venerdì 30 ottobre 2009

La pedagogia buddhista

Articolo sulla pedagogia buddhista pubblicato dalla rivista "LG Argomenti".

Cfr. Cristiano Martorella, Letteratura e pedagogia buddhista, in "LG Argomenti", n.4, anno XXXIX, ottobre-dicembre 2003, pp.63-65.


Letteratura e pedagogia buddhista
La posizione giapponese sulla questione della lettura
di Cristiano Martorella

La questione del valore pedagogico della lettura è tornata prepotentemente alla ribalta grazie ai numerosi contributi critici di Lino Gosio e Giorgio Bini che hanno sollevato importanti dubbi sull’atteggiamento della critica letteraria contemporanea. Si può riassumere il dibattito ricordando come sia stata messa in evidenza l’esistenza di due scuole di pensiero. La prima è quella edonistica e libertaria che afferma il valore della lettura come puro intrattenimento piacevole. La seconda, invece, contesta la possibilità di escludere i valori pedagogici della lettura. Quest’ultima potrebbe chiamarsi scuola pedagogica critica, considerando il carattere contestatario e riflessivo. A queste due scuole vogliamo aggiungerne una terza, quella giapponese della pedagogia buddhista, chiamata col nome di scuola creativa dei valori (soka kyoikugaku).
Il dibattito si è fatto particolarmente intense perché è emerso quanto sia limitata la prospettiva della scuola edonista che si poggia sui luoghi comuni della nostra epoca. Ed è pure smentita dal calo dei lettori che trovano ancora troppo faticoso leggere nonostante le proposte sempre più appetibili. Un autentico schiaffo alla critica letteraria sensualistica che presenta una mera tautologia affermando che si legge per il piacere della lettura. Soprattutto ci mette nel rischio dell’anomia quando esegue il passaggio non consequenziale che propone di eliminare la morale e la pedagogia per migliorare la letteratura. Sarebbe bastato ricordare l’opera di Oscar Wilde per riconoscere quanto sia pedagogica la posizione antimoralista di chi critica la morale, evidenziando che una simile contrapposizione fra pedagogia e letteratura è irrealistica. Perfino chi critica la morale fa pedagogia, e Oscar Wilde ne era consapevole. Tanto da essere stato un raffinato autore di racconti per bambini (Il principe felice, 1888; La casa dei melograni, 1891). Se poi volessimo scomodare il caustico Friedrich Nietzsche vedremmo quanto è ridicolo sostenere un piacere della lettura slegato dalle conseguenze morali. Lo spirito dionisiaco afferma appunto il valore di una morale che nega qualunque principio trascendente in favore dei valori mondani e del riconoscimento del carattere caotico e tragico dell’esistenza. La trasvalutazione è atto morale per eccellenza. Ignorare la questione significa essere ipocriti oppure ignoranti. Questi due mali sociali, ipocrisia e ignoranza, hanno portato Oscar Wilde in prigione e Friedrich Nietzsche in manicomio. Simili conseguenze del pensiero divergente non sono trascurabili.
La posizione giapponese della scuola creativa dei valori (soka kyoikugaku) propone di eliminare il dualismo fra felicità e conoscenza, e così fra piacere e dovere. Nel fare ciò non si opta per l’una o l’altra cosa, piuttosto si fondono. Un individuo consapevole e libero è capace di agire moralmente senza avvertire le regole come un ostacolo oppure un peso. Addirittura, la migliore morale non è quella che stabilisce un elenco di regole, ma insegna a percepire tramite il sentimento ciò che ci fa stare bene. Lo sforzo della pedagogia di Makiguchi Tsunesaburo di conciliare felicità individuale e sviluppo sociale comincia dal riconoscimento della necessità dello spirito critico.

"È molto diffusa la tendenza ad accettare ciecamente le opinioni di una qualche autorità, anche per quel che riguarda le questioni essenziali della nostra esistenza. Così accade che, nonostante le nostre evidenti capacità in altri contesti, quando ci confrontiamo con qualcosa che non comprendiamo, o che è difficile da interpretare, non proviamo neppure a riflettere, e accettiamo passivamente il punto di vista dei nostri superiori o di chi si mostra esperto. Peggio ancora: alcuni si affidano, per le più importanti decisioni, ai chiromanti, all’astrologia, all’I Ching o cose simili. Esiste invece, dall’altro estremo, la tendenza a sorvolare sulle cose semplici e di routine, di fronte alle quali si agisce intuitivamente piuttosto che sulla base di un’analisi ragionata. Di solito riusciamo a cavarcela, ma non possiamo, alla lunga, evitare le conseguenze degli errori che continuiamo a ripetere." [Makiguchi, Tsunesaburo, L’educazione creativa, La Nuova Italia, Firenze, 2001, pp.27-28]

Makiguchi affronta anche un altro punto d’attualità scottante. Si è spesso invocata la specializzazione per giustificare la separazione delle diverse discipline. Così si è sostenuto di dover liberare la letteratura per l’infanzia dalla pedagogia. Viceversa la pedagogia ignora le osservazioni e le obiezioni dei critici letterari (si pensi alla diatriba sugli apparati didattici nei libri). Questa segregazione e parcellizzazione del sapere è estremamente dannosa.

"L’educazione è un settore estremamente complesso, la sua sistematizzazione razionale e scientifica un’impresa enorme. Sperare che la limitata esperienza e le idee creative di individui isolati possano portarla a termine è del tutto illusorio. Questo sarà possibile soltanto con la collaborazione di esperti di diverse discipline capaci di concordare gli obiettivi fondamentali dell’educazione e successivamente indirizzare i contributi di varia provenienza verso tali obiettivi." [Ibidem, p.116]

Ma il problema il problema essenziale toccato da Makiguchi è lo stesso della nostra società globalizzata che costringe a una individualità predefinita in rigidi schemi relazionali. L’omologazione è assicurata proprio dal diritto di essere tutti diversi dentro le regole di un sistema democratico che non garantisce alcunché. Le relazioni umane non vengono mai considerate in concreto e nelle loro conseguenze reali.

"La risposta pura e semplice è che, per quanto la si voglia esaltare, l’individualità si sviluppa solo entro i confini dell’umanità, vale a dire accettando ed essendo coscienti di appartenere alla comunità umana. Sulla base di questa premessa, la ricerca della propria individualità è una ricerca comune a tutta l’umanità, mentre il solo perseguire la differenza fra sé e gli altri sfocia nel solipsismo di tipo autistico, un segnale di totale inaccessibilità all’altro che in questo contesto non ci riguarda né ci interessa. Questa forma di individualismo non può essere oggetto di un serio dibattito sull’educazione." [Ibidem, p.152]

Questo errore che porta inequivocabilmente al solipsismo è lo stesso in cui sono caduti i critici letterari italiani che hanno sposato la causa della liberazione dalla pedagogia in modo frettoloso e superficiale. L’inse gnamento del buddhismo è il riconoscimento della relazione fra tutte le cose. Se qualcuno vuole tentare di segregare, limitare e privare la conoscenza andrà sicuramente incontro al fallimento. La lettura non è soltanto un piacere, è innanzitutto capacità di stabilire relazioni.



Articolo di Cristiano Martorella pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Letteratura e pedagogia buddhista, in "LG Argomenti", n.4, anno XXXIX, ottobre-dicembre 2003, pp.63-65.

sabato 24 ottobre 2009

Otaku pazzi

Articolo sugli otaku pubblicato dal sito Nipponico.com.

Otakkuru
Pazzi per i fumetti
di Cristiano Martorella

3 marzo 2005. Otakkuru è un neologismo giapponese coniato unendo la parola otaku e il verbo kuruu. Un'altra forma di otakkuru è anche otakuru, a volte usato perfino come verbo, inoltre c'è l'espressione otakuppoi, usato come aggettivo, tutte con valenze simili. Otaku è l'appassionato in maniera un po' fissata di qualcosa, specialmente inerente a manga e anime, mentre kuruu è il verbo impazzire. Quindi otakkuru significherebbe otaku pazzo, indicando quei rari casi patologici di fissazione e perdita di distinzione fra la fiction e la realtà. L'espressione nasce dalla necessità di distinguere l'otaku innocuo dall'otaku malato. Infatti la parola otaku, inizialmente usata soltanto con senso negativo e dispregiativo, ha assunto anche in Giappone un significato positivo. Per merito di artisti come Nara Yoshitomo o Murakami Takashi si è introdotto anche il concetto di cultura otaku per definire le nuove tendenze dell'arte contemporanea giapponese.
Una breve ricostruzione storica è indubbiamente utile prima di qualsiasi considerazione critica. Il termine otaku significa genericamente fissato, utilizzando la parola casa (taku) per indicare chi si chiudeva in camera per dedicarsi fanaticamente a un hobby (collezionismo, modellismo, cinema, fumetto, etc.). Poi la parola otaku fu usata per indicare particolarmente gli appassionati di fumetto e animazione. Questo utilizzo del termine fu merito del giornalista Nakamori Akio che nel 1983 pubblicò con successo un articolo intitolato Otaku no kenkyu (Studio dell'otaku) nella rivista "Manga Burikko", concentrando l'attenzione sulla figura dell'otaku. Così si ebbe una grande diffusione della parola finché un episodio di cronaca nera determinò una nuova e più negativa visione dell'otaku considerandolo un maniaco. Nel 1989 Miyazaki Tsutomu seviziò e uccise orribilmente quattro bambine. La polizia ritrovò nell'appartamento del maniaco un immenso deposito di videocassette pornografiche. Soprattutto ciò che impressionò gli investigatori fu il comportamento psicotico di Miyazaki Tsutomu che filmando gli omicidi con una videocamera ricostruì nel montaggio i film che collezionava. Egli non era in grado di distinguere la realtà dalla fiction. I giornali misero in evidenza la frequentazione del Comiket (o Komiketto, contrazione di Comics Market), il più importante raduno di otaku, da parte di Miyazaki Tsutomu, e lo identificarono così con la figura dell'otaku. Le esagerazioni della stampa scandalistica portarono a considerare tutti gli otaku come maniaci potenzialmente pericolosi. Così manga e anime, da sempre abbondanti di contenuti erotici, furono messi sotto accusa. In particolare i generi bishojo ed hentai, apparentemente riconducibili alle peggiori perversioni sessuali, e i dojinshi, fumetti amatoriali e parodie a sfondo erotico. Col tempo queste associazioni fra otaku e maniaci si rivelarono indebite e infondate. Era evidente che i criminali non avevano bisogno di ispirarsi a manga e anime per commettere i loro misfatti. D'altronde i casi di otaku coinvolti in crimini erano statisticamente irrilevanti, tanto da escludere una diretta correlazione di manga e anime con i comportamenti criminali. Eppure l'idea dell'otaku maniaco è ancora resistente al passare del tempo, nonostante ciò il significato della parola otaku ha assunto anche in Giappone delle valenze positive.
Murakami Takashi è stato l'artista che maggiormente ha difeso gli otaku appassionati di fumetto e animazione (1). Egli obiettò che il disprezzo per le forme popolari delle espressioni artistiche degli otaku mostrava platealmente il rifiuto e l'incomprensione ipocrita e perbenista. Egli fece propri gli eccessi di quelle forme d'arte e coniò il termine poku unendo le parole pop e otaku, e quindi inventò la poku culture. Fra le opere di Murakami Takashi, ricordiamo Hiropon che rappresenta la figura più vicina all'hentai. Hiropon è l'immagine di una ragazza in stile manga con due immensi seni che spruzzano latte.
Intanto il fenomeno otaku non poteva più dirsi limitato all'arcipelago nipponico. Già nel 1996 gli otaku erano definiti multietnici e presenti a livello mondiale (2) in un articolo della rivista "Sushi", fra i primi esempi italiani di fanzine per otaku. Però il successo internazionale di anime e manga trascinava con sé le stesse problematiche nate in Giappone alcuni anni prima. Si è addirittura coniato il termine Wapanese (Western Japanese) per indicare gli occidentali appassionati di tutto ciò che è giapponese, dallo stile di vita all'arte, dal cinema alla musica, dalle arti marziali ai cartoni animati. Ovviamente questi aspetti assolutamente innocui furono interpretati da molti, forse troppi, con inquietudine e sospetto. Si tentò allora di operare una differenziazione fra otaku italiani e otaku giapponesi tramite distinzioni che però erano difficilmente sostenibili considerando la sostanziale identità del fenomeno. Il termine otaku restava ambiguo e il significato dipendeva esclusivamente dall'uso che ne faceva chi lo utilizzava.
Nel 2000 Michele Scozzai pubblicava su "Focus", rivista di divulgazione scientifica, un intervento che rispolverava i vecchi stereotipi sugli otaku, concentrandosi sui contenuti erotici di manga e anime, sul presunto isolamento dei consumatori di questi prodotti, e sul pericolo potenziale delle tribù metropolitane di otaku. In effetti l'espressione otakuzoku (tribù otaku) fu molto diffusa proprio in Giappone per caratterizzare ulteriormente gli otaku. L'idea di tribù ricorda forme comunitarie arcaiche fondate su sentimenti condivisi e forti legami emotivi. La rappresentazione, anche se volutamente sprezzante, è indicativa dei caratteri autentici degli otaku. Gli otaku traggono spunto dalla cultura tradizionale giapponese, mutuandone forme e aspetti, e recuperando una sensibilità primordiale offuscata dalla modernità del modello americano.
L'otaku mostro, chiamato otakkuru o otakuru, sembra invece la rappresentazione deformata di una irrazionalità incomprensibile e deviante. La nascita e l'uso del termine otakkuru sembra però essere dettata più da motivi comici e ironici, piuttosto che da intenti di seriosa condanna. Infatti Nagai Go ha fatto ampio uso della parola otakkuru, in un episodio del manga Cutie Honey (3) per indicare un folle dinamitardo pazzamente innamorato della sua eroina televisiva preferita. L'episodio si conclude con l'intervento vittorioso di Cutie Honey, la più coraggiosa kawaikochan dei fumetti giapponesi.
Dobbiamo credere che saranno gli stessi anime e manga a salvarci dalla follia degli otaku? Con un po' di ironia la risposta è affermativa. L'otakkuru è uno spauracchio, una minaccia fantasmagorica dell'immaginazione paurosa. I manga e gli anime non hanno mai prodotto personalità criminali. Se si dovesse usare la stessa logica distorta, i registi di Hollywood dovrebbero essere condannati per istigazione all'omicidio considerando le trame dei film americani. Ciò non è possibile, quindi gli stessi criteri di giudizio usati per il cinema americano vanno adottati per l'animazione giapponese, altrimenti assisteremmo a una discriminazione intollerabile.
Siamo sicuri che i pazzi siano gli otakkuru? Qualche volta leggendo ciò che i giornalisti scrivono a riguardo della società giapponese, in particolare circa manga e anime, nasce il dubbio che si debbano coniare molti altri vocaboli come otakkuru per altri generi di eccessi ed esagerazioni. Comunque le preoccupazioni sono inutili. Se si è un otakkuru, un otaku pazzo, si può sempre sperare di farsi curare da Tatase Ruko, l'infermiera più sexy della storia dei manga (4). Ciò che non è serio va trattato senza serietà.

