gyosei, Tokyo,1997.
Ozawa, Toshio, Fiabe giapponesi, Arnoldo Mondadori, Milano,1992.
Orsi, Maria Teresa, Fiabe giapponesi, Einaudi, Tornino, 1998.
Pellitteri, Marco, Mazinga Nostalgia, Castelvecchi, Roma, 1999.
Tyler, Royall, Demoni e mostri del Giappone, Arcana, Milano, 1988.
Kato, Shuichi, Storia della letteratura giapponese, Marsilio, Venezia, 1989.
Bettelheim, Bruno, Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano, 1984.




Articolo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Le forme della fiaba giapponese. I generi otogibanashi e mukashibanashi, in "LG Argomenti", n.2, anno XXXVIII, aprile-giugno 2002, pp.51-54.

Momotaro, il ragazzo pesca

Articolo sulla fiaba di Momotaro pubblicato dal sito Nipponico.com.

Momotaro, il figlio della pesca
Cosa c'è dentro un frutto: i risvolti sociali di una fiaba
di Cristiano Martorella

8 dicembre 2004. La fiaba di Momotaro è fra quelle più note, sicuramente perché viene accostata alle feste tradizionali per i bambini (1). Eppure la storia del bambino nato da una pesca nasconde risvolti inaspettati per una semplice fiaba come vedremo più avanti. Ma procediamo con calma.
Fra i libri illustrati dedicati alla fiaba di Momotaro merita una menzione particolare quello di Matsui Tadashi con disegni di Akaba Suekichi (2). Per la diffusione è forse il più noto, e anche fra i più belli per le splendide tavole dipinte da Akaba Suekichi.
Passiamo però a un riassunto della fiaba così come viene narrata generalmente. Una coppia di anziani molto poveri è tormentata dalla mancanza di prole. Desiderano tanto un figlio, ma non possono averlo. Una bella mattina d'estate, la donna decide di lavare i panni al ruscello e assiste a un fenomeno straordinario. Una grossa pesca galleggia fra i flutti, e nonostante i mulinelli e la forza della corrente non affonda. Fortunatamente la pesca si avvicina a lei che può raccoglierla. Felice la porta a casa e la mostra al marito. Sembra davvero succulenta. Con un coltello ne tagliano una fetta, e allora accade un imprevisto. Dalla pesca esce un bambino arzillo e vivace di un bel colorito roseo. I due vecchietti rimangono a lungo in silenzio e immobili mentre una speranza cresce nel loro cuore. Quel bambino è un dono del cielo. Lo chiamano Momotaro dal nome del frutto della pesca che in giapponese si dice momo. Nella nuova famiglia il bambino cresce robusto e forte, divenendo presto un ragazzo capace di mirabili imprese. Un giorno un corvo arriva alla casa di Momotaro e lo supplica di soccorrere un villaggio che è stato assediato dagli orchi. Gli orchi abitano su un'isola (3) e impongono la loro legge di ingiustizia, malvagità e violenza che fa soccombere il più debole e prevalere il prepotente. Momotaro è affascinato dall'impresa gloriosa che si prospetta. Sconfiggere gli orchi in battaglia. Espone la situazione ai genitori adottivi spiegando l'intenzione di recarsi nell'isola degli orchi per sbaragliarli. Il vecchio e la vecchia invece di dissuaderlo lo sostengono nella sua impresa e gli preparano qualcosa di utile per il viaggio. Gli forniscono così una spada (katana), i pantaloni da samurai (hakama), una bandiera col suo nome, e le polpette di miglio (kibidango). Si salutano augurandosi il successo della spedizione e incomincia il viaggio straordinario. Dopo un poco Momotaro incontra un cane che si offre di servirlo fedelmente. Allora gli offre una polpetta di miglio e riprende il cammino. Sulla strada si fa avanti una scimmia che presenta i suoi servigi. Anche alla scimmia offre una polpetta e riprendono il cammino. Infine si avvicina un fagiano che chiede di unirsi alla compagnia. Una polpetta di miglio anche al fagiano e si riprende il cammino. Le forze di Momotaro sono ora costituite da un bel contingente. La compagnia si imbarca su una veloce giunca e attraversato il mare raggiunge l'isola degli orchi. Quella è un'isola orribile che fa paura solo a vederla. Il colore plumbeo, l'atmosfera triste, tutto raggela il cuore. Sbarcano sulla riva e scorgono la fortezza degli orchi. Un alto steccato rinforzato con sbarre di ferro e un muro fornito di aguzzi chiodi. Il cane si apre una breccia mordendo i pali di sostegno mentre la scimmia si arrampica sul muro, e il fagiano si posa sulla torre. Lo stridulo del verso del fagiano attira gli orchi che sono ancora assonnati. Essi cadono in trappola e vengono assaliti da Momotaro con la spada, il cane con i morsi alla gola, e il fagiano con le beccate negli occhi. Così si compie la strage. Momotaro ispeziona il rifugio e ritrova i tesori scomparsi, pietre preziose, vestiti pregiati, oggetti magici. Col bottino fa ritorno a casa e viene accolto festante dai genitori. Momotaro diviene un nobile signore e i tre animali rimangono i suoi amici più fedeli.
