Articolo sul pensiero giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.
Shiso, il pensiero giapponese
La filosofia oltre lo scontro di civiltà
di Cristiano Martorella
22 settembre 2002. Affermare che la filosofia giapponese abbia un carattere universale e internazionale può sembrare provocatorio. Ma cosa può svegliare dal torpore dell’intelletto che sembra essersi rassegnato alla banalità del male? La resa incondizionata all’idea dello scontro di civiltà (clash of civilizations) è condivisa da molti, però non da tutti (1). Così la provocazione può dimostrarsi un’autentica rivelazione.
In giapponese si indica con shiso il pensiero, in particolare il pensiero filosofico o concettuale. Il termine è composto da due kanji: il primo (shi) è lo stesso del verbo omou (pensare), il secondo (so) è anch’esso letto omou ed è sinonimo di pensiero, idea. Dunque shiso è il pensiero speculativo o filosofico, mentre il pensiero comune o un pensiero qualunque è indicato dalla parola kangae. Questa distinzione introdotta nella lingua giapponese è stata necessaria a causa della differente concezione del pensiero nell’antica cultura giapponese. Questo diverso contesto linguistico e concettuale implica un’opposizione assente in altre lingue come l’inglese o l’italiano. Il verbo omou, infatti, indica il pensare (to think), ma anche il sentire (to feel), il credere (to believe), lo sperare (to hope) e il volere (to want). L’aspetto puramente concettuale del pensiero doveva essere indicato con un altro termine coniato appositamente, appunto shiso. Ciò ci mette in guardia e ci anticipa la considerazione dei saggi giapponesi nei confronti del pensiero, una stima molto influenzata dal buddhismo e fortemente critica.
Il Buddha Shakyamuni insiste sull’importanza di mantenere il controllo sul pensiero che essendo illusorio per sua natura è potenzialmente nocivo. Questo insegnamento è esposto anche nel Dhammapada (in sanscrito Dharma-pada, Versetti della Legge).
"Si domini il pensiero, inafferrabile, leggero, che si getta su ciò che gli piace. Il pensiero domato è portatore di felicità. Custodisca l’uomo accorto il pensiero, difficile da percepire, guizzante, che si getta su ciò che gli piace. Il pensiero ben guardato porta felicità. Coloro che controllano il pensiero, che viaggia lontano, che cammina solo, incorporeo, che alloggia nel cuore, costoro si liberano dei vincoli del male." (Dhammapada, III, 35-37)
Ma il buddhismo non si limita ad affermare la fallacia del pensiero che necessita quindi di continuo controllo (altrimenti si getterebbe "su ciò che gli piace"). Il buddhismo Mahayana stabilisce che la realtà stessa è pensiero. Tutto ciò che ha forma è illusorio. E quando si vede che ogni forma è vuota, si riconosce il Buddha (Vajracchedika, 5). Le pretese del pensiero speculativo vengono addirittura ridicolizzate. Buddha paragona il filosofo a un ferito che, anziché farsi medicare, vuole sapere chi l’ha colpito, di quale materiale è composta la freccia, e così via. Quest’uomo si perde in questioni irrilevanti, trascurando l’essenziale (Majjhima nikaya, 63).
Il succo dell’insegnamento buddhista è il dharma (legge) che può essere riassunto come il riconoscimento della natura del reale:
1) Impermanenza del pensiero
2) Impermanenza dei fenomeni della realtà
3) Interconnessione e relazione dei fenomeni
Nel suo atteggiamento radicalmente antispeculativo, il buddhismo proclama il carattere "vuoto" del dharma. La dottrina del Buddha non è una teoria, ma un esercizio per liberare l’uomo. Come tale essa è vuota (sunya). Buddha Shakyamuni affrontò la questione con una parabola. Egli paragonò la dottrina buddhista a una zattera, utile per arrivare da qualche parte, ma va poi accantonata una volta raggiunto lo scopo o la terraferma (Majjhima nikaya, 22). Il valore dei princìpi buddhisti è puramente strumentale. Attinta l’illuminazione, essi si rivelano superflui, per non dire paralizzanti. La zattera di Buddha è come la scala del filosofo Ludwig Wittgenstein.