Note

1. Fra le tante e importanti manifestazioni che hanno ospitato le opere di Murakami Takashi, va ricordata l'esposizione alla Fondation Cartier di Parigi nell'ottobre 2002.
2. Cfr. Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in "Sushi", anno II, n. 3, ottobre 1996, p. 64.
3. Cfr. Nagai, Go, Cutie Honey '21, vol.1, D/visual, Tokyo, 2004, p. 90. Il testo recita così: "Ah, quell'otakkuru!!", "Che cos'è un otakkuru?", "Un otaku fuori di testa!", "Ah, da kuruu di impazzire?".
4. Ci riferiamo al personaggio di Tatase Ruko inventato da Inui Haruka (pseudonimo di Nakasono Toshifumi) e protagonista del fumetto Ogenki Clinic (traduzione italiana La clinica dell'amore, News Market, Roma, 1993; edizione originale Ogenki Kurinikku, Akita Shoten, Tokyo, 1987).

Bibliografia

Bornoff, Nicholas, Pink Samurai. The Pursuit and Politics of Sex in Japan, Harper Collins, London, 1994.
Greenfeld, Karl Taro, Baburu. I figli della grande bolla, Instar Libri, Torino, 1995.
Greenfeld, Karl Taro, Deviazioni standard, Instar, Torino, 2004.
Griner, Massimiliano e Furnari, Rosa Isabella, Otaku. I giovani perduti del Sol Levante, Castelvecchi, Roma, 1999.
Martorella, Cristiano, Il kawaii prima del kawaii, in Pellitteri, Marco (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002.
Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", anno XXXIX, n. 1, gennaio-marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Dokusho. La lettura fra scienza e tecnologia, in "LG Argomenti", anno XL, n. 1, gennaio-marzo 2004.
Martorella, Cristiano, Yokuatsu. Repressione e giovani, in "LG Argomenti", anno XL, n. 2, aprile-giugno 2004.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in "Sushi", anno II, n. 3, ottobre 1996.
Martorella, Cristiano, Il Giappone inquieto, in "Sushi", nuova serie, anno III, settembre 1997.
Martorella, Cristiano, I fumetti del ciliegio in fiore, in "Il Golfo. Quotidiano dell'area sorrentina e Capri", anno VI, 1 marzo 1996.
Morikawa, Kaichiro, Learning from Akihabara. The Birth of a Personapolis, Gentosha, Tokyo, 2003.
Scozzai, Michele, La strana tribù del Giappone, in "Focus", n. 95, settembre 2000.

Dojinshi, fumetti per passione

Articolo sui fumetti dojinshi [doujinshi] pubblicato dal sito Nipponico.com.

Dojinshi Fumetti per passione
di Cristiano Martorella

9 giugno 2004. Dojinshi è l'abbreviazione della parola dojinzasshi che significa fanzine, ossia rivista prodotta amatorialmente dai fan di animazione e fumetto giapponese. Essa è composta dalle parole dojin (fan) e zasshi (rivista), quest'ultima abbreviata in shi. Il dojinshi è arrivato anche in Italia sia nelle forme originali recensite e ristampate da alcune pubblicazioni sui manga e anime, sia in alcuni casi come produzioni amatoriali locali. Ma cos'è un dojinshi? Molto spesso il dojinshi è una parodia comica o erotica di un personaggio famoso di un manga, un anime o un videogioco. Quindi esso si presenta come un albo a fumetti. Perché i giapponesi si divertono a realizzare storie erotiche con i personaggi da loro adorati?
Il primo aspetto riguarda quel gusto del piccante e un po' di morbosità che la stampa italiana conosce bene e applica con i personaggi in carne e ossa. Infatti la maggior parte delle riviste italiane sono pubblicazioni scandalistiche dedicate al gossip. Così nessuno si meraviglia della quantità di ragazze nude sulle copertine delle più diffuse riviste. I giapponesi si comportano nella stessa maniera con i personaggi dei manga, con la differenza che non recano alcun male o danno ai protagonisti che sono soltanto entità immaginate.
L'altro aspetto riguarda direttamente i manga e gli anime che hanno in sé elementi impliciti sessuali che trovano il giusto sviluppo nel dojinshi. La rappresentazione di sesso esplicito, nei limiti della legislazione nipponica, non costituisce motivo di turbamento per la mentalità giapponese che considera naturale l'attività sessuale. Così non avviene per la morale occidentale ancora fortemente repressiva, la quale considera il sesso come corruzione e peccato. Ciò spiega perché il dojinshi viene considerato in Occidente come qualcosa di perverso. Ciò viene aggravato dall'utilizzo del fumetto, un mezzo espressivo da sempre considerato non edificante, e a volte addirittura depravato. Se poi i personaggi raffigurati sono giovani, allora si assiste a reazioni isteriche di bigotti e falsi moralisti intenti a salvare la gioventù dalla corruzione del mondo. Così mentre si giustificano le violenze e lo sfruttamento dei più deboli da parte dei sedicenti liberatori, si perseguita la violenza descritta dalla narrativa che ha invece un valore altamente pedagogico. In questo modo la questione della libertà di pensiero e di espressione nei manga ha assunto in Italia l'aspetto di una lotta politica.
Un esempio di disinformazione e manipolazione è fornito da Anne Allison nel libro La bambola e il robottone. Ella ripresenta una vecchia teoria sostenuta da molti psicologi superficiali, secondo la quale la visione del cartone animato di Sailor Moon comporta il rischio che gli spettatori diventino effeminati. Il passo in cui Anne Allison spiega ciò è chiaro ed esplicito:

"[...] anche se i ragazzi difficilmente ammettono di leggere o vedere Sailor Moon alla televisione (o, meglio, di identificarsi con lei piuttosto che di vederla semplicemente come un oggetto sessuale), molti la guardano di nascosto e alterano di conseguenza i loro stessi modelli di eroismo e mascolinità." (1)

Anne Allison non spiega perché questo inquietante fenomeno non è mai avvenuto e mai si è manifestato con le centinaia di eroine della letteratura, del teatro e della televisione (ricordiamo le amazzoni, Giovanna d'Arco, Leonora del Fidelio di Beethoven, Fantaghirò, e così via). Inoltre non fornisce nessuna prova concreta della sua aberrante teoria.
Altre teorie contro gli appassionati di manga e anime sono continuamente prodotte e raccolte in ponderosi volumi che si atteggiano ad analisi scientifiche, ma prive in effetti di ogni fondamento oggettivo.In realtà ciò che spaventa è la possibilità che i fan realizzino indipendentemente opere culturali che non siano controllate dalle consuete istituzioni. Soprattutto indispettisce l'uso disinvolto degli elementi sessuali e l'estrema libertà degli autori. Veramente il dojinshi, e tutta la produzione erotica dei manga, costituisce un movimento di liberazione della psiche che viene slegata dai soliti schemi convenzionali. Adesso che è emersa la motivazione della realizzazione dei dojinshi, si capiscono bene anche i perché di tanta disapprovazione. Però la libertà non è qualcosa che ci viene donato dagli altri, piuttosto ci riguarda direttamente e va conquistata. In tal senso la questione dei manga è un'autentica lotta civile per un diritto di autodeterminazione dei giovani.

Note

1. Cfr. Gomarasca, Alessandro (a cura di), La bambola e il robottone, Einaudi, Torino, 2001, p. 155.

Bibliografia

Dessalvi, Stefano e Pollicelli, Giuseppe, Disegni leggeri, moralmente corrotti, in "Blue", anno X, n. 110, luglio 2000.
Martorella, Cristiano, I fumetti del ciliegio in fiore, in "Il Golfo. Quotidiano dell'area sorrentina e Capri", anno VI, 1 marzo 1996.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in "Sushi", n. 3, ottobre 1996.
Nove, Aldo, Techno kitsch, in "Happy Web", n. 6, giugno 2001.
Prainito, Consuelo, Il Giappone postmoderno e i manga, in "Italia Giappone Oggi", anno XV, n. 58, dicembre 1997.
Romanello, Elena, Due realtà nel mondo dei giovani, in "LG Argomenti", anno XXXV, n. 4, ottobre-dicembre 1999.
Scozzai, Michele, La strana tribù del Giappone, in "Focus", n. 95, settembre 2000.

Etchi, etica del diverso

Articolo sulla cultura giovanile giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Etchi.