Sicuramente la fiaba di Momotaro rispecchia i valori dell'ambiente in cui è nata ed è stata tramandata ossia la classe dei guerrieri (bushi). Momotaro è il modello perfetto del samurai glorioso e impavido alla ricerca di magnifiche imprese. L'aspetto positivo della fiaba di Momotaro è quello ripreso in maniera identica dagli anime, dove un personaggio straordinario si schiera a difesa dei più deboli affrontando i mostri di turno. Non è importante l'aspetto del protagonista che può essere Momotaro il figlio della pesca, il samurai senza padrone, Ken il guerriero oppure il robot Mazinga Z. La storia è sempre la stessa. Arrivano i mostri malvagi che opprimono i deboli e gli indifesi, e contro gli oppressori si scaglia con coraggio incredibile un eroe. Dal punto di vista pedagogico la fiaba di Momotaro è uno stimolo per i bambini ad affrontare le difficoltà della vita. Però c'è anche un aspetto negativo ed è la strumentalizzazione della fiaba da parte dei militari. Una conoscenza non parziale della storia giapponese non può farci dimenticare i fatti. Dal 1936 al 1945 il Giappone fu una democrazia con una sovranità del popolo molto limitata, dove i governi che si susseguivano erano composti soprattutto da generali dell'esercito. Anche se non esisteva la dittatura del partito unico, i diritti civili erano gravemente compromessi anche con il pretesto dell'impegno bellico. In questo clima di oppressione anche le fiabe cadevano nelle grinfie della propaganda militarista. Tezuka Osamu ci ricorda la realizzazione di un anime intitolato Momotaro, il soldato divino del mare (Momotaro, umi no shinpei, 1945) nel periodo bellico (4). Questa è la prova evidente di come la propaganda militare si fosse impossessata della fiaba. Per fortuna la fiaba di Momotaro può essere usata anche nel verso opposto, ossia contro il militarismo. Fu ciò che fece Akutagawa Ryunosuke. Egli riscrisse la fiaba di Momotaro con sarcasmo e ironia, in evidente polemica col militarismo giapponese (5). Il racconto per bambini (dowa) di Akutagawa sfuggì alla censura perché le autorità non compresero l'oggetto dello scherno dell'autore. Come al solito la censura e il dispotismo sono estremamente stupidi. Così Akutagawa capovolse in senso antimilitarista la storia di Momotaro. Gli orchi sono oppressi da un Momotaro intransigente, ambizioso e senza scrupoli. Un ritratto implacabile della casta militare.
Bisogna rimarcare l'importanza del valore educativo delle fiabe che non sono mai prive di un collegamento con la realtà vissuta (Lebenswelt), così come ci insegnano i migliori pedagogisti. Non bisogna però confondere ciò con il becero moralismo oppure con l'indottrinamento. Recentemente, invece, si sta tentando di affermare l'indipendenza della letteratura dai valori sociali a favore di una implicita esaltazione dell'uso commerciale dei libri. Addirittura si può arrivare a sostenere l'inutilità della funzione didattica della letteratura. Lo ha fatto Maria Elena Tisi affermando che gli scritti per l'infanzia non necessitano più di un messaggio educativo alle spalle (6). Sono parole gravi che escludono il lavoro di importanti critici letterari e pedagogisti come Lino Gosio, Angelo Nobile, Giorgio Bini, i quali da tempo stanno discutendo circa la questione del rapporto fra educazione e letteratura. Sull'argomento è intervenuto anche chi scrive riferendosi appunto ai valori pedagogici della letteratura giovanile giapponese contemporanea (7).
La narrativa rispecchia sempre un mondo che è anche e soprattutto un mondo di valori. Ignorarlo significa mistificare e alterare il senso delle opere che vengono private del loro contesto. Affermare che si legge per puro divertimento equivale a negare l'importanza della conoscenza che è costituita dallo stabilire relazioni. Il piacere è un effetto secondario, non è lo scopo della lettura. Altrimenti dovremmo porre altre attività prima della lettura, sicuramente più piacevoli. Questa confusione è provocata dalle esigenze commerciali che tramutano i libri in oggetti di godimento, escludendo la riflessione e la critica. Questo può avvenire anche con la fiaba di Momotaro. Per fortuna, come hanno dimostrato tanti scrittori, il pensiero critico è più forte della propaganda. Oggi la propaganda sostiene l'uso consumistico della letteratura, ma anche la propaganda di questi nuovi orchi è destinata a essere sconfitta (8).

Note

1. In Giappone si celebrano diverse giornate particolari per i bambini. Il 3 marzo è Hina matsuri, festa delle bambole e anche festa della pesca (momo no sekku), giorno in cui si festeggiano le bambine. Il 5 maggio è la festa dei bambini (tango no sekku) o giorno dei bambini (kodomo no hi). Il 15 novembre è invece Shichigosan, giorno in cui si festeggiano i bambini di 5 anni d'età e le bambine di 3 e 7 anni.
2. Cfr. Matsui, Tadashi, Momotaro, Fukuinkan, Tokyo, 1965. Il volume fa parte di una collana dedicata ai bambini ed è reperibile in qualsiasi biblioteca giapponese nella sezione dedicata all'infanzia. Qualche copia esiste anche nei fondi delle biblioteche italiane per ragazzi fra i libri stranieri ottenuti tramite donazioni.
3. Il tema dell'isola degli orchi (Onigashima) è stato ripreso nella popolare serie di disegni animati di Ken il guerriero. Cfr. Hokuto no ken, Toei Doga, Tokyo, 1987-1988 (seconda serie).
4. Cfr. Tezuka, Osamu, Osamu Tezuka. Una biografia manga, Vol. 1, Coconino Press, Bologna, 2000, pp. 175-176.
5. Cfr. Momotaro, in Akutagawa, Ryunosuke, Racconti fantastici, Marsilio, Venezia, 1995. Il racconto Momotaro è uno dei dowa inclusi in questo volume. Gli altri sono Il tabacco e il diavolo, Il tasso, Il filo del ragno, I cani e il flauto, Magia, Il sennin.
6. Cfr. Tisi, Maria Elena, Le letture preferite dai bambini delle scuole elementari, Il Giappone che cambia. Atti del XXVII convegno di studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana, Venezia, 2004, p. 404.
7. Cfr. Martorella, Cristiano, Dokusho. La lettura fra scienza e tecnologia, in "LG Argomenti", anno XL, n. 1, gennaio-marzo 2004, pp. 20-23.
8. Bisogna ricordare e ribadire che sulla questione della morale perduta della letteratura giovanile è intervenuto in maniera netta e precisa Lino Gosio. Cfr. Gosio, Lino, La morale perduta della letteratura giovanile, in "LG Argomenti", anno XXXVIII, n. 1, gennaio-marzo 2002.