Etchi. Perversione e gioventù giapponese
di Cristiano Martorella

8 aprile 2003. Il termine giapponese etchi significa perversione, oscenità. Si dice, ad esempio, etchi na hon per indicare un libro osceno (in inglese blue book). L'etimologia di etchi proviene dalla pronuncia giapponese della lettera H, iniziale di hentai (anormalità, perversione). Useremo questa parola per circoscrivere un concetto che probabilmente sarà più elaborato di quanto il significato intuitivo possa far pensare.
Dopo lo straordinario successo della conferenza (1), non potevamo esimerci dal tornare sull'argomento della gioventù giapponese per approfondirlo. Sappiamo quanto scalpore abbiano provocato le polemiche sulla questione, e in molti ci hanno chiesto di sviluppare l'indagine appena avanzata. Abbiamo già evidenziato la confusione generata dalla stampa sui manga e la gioventù giapponese (2), però una simile osservazione implica una ricerca più poderosa capace di smuovere il pensiero dal torpore consuetudinario. La stampa italiana ha insistito sulla correlazione fra la gioventù giapponese e il sesso, i fumetti, la masturbazione e la prostituzione veicolati attraverso un uso massiccio ed eccessivo della tecnologia e delle telecomunicazioni. Queste ipotesi, prive di verifiche, sono state amplificate da articoli sensazionalistici che annunciavano disastri e nuove malattie neurologiche causate dalle perversioni giapponesi (3). Se partiamo dall'assioma che la società giapponese sia un aggregato di perversioni, possiamo ribaltare la questione tracciando le coordinate di una simile geometria. L'assioma della perversione giapponese parte dalla costruzione di una geometria che considera il modello sociale occidentale quale riferimento assoluto e ideale. Questo modello fonda la sua centralità sull'enunciato dell'individualismo cosmico. Per l'occidentale l'individuo è sacro, l'io è dio. A dispetto di tale affermazione, l'individualità viene svilita poiché elevata a un principio astratto e universale che elimina il particolare. Ecco allora apparire la perversione, ciò che perturba l'ordine precostituito. La cultura giapponese che unisce lo shintoismo degli otto milioni di dei e il buddhismo dell'eterno mutamento propone una comprensione pluralista che include la contraddizione nella natura della realtà invece di escluderla. La società occidentale riconosce il pericolo sovversivo costituito da una simile concezione che mostra un'alternativa alla logica binaria del bene e del male. Soprattutto coglie la minaccia che il sistema ideologico capace di giustificare l'agire politico ed economico delle potenze del monoblocco occidentale possa essere messo in discussione.
Nella cultura giapponese la perversione è simbolo della libertà. Non è un peccato, ma l'affermazione dell'individualità. L'etica confuciana condannava il doppio suicidio per amore (shinju), eppure la maggioranza dei giapponesi era attratta da questa affermazione assoluta dell'individuo capace di opporsi alla società. Il successo dei drammi sull'argomento dimostrò l'artificiosità dell'etica e il prevalere della passionalità sulla burocrazia. Insomma, per i giapponesi il confronto fra eros ed ethos vede prevalere di misura il primo (qualcosa di simile avveniva nella tragedia dei greci, anch'essi pagani come i giapponesi). Nel 1908 la scrittrice Hiratsuka Raicho aveva emblematicamente affermato il primato dell'individuo tentando il suicidio con il suo amante. Nel 1948 commise shinju Dazai Osamu, scrittore dissacratore della società contemporanea. Nel 1970 si suicidò Mishima Yukio artefice della "morte erotica" (definizione del biografo John Nathan). In tutta la sua opera egli aveva indicato l'identità di eros ed ethos. Dunque assistiamo a una costante nella storia culturale giapponese. Gli occidentali non soltanto considerano il suicidio un peccato, ma addirittura un tabù. Non se ne discute, e chi lo pratica viene considerato disturbato, oppure commiserato per l'errore commesso. Gli occidentali sono così schiavi del loro dio unico che non posseggono nemmeno la propria vita. Poiché la vita è considerata un dono di dio, nessuno può privarsene essendo cosa che non gli appartiene. La violazione equivale a un peccato mortale, all'abuso della proprietà altrui. Così si smaschera l'ipocrisia dell'individualismo occidentale, una forma di alienazione della vita che viene concessa dalla divinità. La stessa forma di alienazione efficacemente applicata dal capitalismo che espropria il lavoro al lavoratore. La religione occidentale espropria la vita al vivente. Non è una coincidenza se si considera l'analisi di Max Weber che rintraccia una sostanziale influenza fra cristianesimo e capitalismo (4). La pericolosità della perversione giapponese non è etica, ma assolutamente politica, come stiamo qui scoprendo. La gestione dell'eros corrisponde a dominare l'organizzazione sociale contemporanea. Il timore per il potere economico giapponese è calato, però non è diminuita la minaccia rappresentata dall'eros nipponico. Le strane tribù giapponesi stanno contaminando i giovani e ingenui adolescenti europei con un armamentario straordinario e terrificante di fantasie e perversioni. Nessuna legge e censura è riuscita finora ad arrestare la minaccia. Attraverso la lettura dei manga si alimenta una passione evasiva ed eversiva che danneggia, così si crede, i futuri cittadini europei. Questa è la tesi sotterranea che alimenta i pregiudizi sui giovani e le loro letture. I segnali inquietanti della degenerazione sono colti nelle manifestazioni della disubbidienza. Il rifiuto totale della guerra espresso dai cortei pacifisti ne sarebbe l'indizio. Ciò che spaventa è una gioventù ribelle priva di ideologia che contesta radicalmente il modello occidentale.
Se le cose stanno così, allora conviene schierarsi dalla parte della perversione, proclamando la virtù della perversione. I giovani italiani hanno conosciuto l'atrocità della guerra attraverso le snervanti battaglie giapponesi proiettate sui teleschermi (5). Se per gli adulti esse erano diseducative, perché strabordanti di violenza, per gli adolescenti erano istruttive perché mostravano l'autentico volto della guerra. Alle parole dei moralisti si opponeva il sangue che colava sulla spada. Nel Novecento si poteva parlare senza smentita di guerra giusta, nel Terzo Millennio ciò non era più consentito senza una vigorosa reazione di sdegno. La nuova generazione condannava sia la guerra giusta sia la guerra santa come artifici retorici per giustificare la guerra atroce. La minaccia si era tramutata in realtà: i fumetti e l'animazione giapponese avevano educato gli adolescenti secondo i valori del paese del Sol Levante, una nazione che aveva conosciuto gli orrori della guerra, del militarismo, dell'industrializzazione selvaggia e aveva reagito con vigore e prontezza fornendo una critica severa dell'imperialismo e del capitalismo.
La pedagogia occidentale ha cercato inutilmente di imporre le avventure dei paperi in sostituzione delle oscene studentesse guerriere. Non vi è riuscita. Nemmeno i comitati organizzati dagli esperti Maria Rita Parsi, Vera Slepoj e Antonio Marziale, instancabili oppositori di anime e manga, sono riusciti a cancellare i cartoni animati giapponesi dallo schermo. Perfino le leggi più severe si sono rivelate inapplicabili. Perché? La risposta è semplice e disarmante. Manga e anime presentano una prospettiva capace di fornire una lettura critica della realtà. Cancellarli equivarrebbe a evitare di mettere in discussione la realtà. Ma chi ha assaggiato il frutto proibito dell'albero della conoscenza vuole continuare a mangiarne. Chi ha cominciato a pensare liberamente non accetta le imposizioni di un dio che ci vuole mantenere nell'ignoranza.
Questo per quanto riguarda la situazione italiana. Ma per la società giapponese, quali considerazioni vanno svolte? Ciò che gli studiosi hanno mancato di sottolineare è la capacità della cultura giapponese di creare forti voci di dissenso. In Giappone, come abbiamo già evidenziato, l'eros è associato alla libertà tanto che si potrebbe studiare una corrente del liberalismo sessuale tipicamente giapponese. Essa ebbe le sue origini nella cultura del periodo Edo (1603-1867) e nel mondo fluttuante (ukiyo) che fu la fucina degli intellettuali e della borghesia in opposizione al regime dominante. In quel periodo vi fu una corrispondenza fra potere economico e classe emergente, in parte favorita e in parte ostacolata dal potere politico shogunale. L'eredità di questa tradizione erotico-liberale si può ritrovare negli attuali artisti giapponesi come il fotografo Araki Nobuyoshi, l'illustratore Sorayama Hajime, e l'autrice di "ladies comics" Morizono Milk. Gli artisti giapponesi non hanno mai cessato di considerare la sessualità come una forza della natura talmente potente da sovvertire il fragile e artificiale ordine sociale.
In conclusione si può affermare che l'autentica oscenità (etchi) è costituita dalla libertà di pensiero che come il desiderio erotico si accende, avviluppa e sviluppa senza porsi limiti.

Note

1. Martorella, Cristiano, Gioventù giapponese e letteratura come vita, Relazione al convegno "Magico come un libro", Biblioteca Internazionale per la Gioventù E. De Amicis, Genova, 15 novembre 2001.
2. Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", anno XXXIX, n. 1, gennaio-marzo 2003, pp. 67-71.
3. Gli articoli da citare potrebbero essere tantissimi, ma ci limitiamo ai più importanti: Pisu, Renata, Samurai robot, in "L'Espresso", anno XLVIII, n. 29, 18 luglio 2002, pp. 112-116; D'Emilia, Pio, Jap Mania, in "Marie Claire", anno I, n. 3, marzo 2003, pp. 304-314.
4. Weber, Max, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze, 1945.
5. Importante in tal senso l'intervento di Marco Pellitteri sul tema della guerra nei fumetti, che ribadisce il valore pedagogico delle opere giapponesi. Cfr. Pellitteri, Marco, La follia della guerra narrata ai ragazzi. La storia nei fumetti, in "Il Pepeverde", n. 5, 2000, pp. 21-23.

lunedì 19 ottobre 2009

Illustratori giapponesi

Articolo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Il pennello, l’inchiostro e il sangue. Illustratori giapponesi controcorrente, in "LG Argomenti", n.2, anno XXXIX, aprile-giugno 2003, pp.59-64.


Il pennello, l’inchiostro e il sangue
Illustratori giapponesi controcorrente
di Cristiano Martorella

In giapponese illustrazione si dice sashie, termine composto dalle parole sashi (inserito) ed e (disegno). Per completezza possiamo ricordare anche il termine soga, meno consueto, che ha identico significato ed etimologia. Comunque il senso è quello di un’immagine inserita fra il testo di un libro.
Se l’illustrazione dei libri giapponesi non presenta problemi dal punto di vista linguistico, ciò non implica che l’argomento sia di facile approccio. Pur essendo stati dedicati alcuni saltuari articoli sugli illustratori giapponesi, manca ancora un lavoro di documentazione e soprattutto di critica d’arte che sia stato pubblicato in Italia. Cerchiamo quindi di porvi rimedio con il massimo impegno perché l’arte degli illustratori giapponesi non rimanga aliena. Però nel tentare questa indagine eviteremo il feticismo dell’informazione e respingeremo la credenza che un cumulo di dati da solo possa permettere la comprensione. Ciò che permette di capire l’arte è la relazione fra l’emozione e l’opera artistica, fra il carattere soggettivo e l’aspetto oggettivo. Soltanto studiando la relazione e dunque l’interazione, si può smuovere il pensiero dal torpore abitudinario delle ricerche subalterne, ovvero quei noiosissimi elenchi di citazioni e sequenze di luoghi comuni che rassicurano il lettore nel sapere quel che già conosceva. Eliminare le incrostazioni dal pensiero è il compito che ci attende.
Kurosaki Gen, nato nel 1966, ha studiato come designer a Kyoto esponendo le sue opere nel 1989 e 1990. Ha vinto la borsa di studio nel 1992 di From A the Art e ha partecipato alla mostra Art Box. Divenne illustratore realizzando le opere Retasu kurabu netto e Chie no mori bunko. Insieme a Nojima Shinji ha dato vita alla breve storia Koorogikun no koi (L’amore del grillo), un dowa per i bambini più piccoli dal gusto malinconico e amaro. Koorogikun no koi è una storia d’una durezza e spietatezza inconcepibile per un pubblico occidentale che stenta a capire i presupposti della pedagogia giapponese. Come rilevò argutamente Luca Raffaelli nel suo Le anime disegnate, l’approccio con l’infanzia è completamente rovesciato. Poiché la tradizione nipponica esalta il magokoro, il vero cuore, o secondo altre parole, umaretsukitaru mama no kokoro, il candido cuore innato ossia la spontaneità, non è accettabile la menzogna nei confronti dei bambini. Mentre la pedagogia occidentale si impegna a corrompere la spontaneità del bambino e a proteggerlo dal mondo raccontandogli un cumulo di menzogne, l’atteggiamento degli educatori giapponesi non è mai ipocrita. Non viene repressa la sessualità già presente nei giovani adolescenti e soprattutto non si giustifica l’esistenza umana con argomenti trascendentali. Se in Giappone avvenisse un cataclisma naturale come un terremoto che provochi il crollo di una scuola e la morte di decine di bambini, nessuno avrebbe la sfrontatezza di affermare che "Dio aveva bisogno di angeli". Lo stesso approccio disincantato si ritrova nelle disgrazie del grillo disegnato da Kurosaki Gen. Il tratto è elementare, semplice, spontaneo come quello di un bambino. Eppure l’utilizzo dello spazio è sapientemente adoperato per rendere gli eventi attraverso un’impressione forte che diventa cinetica con la successione delle tavole. Anche per il libro, come per qualunque mezzo visivo, vale l’effetto autocinetico scoperto da Muzaref Sherif, ossia la costruzione di un percorso elaborato dalla mente sulla base di poche impressioni che emergono rispetto allo sfondo. La psicologia cognitiva ci aiuta nella comprensione dell’arte evidenziando i movimenti delle immagini che un’osservazione superficiale e frettolosa ritiene immobili e bidimensionali, fermandosi alla carta e ignorando l’elaborazione mentale delle immagini. Eppure la fruizione dell’arte avviene proprio a livello cognitivo, ed è la psiche ad essere il soggetto piuttosto che l’opera d’arte stessa. Per i maestri della calligrafia giapponese (shodo), le tracce d’inchiostro sul foglio sono soltanto il cadavere dell’opera d’arte, viceversa lo spirito è nell’uomo. Con questa prospettiva possiamo capire come Kurosaki Gen non si limiti a illustrare, piuttosto la sua azione è smuovere la psiche dall’immobilismo della quotidianità. E con quale veemenza vi riesce. Il grillo innamorato sposa l’amata che aveva corteggiato con il canto. Però viene abbandonato per volubilità e senza motivo. Rimasto con il suo pargolo, lavora zappando la terra. Ecco che trova il petrolio e diventa ricco. E immediatamente viene circondato da femmine e perfino dalla moglie che è tornata. Apparentemente felice, il grillo è colpito da un raptus e brucia tutto il denaro guadagnato con il petrolio che gli sembra inutile e corrotto. Gli abitanti del bosco pettegolando lo considerano matto. La moglie lo abbandona nuovamente e il grillo rimasto senza risorse muore di fame. Particolarmente cruda la scena del cadavere del grillo in decomposizione sotto la neve che viene smembrato dalla formiche. Il figlio del grillo suonerà il violino costruito dal padre e con la sua canzone d’amore riuscirà a far piangere le nuvole.
Kurosaki Gen utilizza il paesaggio in modo dinamico, non come uno sfondo, ma come un soggetto, così come nella tradizione inaugurata da Katsushika Hokusai. Grosse macchie di colore in movimento, come lo schizzo di petrolio, riempiono le pagine. Le emozioni dei personaggi si dipingono sulle pagine come stelle nel cielo. Così le note musicali si possono tramutare in gocce di pioggia. Potremmo definire l’arte di Kurosaki Gen come espressionismo minimalista.
Sano Yoko, nata a Pechino nel 1938, studiò arte e disegno al Musashino College, e poi litografia all’Università di Berlino nel 1967. Vincitrice di numerosi premi, fra cui ricordiamo il premio Sankei per la cultura infantile, il premio Kodansha, e il Nankichi Niimi per la letteratura giovanile. Alcune sue opere indimenticabili includono Datte datte no obaasan (La vecchia che diceva ma), Watashi no boshi (Il mio cappello), Ojisan no kasa (L’ombrello del signore) e soprattutto quel capolavoro eccezionale costituito da Hyakumankai ikita neko (Il gatto che visse un milione di volte). La storia de Il gatto che visse un milione di volte è un’altra vicenda che esula dai consueti criteri del pensiero occidentale e mostra quanto siano avanzate le posizioni della pedagogia giapponese. Un gatto che aveva vissuto un milione di vite attraversa diverse vicissitudini, conoscendo re e marinai, perfino il lavoro nel circo. Ha diversi padroni fra cui un’anziana e una bambina. Un giorno incontra una bellissima gattina bianca e s’innamora. Così la corteggia e ottiene il suo amore. Quando la gattina muore, il gatto non vuole più rinascere preferendo la morte eterna. Il racconto di una profondissima sensibilità pone il lettore davanti alla realtà cruda della sofferenza e non gli propone fughe trascendentali, piuttosto ci indica che è proprio la mortalità a renderci umani. Soltanto scoprendo la debolezza e la finitezza dell’esistenza possiamo capire l’autentica natura umana. I giapponesi ritengono che i bambini debbano essere consapevoli di ciò, e non gli venga nascosto nulla. Ciò spiega la difficoltà della critica italiana a confrontarsi con queste opere dove morte e sofferenza non sono occultate al bambino.
La tecnica usata da Sano Yoko in quest’opera è l’acquerello adoperato con estrema libertà e leggerezza. Con un tratto sicuro e veloce che non indugia nella ricerca di un profilo, marca le figure attraverso tonalità di colore dosato a macchie armoniose di arancione, rosa, viola, contrastate da larghe e diluite stesure di grigio-verde e azzurro.
Akaba Suekichi, nato nel 1910 a Tokyo e morto nel 1990, ha illustrato numerose fiabe giapponesi (mukashibanashi) vincendo nel 1980 il premio internazionale Andersen. Fra le sue tavole ricordiamo quelle per Momotaro, Shiroi ryu kuroi ryu (Drago bianco drago nero), Daiku to oniroku (Il carpentiere e l’orco) e Kasajizo. La tecnica grafica di Akaba Suekichi recupera la tradizione nipponica. Le figure sono tracciate con linee nette di inchiostro nero e colpi di pennello grigio o colorato sfumato come nei dipinti degli emakimono.
Hasegawa Shuhei, nato a Himeji nel 1955, vinse il premio Subaru per Hasegawakun kiraiya nel 1976 e studiò disegno al Musashino College. Egli fu vittima di un caso di avvelenamento del latte che ha segnato la sua vita. Nella sua opera mostra l’agonia e l’angoscia provati da chi è colpito da handicap. Ancora paura e disagio vengono descritti in Hyuu, la storia di Kentaro, un ragazzo che non riesce a dormire. Il terrore lo fa urlare e la sua voce diventa un vento. Kentaro è ossessionato dal pensiero di crescere, diventare vecchio e morire (una fobia che Sigmund Freud chiamava Todesangst). Il cielo è colorato dalle emozioni di Kentaro che addirittura inghiotte l’amica Kagami. Quando il giorno seguente incontra Kagami a scuola, apprenderà da lei che condivide lo stesso disturbo. Hasegawa Shuhei insegna ai bambini che alcuni sentimenti terrificanti sono comuni e usuali, e non bisogna temere d’essere strani. La condivisione e la solidarietà vincono la paura. L’autore ottiene questo risultato con immagini violente che trasmettono l’autentica sensazione della paura così da affrontarla direttamente.
Baba Noboru, nato a San’nohe nella prefettura di Aomori nel 1927, divenne disegnatore di fumetti nel 1967. La sua serie più famosa è Juichipiki no neko (Undici gatti) pubblicata anche in Svezia, Corea e Stati Uniti. I gatti di Baba Noboru fanno cose che non sapevano di poter fare, e trovano modi non convenzionali per risolvere i problemi. L’apertura al pensiero laterale e creativo è mostrata nella copertina di Juichipiki no neko fukuro no naka (Undici gatti nel sacco) dove sono disegnati dieci gatti. Il bambino che si accorge dell’incongruità pensa che il disegnatore ha sbagliato, poi girando il libro si accorge che sul retro c’è l’undicesimo gatto che si attarda bighellonando. Un procedimento simile a quello operato nei giardini zen, dove un sasso viene nascosto alla visuale dagli altri, facendoci intuire che ciò che noi vediamo comunque esiste ed è presente nonostante l’invisibilità.
Shingu Susumu, nato a Osaka nel 1937, ha studiato a Tokyo specializzandosi in pittura a olio e per sei anni ha approfondito gli studi a Roma. La sua prima mostra di sculture fu alla Galleria Blu di Milano nel 1966. Le sue installazioni mosse dall’energia del vento e dell’acqua sono famose e si possono ammirare anche a Genova, al Porto Antico, dove si trova il Columbus’ Wind realizzato nel 1992. Come illustratore di libri ha dedicato il suo sforzo nel descrivere le forze della natura che forniscono l’energia vitale alle creature dell’ecosistema. In questo senso l’opera più riuscita è Chiisana ike (Lo stagno), una serie di tavole che mostrano la vita in uno stagno dall’alba al tramonto. Altre opere da ricordare sono Kumo (Nuvole), Ichigo (Fragole) e Kippisu no tazuneta chikyu (Il viaggio della Terra di Kippis). Il critico d’arte Rudolf Arnheim ha celebrato la sua arte in The Moving Art of Susumu Shingu, un testo che evidenzia i rapporti con la filosofia orientale e il concetto di natura tipico dei giapponesi.
Tashima Seizo, nato a Osaka nel 1940, studiò arte al Tama College. Pubblicò Shibaten nel 1962 e poi Furuya no mori. Vinse il premio Golden Apple nel 1969 con Chikarataro, il premio Kodansha per la cultura nel 1974, e il premio Nippon per i libri illustrati nel 1988 con Tobe batta (La cavalletta). Tashima Seizo ha illustrato anche alcune fiabe tradizionali giapponesi fra cui Kintaro. Le immagini di questo volume sono molto forti e sottolineano con vigore le scene di lotta del bambino Kintaro che si scontra con un orso e compie altre incredibili imprese grazie alla sua forza.
Maruki Toshi, nata in Hokkaido nel 1912 e morta nel 2000, divenne celebre per i suoi libri di denuncia sui mali della guerra come Hiroshima no pika (Il lampo di Hiroshima) e Okinawa shima no koe (La voce di Okinawa).
Il lampo di Hiroshima non è un libro comune. Le immagini sono terribili e raccapriccianti. Uomini e donne nudi e bruciati che si trascinano nel fango. Fiamme che ardono i bambini. Una violenza inusitata e terrificante che ha un difetto: non essere il prodotto dell’immaginazione ma una storia reale.
Un discorso serio e ponderato sull’arte giapponese non può ignorare i risvolti sociali ed etici che vengono smossi dal genio umano che è capace di rompere le convenzioni per creare. L’arte non è pura contemplazione della bellezza, ciò è piuttosto la fine che l’inizio dell’arte. Come aveva indicato Bruno Munari in Artista e designer, la bellezza viene percepita attraverso l’uso di un certo codice estetico che appartiene alla cultura. Però se è l’artista che produce un proprio codice estetico attraverso l’opera, allora è egli stesso a costruire la società. Così risulta chiaro il motivo dell’accanimento operato dai governi dispotici contro gli artisti. Un concetto simile è molto recepito nella società giapponese che può vantare una dinamica storico-sociale molto articolata. Ed è questo concetto che apre il pensiero alle considerazioni più forti e attuali per il nostro contesto. L’arte è ancora considerata in Giappone come vita autentica, passione, carne e sangue. Tanizaki Jun’ichiro racconta in Manji (La svastica) l’insano ardore che si impossessa della pittrice Kakiuchi Sonoko, Akutagawa Ryunosuke in Jigoku hen (La scena dell’inferno) narra l’avventura del pittore Yoshihide che dipinge una scena infernale vivendola come diretta esperienza, Edogawa Ranpo descrive la vicenda terribile della follia di uno scultore cieco che trasforma le sue vittime in opere d’arte. Insomma, si deve dire che la pittura ha bisogno di pennello, inchiostro e sangue. Perché? La risposta è attualissima e riguarda il dibattito inconcludente che ha coinvolto l’animazione e il fumetto giapponese accusati di traviare i giovani italiani attraverso il sesso e la violenza.
La risposta che noi forniamo è pharmakon. Con la parola greca pharmakon si indicava un preparato che poteva essere sia un veleno sia un medicamento. In effetti la scienza ci insegna che l’antidoto è il veleno stesso in una dose e trattamento diverso. Oggi la violenza è indispensabile come antidoto perché l’emotività è stata snaturata. Come ha indicato con insistenza Umberto Galimberti, il problema dell’individuo contemporaneo è la risonanza emotiva. Non siamo capaci di soffrire e non diamo alcun valore alla morte che addirittura neghiamo. Siamo indifferenti e privi di emozioni rispetto a ciò che dovrebbe sconvolgerci. Tutto ciò in un contesto critico e pedagogico che esalta il piacere senza neppure conoscerlo (e a volte proibendolo quando sembra una devianza). Ecco perché l’arte giapponese con la letteratura, la grafica, i fumetti e l’animazione, è estremamente scandalosa. Considerare correttamente la violenza è indispensabile. L’arte è vita, l’arte è violenta. Se si vuole che la violenza rimanga nei disegni e non travolga le fragili strutture del consesso umano, si dovrà ammettere che la violenza è connaturata nell’esistenza umana. Invece di nasconderla e censurarla dovremmo mostrarla come fanno gli artisti giapponesi. Ecco il pharmakon contro la violenza: la violenza usata come antidoto nella forma sublimata dell’arte. Una conoscenza che i pagani possedevano più chiaramente di noi, ripresa dai romantici, ciò che chiamarono catarsi.
Finché la letteratura giovanile non si emanciperà dal ricatto delle formule del piacere della lettura, l’arte giapponese sarà sempre antagonista e sicuramente più seguita dai giovani che troveranno in essa risposte sincere alle domande della vita.

Bibliografia

Akaba, Suekichi e Matsui, Tadashi, Momotaro, Fukuinkan, Tokyo, 1965.
Akaba, Suekichi e Matsui, Tadashi, Daiku to oniroku, Fukuinkan, Tokyo, 1962.
Baba, Noboru, Juichipiki no neko fukuro no naka, Kogumasha, 1982.
Hasegawa, Shuhei, Hyuu, Doshinsha, Tokyo, 1996.
Hasegawa, Shuhei, Hasegawakun kiraiya, Subaru shobo, Tokyo, 1976.
Maruki, Toshi, Hiroshima no pika, Komine shoten, Tokyo, 1980.
Matsushita, Takaaki, Ink Painting. Weatherhill, New York, 1974.
Miyake, Okiko e Masaki, Tomoko, Igirisu de hajimete no nihon ehon gengaten, Baikajoshi daigaku, Osaka, 2001.
Munari, Bruno, Artista e designer, Laterza, Roma-Bari, 1971.
Munari, Bruno, Il Castello dei Bambini a Tokyo, Einaudi Ragazzi, Trieste, 1995.
Nojima, Shinji e Kurosaki, Gen, Koorogikun no koi, Wanibooks, Tokyo, 2001.
Noma, Seiroku, Artistry in Ink. Crown, New York, 1957.
Raffaelli, Luca, Le anime disegnate, Castelvecchi, Roma, 1994.
Shingu, Susumu, Chiisana ike, Fukuinkan, Tokyo, 1999.