Bibliografia

Martorella, Cristiano, Introduzione alla letteratura giapponese per l'infanzia, in "LG Argomenti", anno XXXVII, n. 3, luglio-settembre 2001.
Martorella, Cristiano, Le forme della fiaba giapponese. I generi otogibanashi e mukashibanashi, in "LG Argomenti", n. 2, anno XXXVIII, aprile-giugno 2002.
Martorella, Cristiano, A scuola con i Pokémon, in "Bambini", anno XVII, n. 9, novembre 2001.
Matsui, Tadashi, Momotaro, Fukuinkan, Tokyo, 1965.
McAlpine, Helen e William, Giappone. Racconti e leggende, Editrice Janus, Bergamo, 1974.
Orsi, Maria Teresa, Fiabe giapponesi, Einaudi, Torino, 1998.
Ozawa,Toshio, Mukashibanashi no kosumorojii, Kodansha, Tokyo 1994.
Ozawa, Toshio, Mukashibanashi nyumon, Gyosei, Tokyo, 1997.
Ozawa, Toshio, Fiabe giapponesi, Arnoldo Mondadori, Milano, 1992.

Il feticismo di Tanizaki

Articolo sul feticismo dello scrittore Tanizaki Jun'ichiro pubblicato dal sito Nipponico.com.

Il feticismo dei piedi
L'eros alla maniera del maestro Tanizaki Jun'ichiro
di Cristiano Martorella

8 novembre 2004. Tanizaki Jun'ichiro (1886-1965) è fra i romanzieri giapponesi più celebri e significativi del Novecento e gran parte della sua fama è merito anche del suo sofisticato erotismo. Certamente è stata l'opera di Tanizaki ad aver introdotto in Italia e aver fatto conoscere l'eros giapponese con la sua estetica, i rituali e le perversioni codificate da una cultura ricchissima.
Fra le passioni dominanti di Tanizaki spicca il suo feticismo per i piedi femminili, tanto che essi sono diventati addirittura protagonisti dei romanzi, come nel caso di I piedi di Fumiko (Fumiko no ashi, 1919, traduzione italiana Marsilio, 1995). Prima di passare ad analizzare l'opera del maestro Tanizaki, conviene ricordare cosa sia e cosa rappresenti in generale il feticismo dei piedi.
Col termine feticismo (dal francese fétichisme, a sua volta derivato dalla parola portoghese feitiço) si indica un interesse e una attrazione erotica per una parte anatomica o un oggetto. Il feticismo non è soltanto una patologia sessuale, al contrario di quanto pensano in molti. Infatti Sigmund Freud, in Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), spiega che un certo grado di feticismo è di regola proprio dell'amore normale, in special modo in quegli stadi di innamoramento nei quali la meta sessuale normale appare irraggiungibile, oppure sembra negato il suo adempimento. Il caso patologico subentra soltanto quando il feticcio diventa unico oggetto sessuale e impedisce un rapporto sessuale completo. A parte questi evidenti disturbi sessuali, il feticismo è comunque presente nella sfera erotica. Secondo alcuni sessuologi il feticcio più frequente, ed innocuo, è costituito dai piedi. Stranamente è anche la forma di feticismo meno ammessa e discussa, quasi negata rispetto al feticismo del seno. Ciò avviene nella cultura occidentale, per fortuna non è così fra le altre civiltà.
In Giappone il feticismo dei piedi è stato perfino elevato alla dignità accademica dalla letteratura del romanziere Tanizaki Jun'ichiro. Fra le opere più note, Il diario di un vecchio pazzo (Futen rojin nikki, 1962, traduzione italiana Bompiani, 1965) è anche quella dove la passione per i piedi arriva all'estremo, tanto che il protagonista Tokusuke farà incidere l'impronta dei piedi dell'amata sulla sua tomba. Con la scusa di riprodurre un Bussokuseki (impronte di Buddha), egli stesso farà una litografia dei piedi della giovane Satsuko usando inchiostro rosso. L'operazione con la verniciatura, la manipolazione, l'asciugatura dei piedi, costituisce un'occasione per avvicinare l'oggetto desiderato. La passione assume anche toni sadomasochistici quando il vecchio fa le sue considerazioni su Satsuko.