I valori dei manga

La rivista "Diogene Filosofare Oggi" pubblicò due articoli dedicati al dibattito sui valori etici dei manga. Cristiano Martorella, in qualità di studioso di cultura giapponese, fu interpellato per spiegare i valori positivi dei manga. Quello che segue è l'articolo che è stato pubblicato dalla rivista.

Cfr. Cristiano Martorella, La positività etica dei manga eroi, in "Diogene Filosofare Oggi", n.3 anno II, marzo-maggio 2006, pp.58-59.


La positività etica dei manga eroi
I fumetti giapponesi: un tentativo di creare significati in una società senza punti di riferimento
di Cristiano Martorella

I manga sono i celebri fumetti giapponesi che stanno affascinando intere generazioni di giovani, gli anime sono i cartoni animati sempre di produzione nipponica. Intorno a un fenomeno di intrattenimento apparentemente futile, si è sviluppato un dibattito, spesso dai toni vivaci, sul valore educativo di questo genere di letture, e in generale sull’impatto di cartoni animati e fumetti.
La questione nasce nel 1979, con la protesta dei genitori di Imola, quando la trasmissione del cartone animato di Mazinga provocò la reazione decisa di educatori e psicologi. Si ravvisavano potenziali pericoli per la salute dei bambini, veicolati dalla fruizione di fumetti e cartoni animati giapponesi. Addirittura fu teorizzato un trauma provocato dalla visione di immagini violente o estranee alla nostra cultura. Anche se personaggi autorevoli e attendibili come la psicologa Liliane Lurçat e lo scrittore e pedagogista Gianni Rodari dichiararono esagerati simili allarmismi, lo scontro fra i due fronti pro e contro non mutò. Tuttavia sull’onda del successo delle pubblicazioni di testate dedicate ai manga, molti autori iniziarono a descrivere anche i valori propositivi contenuti nei fumetti e cartoni animati giapponesi. Nel 1994 il giornalista Luca Raffaelli pubblicò il libro Le anime disegnate, nel quale si affrontava il tema sostenendo il punto di vista giapponese e il relativismo dei valori. Nel 1999 l’esperto di fumetti e animazione Marco Pellitteri pubblicò un corposo volume intitolato Mazinga Nostalgia, nel quale si affermava l’esistenza di una generazione di giovani che si erano formati sui valori dei fumetti e cartoni animati giapponesi. La formazione di nuove competenze fra gli studiosi, e la coscienza del problema fra gli appassionati del genere, molti dei quali divenuti adulti, portò perciò allo sviluppo di una situazione diversa. Quando i soliti critici, fra cui spiccano la psicologa Vera Slepoj e l’opinionista Antonio Marziale, attaccarono i personaggi dei Pokémon (a cui erano dedicati libri, cartoni animati, giochi di carte, giochi per consolle), la risposta che fu fornita fu decisa e netta. Nel 2002 Marco Pellitteri curò la pubblicazione di Anatomia di Pokémon, un volume scritto da uno staff di esperti e studiosi di varie discipline che analizzavano in modo scientifico e accurato il fenomeno. Naturalmente i sostenitori della minaccia del relativismo dei valori di manga e anime non seppero ribattere in alcun modo alle tesi sostenute nel volume, dimostrando quanto le loro accuse fossero infondate, vaghe e generiche. Da allora gli appassionati di manga e anime hanno assunto un’importanza non più trascurabile. Il fenomeno del successo dei fumetti giapponesi non è sparito come una moda passeggera, così come avevano sperato erroneamente molti critici. Al contrario si è consolidato nella società italiana. Per questo motivo l’argomento dei valori etici dei manga è assunto a livelli inaspettati e diventa meritevole di una trattazione esaustiva.
Innanzitutto, si deve partire dall’accettazione che manga e anime sono il prodotto di una cultura diversa dalla nostra. I giovani hanno trovato in questo relativismo culturale una ricchezza che la società italiana non forniva da molti anni. Esaurito l’elemento innovativo proposto dalla cultura pop americana, i giovani hanno saputo guardare più lontano rivolgendosi all’Estremo Oriente e al Giappone. Le critiche basate sull’estraneità della cultura espressa da manga e anime sembrano perciò rafforzare il valore etico della diversità culturale. I punti di forza della cultura giapponese sono nell’arte secolare della grafica capace di riempire di significati pochi segni. Una capacità che Roland Barthes aveva messo in evidenza nel saggio L’impero dei segni. L’altro punto di forza è il sistema filosofico giapponese che non si fonda su una conoscenza speculativa di difficile comprensione, ma sulla trasmissione di sentimenti condivisi. Tutto ciò secondo i princìpi di shintoismo e buddhismo. Per questo motivo anche le forme narrative più semplici possono contenere concetti filosofici ed estetici tipici della cultura giapponese.
Vediamo alcuni aspetti evidenziati dai critici che hanno ravvisato temi molto interessanti nella diversa concezione narrativa di manga e anime. Luca Raffaelli, Marco Pellitteri e Alessia Martini insistono sulla differenza fra supereroi americani ed eroi giapponesi. I supereroi americani sono personaggi con poteri straordinari e forza sovrumana che operano in modo solitario, invece gli eroi giapponesi sono spesso gracili adolescenti alla guida di robot. Mentre gli americani usano la forza bruta, i giapponesi si appellano alla forza di volontà, al senso del dovere, ai princìpi etici e al lavoro di squadra. La presenza di robot nelle storie giapponesi ha lo scopo di amplificare il valore dei sentimenti umani. Quando l’androide è un cyborg, ossia metà uomo e metà macchina, il suo animo umano prevale sulla macchina. Il contrasto fra meccanico ed essere vivente si svolge drammaticamente mostrando l’incommensurabile superiorità della natura umana dotata di risorse imprevedibili. Gli esseri umani sono capaci di azioni incomprensibili per le macchine incapaci di ragionare al di fuori di schemi logici e razionali prefissati. Storie come Kyashan svolgono questo tema fino al limite e alle estreme conseguenze. Ciò è stato rilevato anche dallo studioso di filosofie orientali Marcello Ghilardi. Il merito di manga e anime è quello di aver esaltato positivamente l’irrazionalità umana e l’ineffabile potere dell’io, in un’epoca di eccessiva dipendenza dalle macchine e dalla tecnologia, giunta fino allo strangolamento dell’esistenza operata dalla burocrazia. Lo stesso atteggiamento drammatico è espresso nei confronti della guerra. Invece di fingere la necessità di un conflitto che è soltanto un misto sanguinolento di follia e distruzione, gli eroi giapponesi esprimono il loro disgusto per la guerra. Essi combattono perché costretti dalle circostanze. Tuttavia non si risparmiano nell’esprimere il loro ribrezzo per lo sterminio di vite nella follia collettiva chiamata guerra. Non si fingono operazioni umanitarie per il mantenimento della pace, non si indicano le vittime innocenti col nome di danni collaterali. Il volto autentico e spietato della guerra viene mostrato senza pietà. Certamente una simile rappresentazione non è affatto utile al convincimento per l’arruolamento nell’esercito. Infatti il boom di manga e anime è coinciso in passato con l’escalation delle domande di obiezione di coscienza al servizio militare quando era ancora obbligatorio. Marco Pellitteri e Alessia Martini sono convinti che la generazione cresciuta con i cartoni animati giapponesi sia essenzialmente pacifista e antimilitarista. Un altro elemento trattato è il rapporto con la natura. Un esempio è fornito dai personaggi dei Pokémon, piccole creature fortemente legate all’ambiente e capaci di evolversi soltanto in particolari condizioni. Ogni Pokémon ha un elemento di origine, così un Pokémon d’acqua sarà più abile nel mare, uno di fuoco in un vulcano, uno di elettricità in una tempesta. Molte serie a fumetti giapponesi raccontano lo stravolgimento operato dall’uomo contro la natura, e denunciano la distruzione provocata dall’inquinamento. Spesso propongono di recuperare l’antico equilibrio e l’armonia fra essere umano e natura tramandato attraverso le credenze shintoiste. Questo è il caso della Principessa Mononoke di Hayao Miyazaki. Ulteriore importante elemento è il relativismo delle categorie di bene e male. In regola con i princìpi buddhisti che non concepiscono una natura maligna in assoluto, il bene e il male sono considerati come conseguenze dei comportamenti dei personaggi. Così non è raro che un personaggio cattivo decida di cambiare atteggiamento, convinto dalla determinazione e generosità del buono, e passi dall’altra parte. Accade nel fumetto di Dragon Ball, dove Junior diventa grande amico di Goku e tutore di suo figlio Gohan. Infine, ultimo ma non meno incisivo, è l’elemento sessuale. I fumetti giapponesi sono l’unico prodotto per giovani che narrano spontaneamente e senza tabù la sessualità, senza nascondere nemmeno i desideri pruriginosi e le perversioni. Si tratta di una libertà sessuale che gli altri mezzi narrativi stanno conquistando con fatica e fra innumerevoli polemiche. I giovani sono convinti che la libertà sessuale sia un diritto imprescindibile, e non sopportano la morale bigotta che tenta di reprimerli. Per questo hanno riconosciuto nei manga una forma di espressione privilegiata dei loro desideri ed emozioni.
Prima di concludere, è doveroso soffermarsi brevemente sul fenomeno degli otaku, gli appassionati di manga e anime che hanno trasformato la loro passione in ragione di vita. Gli otaku hanno sfruttato le risorse tecnologiche ripiegandosi sulla cultura autoctona giapponese di matrice pagana e buddhista. Questo deve far sospettare che una spinta forte verso l’uso della tecnologia comporta come compensazione un recupero della cultura antica depositaria dell’equilibrio delle pulsioni irrazionali. Per questo motivo ci sembra giusto interpretare i manga e gli anime come un tentativo di creare significati in una società che ha perso ogni punto di riferimento.

Bibliografia
Barthes, Roland, L'impero dei segni, Einaudi, Torino, 1984.
Ghilardi, Marcello, Cuore e acciaio, Esedra, Padova, 2003.
Lurçat, Liliane, Il bambino e la televisione, Armando, Roma, 1985.
Martini, Alessia, I robottoni, Edizioni Il Foglio, Piombino, 2004.
Pellitteri, Marco, Mazinga Nostalgia, Castelvecchi, Roma, 1999.
Pellitteri, Marco (a cura), Anatomia di Pokémon, Seam, Roma, 2002.
Prandoni, Francesco, Anime al cinema. Storia del cinema d'animazione giapponese, Yamato Video, Milano, 1999.
Raffaelli, Luca, Le anime disegnate, Castelvecchi, Roma, 1994.

La cultura hentai

Articolo dedicato alla controversa cultura hentai pubblicato dalla rivista "GX Magazine".

Cfr. Cristiano Martorella, Cultura hentai, relativismo e politica sessuale, in "GX Magazine", n.24, giugno 2007, pp.25-33.


Cultura hentai, relativismo e politica sessuale
di Cristiano Martorella

Ormai espressioni come cultura otaku, cultura kawaii, e perfino cultura hentai, sono tanto diffuse in Occidente da essere già note ai lettori appassionati del genere. Anche gli studi accademici e le pubblicazioni scientifiche hanno adottato questa terminologia che qualche decennio fa sarebbe stata considerata ridicola. Tuttavia, dopo questa premessa, si deve aggiungere che le valutazioni sulla cultura otaku, e in particolare del genere hentai, restano ancora controverse. La mancanza di una valutazione unanime è causata soprattutto dalle enormi differenze di interpretazione del fenomeno otaku. Il problema nasce dalla mancanza di chiarezza su chi sia e cosa faccia l’otaku. Gran parte della stampa ha sempre definito gli otaku come perditempo, fissati, un po’ maniaci, esagerando platealmente i beceri luoghi comuni. Poi sono arrivati artisti come Murakami Takashi e Nara Yoshitomo, che esponendo opere esplicitamente ispirate alle forme artistiche degli otaku hanno infranto un muro di pregiudizi. Murakami Takashi si è addirittura spinto oltre, emulando chiaramente l’arte hentai. L’opera intitolata Hiropon mostra l’immagine di una ragazza in stile manga che si stringe due immensi seni che spruzzano latte. Sembra l’interpretazione letterale del termine hentai che nel senso originale significa anormale.
Ciò che emerge in modo inequivocabile è il fatto che una definizione univoca del termine otaku non è possibile e mai potrà esserlo perché abbraccia manifestazioni ed espressioni differenti di una moltitudine non omogenea che si ispira a manga e anime. Accettando questa considerazione si possono evitare tutte le tipologie false e fuorvianti che sono state inventate da sociologi e psicologi disinvolti, e procedere oltre con un’analisi più aderente alla realtà.
Per fornire un quadro definitivo, o almeno meno lacunoso, sulla cultura hentai dobbiamo rispondere a due domande essenziali. La cultura hentai è un fenomeno tradizionale o postmoderno? La cultura hentai è deviante ed eversiva oppure costruttiva? Le domande sono volutamente estreme, ma sono ciò che si chiederebbe un osservatore neutrale interrogandoci sulla questione. Incominciamo col primo quesito. La cultura hentai è in opposizione con la cultura tradizionale? La risposta è assolutamente negativa. La cultura hentai è la prosecuzione di forme espressive nate in epoche diverse durante lo sviluppo della cultura giapponese. Uno studio accurato della produzione erotica giapponese ci fa scoprire che le stampe shunga prosperarono in epoca Edo (1603-1867) grazie alla diffusione di una ricca narrativa libertina. Infatti i Koshokumono (racconti libidinosi) includevano stampe monocromatiche che si sono poi evolute nelle stampe erotiche ben note a tutti. Questo era il caso delle opere di Ihara Saikaku (1642-1693), come Cinque donne amorose (Koshoku gonin onna,1686) e Vita di un libertino (Koshoku ichidai otoko, 1682). Anche le forme estreme della sessualità, come bondage e sadomasochismo, sono state rappresentate con finezza dal pittore Katsushika Hokusai (1760-1849) nelle sue stampe. Indimenticabile è l’opera intitolata Sogno della moglie del pescatore, dove si anticipa il genere dei tentacoli mostruosi con la raffigurazione di una donna nuda avviluppata da una piovra immensa. Questa documentazione, che è straordinaria sia per quantità sia per qualità, dimostra in modo inequivocabile la continuità della cultura giapponese. Rispondiamo allora al secondo quesito. La cultura hentai è deviante ed eversiva oppure costruttiva? La cultura hentai è stata descritta come opposizione alla cultura egemone da quei saggisti che dovevano sostenere ad ogni costo una tesi pregiudiziale. In realtà chi legge un bishoujo manga, guarda un anime hentai o un pink eiga, lo fa per divertimento, e certamente non ha l’intento di partecipare a una presunta "rivoluzione". Tuttavia la cultura hentai è divenuta eversiva, o così appare, a causa dell’insostenibile repressione esercitata contro di essa. Non si può nascondere che le opere e gli autori hentai, sia in Italia sia in Giappone, non godano in generale di una buona reputazione. Purtroppo l’apprezzamento rimane limitato a un ristretto gruppo di appassionati che ha abbattuto pregiudizi e ignoranza. Ci accorgiamo allora che per rispondere al secondo quesito dobbiamo capire che cosa c’è di diverso nella cultura hentai rispetto alle altre manifestazioni della sessualità presenti nella nostra società. La risposta è banale ma inquietante. Nell’hentai non c’è alcunché di diverso. Analizzando le opere hentai ci accorgiamo che si fa uso di temi già presenti nella nostra cultura. Perfino le forme più estreme della sessualità sono indicate come sadismo e masochismo ossia parole che nascono dal nome di celebri scrittori occidentali: Sade (1760-1814) e Masoch (1836-1895).
Se l’hentai non presenta temi che non siano già stati affrontati in Occidente, perché averne paura? Per quale motivo temerlo tanto da indicarlo come devianza e sovversione? La risposta autentica è difficile da accettare. L’hentai fa paura perché è il prodotto di un’altra cultura. Così la sessualità, già ampiamente normalizzata dalla commercializzazione dell’eros, rischia di ritornare ad essere eversiva unendosi a una matrice culturale differente. Forse è questo che si teme? Indubbiamente ci sono molte esagerazioni, a volte perfino isterismi, nei confronti di tutto ciò che è giapponese. Risulta difficile distinguere le fobie dai fenomeni reali. In questo caso la distinzione è ancora più difficile, ed è sufficiente una lettura dei saggi dedicati all’argomento per accorgersi in quale guazzabuglio ci troviamo. Molti sociologi hanno contribuito notevolmente ad alimentare i pregiudizi sui manga hentai con analisi infarcite di errori e considerazioni fuorvianti. Fra le inesattezze e gli equivoci sostenuti c’è il pregiudizio che i manga hentai siano disegnati soltanto da uomini e per uomini. Questo è assolutamente falso. Le più brave autrici del genere bishoujo manga, un genere indubbiamente erotico, sono state donne. Ci sono poi i ladies comics, fumetti per donne adulte con forti contenuti sessuali, dove le autrici hanno creato un genere e aperto il settore a nuove possibilità. Non bisogna nemmeno dimenticare gli shonen ai, e tutte le riviste (come la famosa Juné) scritte soprattutto da autrici femminili. Quindi la fisima che i manga erotici siano scritti soltanto da uomini è un becero pregiudizio che sottovaluta la creatività femminile e la vorrebbe emarginare. Si rileva così che l’hentai nei suoi aspetti più creativi ed emancipati subisce l’ignoranza più gretta. Viceversa gli autori e le autrici di hentai hanno smosso con la loro fantasia un ampio settore editoriale. Dal punto di vista narrativo e grafico, insomma artistico, non c’è dubbio circa l’importanza e la vastità del fenomeno. Tanto che la cultura hentai costituisce un fenomeno unitario nella cultura giapponese, sfociando anche nelle espressioni d’arte accademiche come nel caso del fotografo Araki Nobuyoshi. Un’analisi più approfondita mostra come le tendenze e le mode, dalla musica all’abbigliamento, risentano dell’influenza della cultura hentai nelle forme più morbidi e dolci del kawaii. Ciò è innegabile. Quindi è fuorviante e privo di senso parlare ancora di subcultura o sottocultura nei riguardi di un fenomeno tanto pervasivo. Piuttosto rimane irrisolto il problema della contestualizzazione e interpretazione della cultura hentai. Oggi la cultura hentai mina le certezze dell’uomo occidentale. Emerge la difficoltà di attualità scottante che imprigiona il pensiero contemporaneo nelle categorie anguste e ristrette del dualismo. Soprattutto rimane l’incapacità di concepire la diversità come qualcosa dotato di proprie caratteristiche, invece di considerarla come ciò che si oppone e contrasta. Le motivazioni di questa incapacità non sono razionali, ma affondano nella paura istintiva e inconscia per tutto ciò che è diverso. La cultura hentai è straniera, e anche strana. La sua "estraneità" giustifica agli occhi degli ingenui ogni tipo di condanna. Da ciò scaturisce il valore etico della cultura hentai promotrice del pluralismo e della molteplicità espressiva, e infine sostenitrice della libertà sessuale. La libertà sessuale che è un valore imprescindibile per le nuove generazioni.

Bibliografia

Avella, Natalie, Graphic Japan. Dalla xilografia allo zen, dai manga al kawaii, Logos, Modena, 2005.
Bornoff, Nicholas, Pink Samurai. The pursuit and politics of sex in Japan, Harper & Collins, London,1994.Carey, Peter, Manga, fast food & samurai, Feltrinelli, Milano, 2006.
Leoni, Chiara, Takashi Murakami. Istericamente felice, in "Flash Art", n.256, anno XXXIX, febbraio-marzo 2006.
Martorella, Cristiano, La positività etica dei manga eroi, in "Diogene Filosofare Oggi", n.3, anno II, marzo-maggio 2006.
Nakamura, Akio, Otaku no hon, Takarajimasha, Tokyo, 1989.
Rossetti, Gabriele, Japan underground, Castelvecchi, Roma, 2006.
Posocco, Cristian, Mangart. Forme estetiche e linguaggio del fumetto giapponese, Costa & Nolan, Milano, 2005.



Articolo pubblicato dalla rivista "GX Magazine". Cfr. Cristiano Martorella, Cultura hentai, relativismo e politica sessuale, in "GX Magazine", n.24, giugno 2007, pp.25-33.

Letteratura oscena e disegni perversi

Articolo sui rapporti fra manga e letteratura giapponese pubblicato sul n.43 della rivista "Play X".

Cfr. Cristiano Martorella, Letteratura oscena e disegni perversi, in "Play X", n.43, maggio 2005, pp.48-49.

Letteratura oscena e disegni perversi
di Cristiano Martorella

I contatti fra manga e "altra" letteratura non sono mai stati messi abbastanza in evidenza in Occidente, incorrendo nel rischio di sottovalutare dei generi richiusi in settori troppo specialistici. Eppure questa letteratura, che pur usando mezzi espressivi diversi è decisamente un fenomeno unitario, ha una diffusione di massa ragguardevole. Cerchiamo quindi di porre rimedio a questa lacuna evidenziando il carattere unitario di manga e letteratura concentrandoci in particolare sul genere erotico. Se gettiamo uno sguardo sulle origini della letteratura popolare giapponese cogliamo già l’unità fra testo letterario e narrazione disegnata. Nei Koshokumono (storie erotiche) del XVII secolo, i volumi sono riccamente illustrati con stampe monocrome. Ad esempio, Cinque donne amorose (Koshoku gonin onna, 1686) di Saikaku Ihara fu illustrato con 24 stampe di Hanbei Yoshida, mentre Vita di un libertino (Koshoku ichidai otoko, 1682), fu pubblicato con 54 disegni dello stesso autore. Due anni dopo, quest’ultima opera venne illustrata da Moronobu, caposcuola dell’ukiyoe. Se si pensa che questo genere di illustrazioni diedero vita appunto al genere dello shunga (stampa erotica), si comprende lo stretto legame, mai cessato, fra letteratura e disegno erotico in Giappone. Ma ritorniamo al presente per analizzare da vicino alcuni casi fra i più noti.
Fra le scrittrici che hanno avuto contatti diretti con il mondo dell’hentai, ricordiamo Eimi Yamada. Prima del successo come romanziera, Eimi Yamada aveva lavorato come fotomodella, e soprattutto come autrice di testi di manga per adulti. Oggi questa attività è stata dimenticata, eppure i suoi romanzi erotici, come Occhi nella notte (Beddo taimu aizu, 1987), risentono fortemente l’influenza del ritmo e del linguaggio dei manga. Nei romanzi della scrittrice è il sesso il vero protagonista delle storie. Ella ama esplorare i corpi dei personaggi alla ricerca della più piena soddisfazione libera da falsi pudori e inutili sensi di colpa. L’affermazione assoluta dell’esigenza del piacere femminile espressa in modo chiaro ed esplicito, tanto da apparire trasgressiva. Eimi Yamada arriva a dire che "quello in cui tutti credono, vuoi o non vuoi, è sempre in qualche modo legato al sesso" (intervista della rivista "Nami", 8/1989). Piuttosto che una provocazione, si tratta di uno stile, uno stile decisamente hentai.
Esplicito è il rapporto fra manga e letteratura nelle opere di Kiriko Nananan che nasce come disegnatrice, spaziando però anche nella letteratura. Infatti i suoi testi sono considerati come letteratura vera e propria. In Italia una sua opera è stata pubblicata nell’antologia Rose del Giappone (Edizioni e/o, 1995) insieme ai racconti di Eimi Yamada, Yoko Ogawa e Keiko Ochiai. Molto vicina allo shojo manga, il lavoro di Kiriko Nananan si configura come frammenti di vita dove l’eros appare di sfuggita misto a momenti di quotidianità.
Anche Shungiku Uchida ha esordito appena ventenne come autrice di manga con testi e disegni suoi. Poi ha iniziato a scrivere racconti erotici dal 1993. In Italia una sua storia è apparsa nell’antologia di racconti erotici intitolata Sex & Sushi (Mondadori, 2001). Con linguaggio asciutto ed esplicito, Shungiku Uchida tratta temi di sesso estremo narrando le vicende di donne disinibite e volitive.
Nel mondo dell’hentai più perverso ci conduce il romanzo I maestri dell’eros (Erogotoshitachi, 1963) di Akiyuki Nosaka. Ormai un classico tradotto anche in italiano, I maestri dell’eros (Marsilio, 1998) è stato elogiato da Yukio Mishima come romanzo dissacratore e impertinente. Il romanzo narra le vicende di alcuni produttori di materiale pornografico, e si inserisce nel genere eroguro (erotico e grottesco) per il tono ironico e nel contempo sensuale.
La scrittrice Rieko Matsuura descrive la storia di un’autrice di manga erotico-horror in Corpi di donna (Nachuraru uman, 1987). Il libro tradotto in italiano (Marsilio, 1996) è decisamente esplicito mostrando situazioni di sesso lesbo, rapporti sadomasochistici e amplessi ardenti. Nel romanzo L’alluce P (Marsilio, 1998) di Rieko Matsuura, lo stile manga con i suoi eccessi e cliché traspare chiaramente. In pura maniera hentai, ella descrive vicende inverosimili di uomini dotati di due falli, di vagine dentate, e della protagonista Kazumi con un membro maschile al posto dell’alluce. La critica letteraria ha perciò definito l’opera della scrittrice come "pornografia pulp", riconoscendone d’altronde il grande successo.
In conclusione, risulta in modo inequivocabile l’unità di letteratura e manga in Giappone, aspetto che risulta ancora più evidente analizzando il settore commerciale e scoprendo che molti grandi editori di narrativa sono anche editori di fumetti. Perciò quando si parla di hentai, si dovrebbe ricordare il contributo fondamentale fornito dalla letteratura evitando di farsi ingabbiare nello schematismo accademico. In Giappone il romanzo erotico può vantare una lunga tradizione e una grande diffusione, tanto che Takashi Furubayashi e Yukio Mishima, in una loro conversazione, hanno criticato la moda di considerare il sesso come opposizione al sistema, ridimensionando un fenomeno dalle enormi proporzioni. Anche il politologo Masao Maruyama ha messo in evidenza il proliferare della narrativa erotica definita "letteratura carnale". Egli riscontra una specificità giapponese nel compiacersi di una sessualità anormale (hentai), rintracciando un rapporto fra arte erotica e politica, e condannandone l’arretratezza intellettuale. Secondo Maruyama la mentalità giapponese pecca di un eccessivo sensualismo inadatto allo sviluppo di forme e istituzioni democratiche. Però questa tesi non è l’unica prospettiva possibile, e possiamo spiegare diversamente il fenomeno hentai sia in letteratura sia nel fumetto. In realtà la sessualità è l’unica sfera in cui i cittadini giapponesi possono vantare un’assoluta libertà. Ma la libertà sessuale da sola non è opposizione al sistema politico, come interpretato da alcuni. Affinché il sesso diventi critica sociale, bisogna che esca fuori dalla standardizzazione e acquisti un valore assoluto, così che diventi erotismo ossia ideologia dell’eros. In quel caso la letteratura diviene oscena perché mostra ciò che il perbenismo nasconde, e il disegno diviene perverso perché diverso dalla rappresentazione omologata del mondo.