"Poi, quando sarò morto, non potrà non pensare: Quello stupido vecchio dorme sotto questi piedi bellissimi. Sto ancora calpestando le ossa di quel povero vecchio sotto terra." (1)

Un approccio diverso, più vitale e fantasioso, è presentato con I piedi di Fumiko, il primo romanzo in cui il feticismo dei piedi è esplicito e dichiarato. Lo stesso nome della protagonista, Fumiko, chiamata anche Ofumi, richiama per omofonia il verbo fumu (calpestare). La descrizione dei piedi è minuziosa, e la cura del dettaglio fin troppo maniacale.

"A dire il vero, ero pure io in estasi per la bellezza della linea dei piedi nudi di Ofumi. Le gambe snelle e tornite come legno levigato con cura, si assottigliavano progressivamente fino alla caviglia da dove aveva inizio, con una leggera curva, il tenero collo del piede. All'estremità si stendevano ben allineate le cinque dita, che partendo dal mignolo si allungavano gradualmente verso la punta dell'alluce: ciò mi pareva molto più bello delle fattezze del suo viso. Lineamenti come i suoi si trovano anche in altre donne, ma non avevo mai visto, fino ad allora, piedi così regolari e splendidi. Quando hanno il collo piatto in modo sgradevole e le dita divaricate che lasciano intravedere le fessure, provocano la stessa spiacevole sensazione di un brutto viso. Al contrario, il collo del suo piede era ben in carne e le cinque dita ben accostate come la lettera m e allineate in ordine come una fila di denti." (2)

Lo scrittore raggiunge la sua massima abilità nell'esaltazione della sensualità ed espressività dei piedi.

"Dato che il piede era inarcato, si vedevano bene anche le pieghe della soffice carne della pianta. Visti da sotto, i polpastrelli tondi e carnosi delle cinque dita rannicchiate erano ben allineati, quasi muscoli di una conchiglia messi uno accanto all'altro. Se non fosse stato per l'illimitata flessibilità delle articolazioni, frutto di nozioni pratiche di danza, il piede non avrebbe mai potuto curvarsi in modo tanto sensuale. L'atteggiamento era provocante come quello di una donna voluttuosa che danzi ondeggiando." (3)

L'amore che Tanizaki nutriva per i piedi delle donne era sincero, e ciò traspare nelle pagine dei suoi romanzi. Questa sincerità è a tratti commovente e ci fa quasi dimenticare che il feticismo dei piedi è ancora considerato una perversione. Si tratta di un tabù ingiusto che ci priva di una risorsa dell'immaginazione, una qualità mostrata dal grande scrittore giapponese in tutto il suo rigoglioso splendore.

Note

1. Cfr. Tanizaki, Jun'ichiro, Diario di un vecchio pazzo, Bompiani, Milano (seconda edizione dei tascabili Bompiani), 1988, p. 168.
2. Cfr. Tanizaki, Jun'ichiro, I piedi di Fumiko, Marsilio, Venezia, 1995, p. 29.
3. Ibidem, pp. 30-31.

Bibliografia

Borneman, Ernest, Il dizionario dell'erotismo. Fisiologia, psicologia, pratiche, patologia, storia dell'amore e del sesso, Rizzoli, Milano, 1988.
Freud, Sigmund, Sessualità e vita amorosa, Newton Compton, Roma, 1989.
Tanizaki, Jun'ichiro, I piedi di Fumiko, Marsilio, Venezia, 1995.
Tanizaki, Jun'ichiro, Diario di un vecchio pazzo, Bompiani, Milano, 1965.