Articolo pubblicato dalla rivista "Play X". Cfr. Cristiano Martorella, Letteratura oscena e disegni perversi, in "Play X", n.43, maggio 2005, pp.48-49.

Bishojo, la rivolta delle belle ragazze

Ripropongo il mio articolo dedicato ai bishojo manga [bishoujo manga] pubblicato dalla rivista "GX Magazine" e dal sito Nipponico.com. L'articolo è stato tratto dal sito Nipponico.com alla voce Bishoujo. La rivista "GX Magazine" lo ha ripubblicato sulle sue pagine considerandone il valore e l'importanza. In proposito si ringrazia Francesco Fondi per la gentile collaborazione.

Cfr. Cristiano Martorella, Bishoujo. La rivolta delle belle ragazze, in "GX Magazine", n.21, settembre-ottobre 2006, pp. 38-39.


Bishojo, la rivolta delle belle ragazze
Le implicazioni politiche e sociali dei manga
di Cristiano Martorella

Non esiste uno scontro fra Occidente e Oriente. Questo conflitto è una semplificazione vantaggiosa per chi ha l'intenzione di occultare gli interessi economici e politici di una élite impegnata a trovare il consenso, a imporre una propria idea del mondo, a eliminare le alternative. Estendere questo controllo sulle menti dei giovani è una direttiva essenziale per garantire la leadership futura dello stesso gruppo dirigente che attualmente detiene il potere. Perciò indicare le istanze giovanili come perversioni è la strategia consueta per sopprimere le diversità. A livello globale ciò viene inserito nel dualismo dello scontro epocale fra Occidente e Oriente, nel conflitto culturale fra sistemi di pensiero e ideologie. Non sorprende dunque che il fumetto e l'animazione giapponese siano stati considerati con estrema serietà quali oggetti di corruzione delle attuali generazioni di giovani europei. Fra la schiera di studiosi che hanno sostenuto ciò ricordiamo Sharon Kinsella, Anne Allison e le italiane Vera Slepoj e Maria Rita Parsi. I loro interventi sono così numerosi e documentati che negare quanto affermato è impossibile. Purtroppo non esiste un confronto fra le diverse posizioni accademiche e ogni ricercatore continua le sue indagini isolatamente ignorando il lavoro altrui(1). Ciò è l'indizio della scorrettezza con cui si conducono le ricerche, che spesso sono soltanto l'esposizione di propri pregiudizi e opinioni prive di valore scientifico.
Davvero esiste una gioventù ribelle giapponese come vorrebbero farci credere gli psicologi e i sociologi? Le interviste di Leonardo Martinelli(2) hanno dimostrato il contrario. Il look aggressivo dei giovani giapponesi resta un modo per affermare la propria identità distinguendosi. A volte, viceversa, è l'imposizione di una tendenza e la voglia di fare parte di un gruppo. Comunque, in ogni caso, si cerca il riconoscimento (quello che i filosofi e i sociologi chiamano thymos). Pur avendo fornito un resoconto circostanziato e dettagliato, l'articolo di Leonardo Martinelli è stato volutamente ignorato.La verità è che la gioventù, e non solo quella giapponese, sta apparendo ribelle a causa dell'oppressione degli psicologi e dei sociologi sempre pronti a condannare e mai disponibili a capire. Gli adulti, con il loro mondo di violenze e ipocrisie, sono un pessimo modello che i giovani, fortunatamente, tentano ancora di rifiutare. Attualmente leggere un manga è considerato dagli psicologi italiani come una devianza, o addirittura una perversione. Queste esagerazioni hanno avuto il sostegno della stampa sempre pronta a creare nuovi mostri. Tuttavia la critica serrata di molti autori in difesa di anime e manga, fra cui ricordiamo Luca Raffaelli, Davide Castellazzi e Marco Pellitteri, non è stata mai confutata dimostrando la falsità delle ipotesi contro la cultura giapponese.
Gran parte delle considerazioni degli studiosi sulla cultura giovanile vertono sull'impatto e l'influenza dei manga e degli anime, perciò è bene tracciarne un quadro storico più chiaro, con particolare attenzione al genere più controverso, ovvero il manga erotico. Bishojo significa bella ragazza. Il genere bishojo manga, il fumetto erotico giapponese in stile non realistico, nasce intorno agli anni '80 dalla congiunzione di due generi molto affermati, lo shojo manga, fumetto per ragazze, e l'adult manga, fumetto pornografico. Prima dell'avvento dello shojo manga, i fumetti giapponesi per adulti ricalcavano lo stile realistico e drammatico detto shunga manga, che aveva una certa continuità con il gekiga, il fumetto realistico. L'espansione del genere shojo manga influenzò e permeò talmente gli altri generi da divenire una tendenza affermata anche a livello culturale ed estetico sotto la bandiera del kawaii (carino). Gli aspetti erotici già presenti nello shojo manga furono esaltati dal bishojo manga che non faceva che riprendere e amplificare qualcosa già esistente. Il manga Berusaiyu no bara (Lady Oscar) di Ikeda Riyoko è un esempio evidente del sottile erotismo degli shojo manga. Perfino un manga apparentemente innocente come Candy Candy di Mizuki Kyoko e Igarashi Yumiko contiene riferimenti velatamente erotici. Ciò spiega l'accanimento della censura italiana e i tagli esorbitanti effettuati sugli anime trasmessi in Italia.
Nella cultura giapponese non esiste una separazione netta fra sesso e amore così come è stata formulata dagli occidentali. L'attività sessuale (sekkusu suru) è considerata naturale, e non è in antitesi con i sentimenti amorosi. La morale occidentale bigotta ha sempre sostenuto la superiorità del sentimento sul sesso, negando la possibilità di provare emozioni profonde tramite il piacere dell'attività sessuale. Ciò non ha senso per la mentalità giapponese che vede una continuità fra sesso e amore invece di un'opposizione. Quanto detto ci permette di capire la presenza di un sottile erotismo nel fumetto per ragazze (shojo manga) dove le storie romantiche e sentimentali sono dominanti, ripreso e amplificato nel bishojo manga che non disdegna una trama sentimentale nonostante l'abbondanza di riferimenti sessuali.
Il passaggio dallo shojo manga al bishojo manga avvenne gradualmente. Nakajima Fumio, autore di manga in stile semirealistico, cambiò il suo stile sposando il genere bishojo. Ciò avveniva intorno alla fine degli anni '80. Nakajima Fumio era stato anche l'autore del primo adult anime video (AAV) intitolato Yuki no kurenai kesho (Il trucco rosso di Yuki, 1984). Ma furono tante le donne che vivacizzarono il genere erotico passando dallo shojo manga al bishojo manga portando la loro esperienza e bravura. Ricordiamo Akasha Mitona, autrice di Metamorphose (1992), un manga che gioca con l'identità sessuale. Miyamoto Rumi riprendeva il tema della timidezza femminile nel manga Binkan meganekko (Tenere quattrocchi, 1992). Marino Aya scherzava sulle situazioni che vedono le donne in un ambiente di lavoro tipicamente maschile come in Ikenai shisen sakura iro (Fare l'occhiolino è rosa ciliegia, 1991). Ramiya Ryo sceglieva temi a tinte fosche simili ad horror, con i personaggi di graziose vampire e zombi come in Zombi no shitatari (Gocciolio dello zombi, 1990) e Crescent Night (1993). Asano Kaori era autrice di Vanity Angel (1993) pubblicato dalla Fujimi, un manga che gioca sui difetti del narcisismo femminile. Fra le autrici di testi per manga erotici ricordiamo la scrittrice Yamada Eimi, un'altra firma prestigiosa che cominciò la carriera nel mondo dei manga per adulti. Queste autrici hanno il merito di aver dato un'impronta femminile al genere del fumetto erotico giapponese. Purtroppo in Occidente non si è minimamente capita l'importanza del contributo delle donne nel fumetto erotico giapponese sostenendo il solito pregiudizio che ritiene la pornografia un appannaggio esclusivamente maschile. Sharon Kinsella è fra coloro che hanno contribuito a sostenere questo equivoco. Ciò può accadere soltanto grazie alla consueta ignoranza che circonda la cultura giapponese. Se i giovani fanno notare gli errori degli adulti vengono immediatamente bollati come ribelli.
Le belle ragazze giapponesi usano il proprio corpo per affermare l'identità sessuale, e quindi per continuità, l'identità personale. Psicologi e sociologi vorrebbero negare questa conquista di autonomia e indipendenza dei giovani per relegarli in posizioni secondarie e subordinate. Lo scontro che sta emergendo è quello fra una élite che detiene il controllo socio-politico e chi vuole conquistare un proprio spazio nella società. Chiamare ciò conflitto generazionale è limitativo e fuorviante. Lo scontro autentico è quello fra gli oscurantisti e gli spiriti liberi.

Note

1. Chi scrive ha presentato una quantità ragguardevole di ricerche su manga e anime nelle sedi accademiche dell'Università degli Studi di Genova e al Centro Studi di Letteratura Giovanile del Comune di Genova. Però aver dimostrato su basi scientifiche gli errori dei sedicenti esperti non è servito a cambiare i discorsi pregiudiziali della stampa generalista.
2. Cfr. Martinelli, Leonardo, Harajuku. Questa pazza, pazza Tokyo..., in "Gulliver", anno IX, n. 3, marzo 2001, pp. 50-78. Leonardo Martinelli, corrispondente dal Giappone per varie testate giornalistiche, è fonte attendibile. L'articolo non è stato citato e nemmeno contestato da coloro che si definiscono studiosi della cultura giovanile. Semplicemente è stato ignorato perché smaschera tutti gli errori di testi che presentano soltanto stereotipi.

Bibliografia

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Hite, Shere, Il primo rapporto Hite, un'inchiesta sulla sessualità femminile, Bompiani, Milano, 1977.
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Martorella, Cristiano, I fumetti del ciliegio in fiore, in "Il Golfo. Quotidiano dell'area sorrentina e Capri", anno VI, 1 marzo 1996.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in "Sushi", n. 3, ottobre 1996.
Martorella, Cristiano, Il kawaii prima del kawaii, in Pellitteri, Marco (a cura di), Anatomia di Pokémon, Seam, Roma, 2002.
Martorella, Cristiano, Quando Uzume salvò il mondo con una risata, Relazione del corso di Linguistica, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, Genova, 1999.
Masters, William e Johnson, Virginia, L'atto sessuale nell'uomo e nella donna, Feltrinelli, Milano, 1967.
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Yamada, Eimi, Occhi nella notte, Marsilio, Venezia, 1994.



Articolo pubblicato dalla rivista "GX Magazine".Cfr. Cristiano Martorella, Bishoujo. La rivolta delle belle ragazze, in "GX Magazine", n.21, settembre-ottobre 2006, pp. 38-39.

domenica 18 ottobre 2009

Il kawaii prima del kawaii

Paragrafo Il kawaii prima del kawaii pubblicato nel libro Anatomia di Pokémon. Cfr. Cristiano Martorella, Il kawaii prima del kawaii, in Marco Pellitteri (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002, pp.185-192.


Il kawaii prima del kawaii
di Cristiano Martorella

Con il termine di cultura kawaii si indica il gusto e l’atteggiamento di una generazione di giovani giapponesi (la fascia d’età si sta allargando sempre più) che si riconoscono in una mancanza di ideologia e preferiscono rifugiarsi in un mondo infantile costituito da moine, atteggiamenti puerili, mode eclettiche e kitsch del vestiario, gadget, tendenze e linguaggi da bambino, cercando di ritardare sempre più la partecipazione al mondo adulto. La parola kawaii significa infatti "carino", ed acquista una connotazione particolare per indicare questo universo giovanile in continuo mutamento. Il fenomeno ha assunto importanza e attenzione quando i sociologi hanno cominciato a scriverne ampiamente, e a caratterizzare con il termine cultura kawaii fenomeni diversi che abbracciavano però una stessa tipologia di giovani. Probabilmente, il successo della definizione di cultura kawaii è attribuibile alla sociologa statunitense Merry White che ne fece un uso molto preciso in alcuni suoi scritti (cfr. Merry White, The Material Child. Coming of Age in Japan and America, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1994).
Questo ideal-tipo è servito ad orientarsi abbastanza bene nel magmatico e sempre mutevole mondo giovanile giapponese, ma più spesso ha offerto problemi di carattere generale quando si cercava di comprendere il comportamento delle diverse generazioni di giapponesi considerate simultaneamente, e non forniva nessun tipo di spiegazione plausibile sulla società giapponese contemporanea complessiva. E ciò contribuiva a tenere separati gli studi antropologici sulla cultura dei consumi e dei mass-media dagli studi sociologici di carattere generale, creando un certo ritardo nella comprensione dei fenomeni ed etichettando come sub-cultura ciò che non rientrava nel modello più ampio e generale della società giapponese.
È possibile parlare del kawaii senza chiuderci in questa prospettiva, senza rinunciare a una spiegazione del fenomeno all’interno dell’intera cultura giapponese? Sicuramente un’analisi di questo genere deve tenere presente due livelli che fanno riferimento al kawaii: 1) sociologico 2) estetico. Infatti è soprattutto grazie al secondo, l’estetico, che viene costruita concretamente la cultura kawaii. Un’idea chiara del livello estetico permette una comprensione (verstehen secondo la terminologia weberiana che qui rispettiamo) delle relazioni e delle azioni dei singoli individui.
Premesso ciò, partiremo dal livello sociologico per mostrare le difficoltà che nascono senza un’opportuna conoscenza del funzionamento dell’aspetto estetico. Cercheremo di superare questa impasse grazie all’introduzione di una proposta di lettura del kawaii a livello estetico.
La cultura del kawaii viene generalmente inserita nel contesto più ampio del concetto di moratoria (in giapponese moratoriamu), ossia il rifiuto di crescere, di entrare a far parte del mondo adulto e il tentativo di cristallizzare l’età infantile a tempo indeterminato. Essa si manifesterebbe come un fenomeno di disimpegno sociale, di rigetto dei valori e dei ruoli sociali (compreso il gender), di rifugio nell’immagine di eterno bambino (cfr. Hoshino Katsumi, Shohi no jinruigaku, Toyo keizai shinposha, Tokyo,1984). Però ci sono alcuni punti di questo modello teorico che non rispondono alla realtà osservata, e c’è da sospettare che ci siano almeno degli aspetti trascurati.
Se la cultura del kawaii corrispondesse al concetto di moratoria, a una contestazione non ideologica al sistema di valori tradizionali della società giapponese, non si capirebbe perché dopo trent’anni di osservazione del fenomeno non si sono riscontrati sensibili cambiamenti nella società stessa. Le generazioni a cui si riferivano i primi studi sono ormai integrate, volenti o nolenti, nel mondo adulto. Ed esse stesse contribuiscono a sostenere e tramandare quei valori apparentemente contestati.
Si dovrebbe pensare che il sistema di valori della società giapponese è talmente forte da piegare ogni tipo di reazione? Ma per dimostrare qualcosa del genere si dovrebbe fare ricorso a spiegazioni aberranti (c’è chi ha provato a farlo, ma questo genere di spiegazioni lascia comunque molto insoddisfatti). Invece è molto più semplice inquadrare il problema in una prospettiva generale che è stata già studiata, quella del conflitto fra generazioni, e approfondire piuttosto l’analisi dei valori tramandati e contestati.
Quando gli studiosi del XIX secolo imbastirono i primi tentativi di teorie per spiegare questi fenomeni, trovarono un supporto molto utile nella raccolta sedimentata e razionalizzata di valori ed emozioni del mito greco. Ciò è talmente significativo che ancora oggi possiamo ricordare il mito di Crono per comprendere la dialettica del conflitto fra generazioni. Il padre di Crono era Urano, padrone dell’universo che per conservare il potere relegava i figli nel Tartaro, il regno degli inferi. Crono si ribellò e con una falce mutilò il padre. Ma egli stesso ebbe un comportamento identico, anzi ancora più brutale, divorando i figli. In pratica sostituì il suo stomaco al Tartaro. Con l’inganno si sottrasse a tale sorte il figlio Zeus che lo vinse e spodestò (cfr. Esiodo, Opere, Einaudi-Gallimard, Torino, 1998). In parole semplici, Crono non fece altro che uccidere il padre e sostituirsi a lui acquisendone lo stesso ruolo e i medesimi valori. Ciò ci permette di mettere in evidenza come il conflitto fra generazioni comporti l’interiorizzazione dei valori della generazione precedente in quella successiva. La dialettica padre-figlio è stata studiata anche da Georges Balandier che descrive puntualmente i meccanismi di riproduzione sociale, della dinamica dei gruppi, e della strutturazione della società (Georges Balandier, Società e dissenso, Dedalo, Bari, 1977). Questo non significa che le società restino immobili e prive di cambiamenti, ma soltanto che non bisogna farsi ingannare da un conflitto generazionale che è una tappa necessaria dell’organizzazione sociale. Le trasformazioni sociali, spesso grandi, avvengono e investono livelli diversi che riguardano direttamente le strutture sociali (si pensi al quadro descritto da Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974).
Queste premesse e osservazioni ci sono servite per respingere l’idea che la cultura kawaii sia una forma di contestazione che si oppone radicalmente alla cultura giapponese tout court. La nostra tesi sostiene invece che il kawaii non è altro che una interiorizzazione in forme estreme e singolari dei valori giapponesi tradizionali. Se dovessimo accettare la tesi che interpreta la cultura kawaii come antitetica alla cultura tradizionale giapponese, dovremmo paragonare i due sistemi e trovare delle differenze nette e sostanziali. In effetti, esiste un concetto che sembra rappresentare l’antitesi della cultura kawaii, si tratta della cultura del samurai. In tal senso siamo fortunati perché le opere sulla cosiddetta cultura del samurai sono abbondanti, a partire da Bushido, testo chiaro e fondamentale (Nitobe Inazo, Bushido, Kodansha, Tokyo, 1998, il testo originale risale però al 1900). Ma è proprio studiando la cultura tradizionale giapponese che non si riescono a trovare antitesi con la cultura kawaii, ma la contrario si scoprono le sue origini e se ne comprendono le motivazioni.
La cultura del samurai fonda la sua etica sull’integrità e l’onore del singolo individuo, tramite la disciplina zen che definisce gli aspetti della vita secondo una dottrina non finalistica e non salvifica. Questo non è un particolare irrilevante, poiché l’etica del samurai non ha nulla in comune con il concetto occidentale di morale. Essa è essenzialmente orientata al soggetto e indifferente. Adesso, riscontriamo che anche la cultura kawaii è orientata al soggetto e indifferente. Come sanno bene gli orientalisti, l’etica del samurai non è nemmeno una morale nel senso occidentale, ma piuttosto una forma estetizzante della vita (cfr. Joseph Campbell, Mitologia orientale, Mondadori, Milano, 1991). Lo stesso samurai paragonava la sua esistenza al fiore di ciliegio, bello ed effimero. E la produzione artistica è profondamente caratterizzata dall’attenzione e sensibilità per le facezie, le piccole cose quasi insignificanti, i particolari (cfr. Sei Shonagon, Note del guanciale, Mondadori, Milano, 1990).
Famosa è l’espressione mono no aware o shiru (sentire il sentimento delle cose), una sorta di compenetrazione dell’animo nel mondo circostante. Ebbene, è lo stesso principio che permette nella cultura kawaii di far assurgere a massimo valore un gadget, un nastro o qualsiasi altro oggetto futile che viene investito con una connotazione emotiva.
A questo punto siamo arrivati al livello estetico. Chiunque voglia tentare di spiegare l’estetica giapponese deve partire dall’opera ormai fondamentale di Kuki sul sentimento giapponese del grazioso (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, Adelphi, Milano, 1992). Un’analisi accurata ci permette di definire il kawaii come una mutazione, uno spostamento dell’iki (grazia) rispetto alle coordinate fissate da Kuki. Questo non significa che il kawaii non sia in relazione con i sentimenti del bello tradizionali dei giapponesi, anzi ne individua le origini e ne spiega il funzionamento. Tenendo presente lo studio di Kuki, riconosciamo che il kawaii ha in comune con l’iki alcuni punti. Ad esempio, una specie di liberazione (gedatsu) dalla convenzione attraverso il piacere e un’anima disponibile al cambiamento. Rispetto all’iki, c’è uno spostamento verso la vistosità (hade) e soprattutto una vicinanza alla dolcezza (amami), ma come l’iki conserva una relazione con la distinzione (johin). Sembrerebbe che le ultime tendenze delle ragazze di Tokyo confermino questo modello. Infatti è emerso un nuovo gruppo della cultura kawaii che si definisce ego-make. Caratteristica del kawaii sarebbe appunto la ricerca di questa distinzione, dell’essere diversi (e non contro qualcosa o qualcuno).
In conclusione, sembrerebbe che il quadro sia ormai completo. Ma un ultimo caso, abbastanza importante, può essere fornito per concludere questa rilettura della cultura kawaii. Si tratta del teatro Takarazuka (una sua descrizione ci è fornita da Renata Pisu, Alle radici del sole, Sperling & Kupfer, Milano, 2001).
Il Takarazuka è la forma più esplicita della cultura kawaii eppure le sue origini risalgono al 1916 circa. In quell’anno l’imprenditore Kobayashi Ichizo decise di fondare un teatro composto da sole ragazze (rigorosamente vergini, pena l’espulsione) per aumentare l’attrattiva di una piccola cittadina, Takarazuka nella prefettura di Hyogo, poco distante da Osaka. Oggi Takarazuka è diventata un monumento vivente della cultura kawaii caratterizzata da questo concetto estremo di femminilità e innocenza infantile. Il teatro Takarazuka è anche il simbolo, con le sue attrici (adorate soprattutto da un pubblico femminile), di un modello estetico androgino, una indifferenza al gender in nome di un ideale estetico superiore. E questo non dovrebbe meravigliarci considerando l’insistenza sull’identificazione dell’etica giapponese in una forma di estetica onnicomprensiva.
In conclusione, il kawaii non è affatto una sub-cultura, ma una parte integrata e fondamentale della cultura giapponese senza la quale non sarebbe concepibile e costruibile la complessità di quel sistema di valori. Le stesse attrici del Takarazuka ci ricordano quanto il loro essere diverse (johin, distintive) sia una qualità apprezzata che permette di integrarsi perfettamente. Infatti, dopo la breve carriera (l’età è fondamentale) ricevono richieste di matrimonio da importanti personaggi. L’attrice del Takarazuka, così come una volta la geisha, viene considerata una sposa ideale perché conoscitrice delle arti tradizionali (ikebana e chado) e della disciplina. Si tratta quindi di una prospettiva ben diversa che ci faceva immaginare la cultura kawaii come marginale e in opposizione alla società. Anche le altre aidoru, ma anche le ragazze più semplici (come le commesse di importanti locali, chiamate karisuma, carisma, che dettano le tendenze), sono una realtà propositiva e altamente produttiva. Una società consumistica e altamente sviluppata sotto il profilo tecnologico come quella giapponese, ha bisogno delle risorse della cultura kawaii per promuovere e incentivare lo sviluppo spasmodico del sistema.
Piaccia o non piaccia, la cultura kawaii è altamente integrata nella società giapponese ed è all’origine della produzione creativa che ha permesso lo sviluppo di una società che ha conosciuto un benessere come nessun’altra per trent’anni ininterrotti. Se quel ciclo sta conoscendo attualmente un rallentamento, è da auspicare, come indicato dall’economista Ohmae Kenichi [Omae Ken'ichi] , che si trovino le risorse creative e l’entusiasmo nelle nuove generazioni, le stesse che sono portatrici della cultura kawaii (cfr. Ohmae Kenichi, Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001, pp.350-351).


Paragrafo del libro Anatomia di Pokémon. Cfr. Cristiano Martorella, Il kawaii prima del kawaii, in Marco Pellitteri (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002, pp.185-192.