"Le mie proposizioni sono chiarificazioni le quali illuminano in questo senso: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse - su esse – oltre esse. Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito. Egli deve superare queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo." (Tractatus Logico-Philosophicus, 6.54)
Se Buddha Shakyamuni aveva contestato la realtà assoluta del pensiero, fino a capovolgere la questione e sostenere che la realtà stessa sarebbe soltanto pensiero, il buddhismo zen giapponese ha amplificato questa riflessione rigettando ogni dottrina speculativa e preferendo i metodi pratici. Lo zen insiste sul riconoscimento dell’impermanenza delle cose mondane (shogyo mujo) e sull’unica realtà che costituisce l’universo ossia il nulla (mu). Questa posizione vanifica ogni tentativo di afferrare con il pensiero qualcosa che si rivela inafferrabile semplicemente perché vuoto. Ma costituisce anche l’abbattimento della barriera che ci separa dal mondo e dagli altri esseri viventi.
"Nella mia tradizione, ogni volta in cui giungo le mani per inchinarmi profondamente davanti a Buddha recito questa breve strofa: Colui che si inchina e porta rispetto, e colui che riceve l’inchino e il rispetto, sono entrambi vuoti. Per questa ragione la comunione è perfetta." (2)
La filosofia giapponese rompe con la tradizione speculativa che considera il pensiero come un oggetto reale e si ricongiunge con le posizioni più avanzate della filosofia occidentale. Non bisogna supporre che l’atteggiamento della filosofia giapponese nei confronti del pensiero sia isolato, poiché esistono delle fortunate eccezioni. Questo è il caso di Ludwig Wittgenstein che giunse a sostenere perfino che il significato di una parola è il suo uso (ammettendo dunque il carattere vuoto del pensiero).
"I filosofi, che credono che pensando si possa, per così dire, estendere l’esperienza, dovrebbero riflettere che per telefono si può trasmettere un discorso, ma non il morbillo. […] Nei miei pensieri, con le parole, non posso certo carpire una previsione di qualcosa che non conosco (Nihil est in intellectu). Come se potessi arrivare al pensiero, per dir così, dal di dietro, e furtivamente gettare uno sguardo su ciò, che dal davanti mi è impossibile scorgere. Perciò c’è qualcosa di vero nel dire che l’inimmaginibilità è un criterio dell’insensatezza." (3)
Wittgenstein abbandona la concezione del pensiero come di qualcosa superiore alle percezioni e dunque perfetto. Al contrario, il pensiero non ha una natura propria piuttosto è l’apparenza di un comportamento umano (questa dottrina è chiamata "comportamentismo logico" ed è attribuita anche al filosofo Gilbert Ryle) (4). Una formula va intesa come una prassi determinata dall’uso.
"Si può dire: "Il modo in cui la formula viene intesa determina quali passaggi si debbano compiere". Qual è il criterio per stabilire in che modo viene intesa la formula? Forse il modo e la maniera in cui la usiamo costantemente, il modo in cui ci è stato insegnato ad usarla." (5)
Ciò si estende all’intero linguaggio (e dunque al pensiero). Il significato di una parola è il suo uso.
"Ma allora il significato di una parola che comprendo non può convenire al senso della proposizione che comprendo? O il significato di una parola convenire al significato di un’altra? Certo, se il significato è l’uso che facciamo della parola, non ha alcun senso parlare di un tale convenire." (6)
Qual è però il rapporto fra questa filosofia nippo-europea e lo scontro di civiltà evocato all’inizio? Paradossalmente è estremamente semplice. Nell’Ottuplice Sentiero (astanga-marga) esposto da Buddha, si succedevano la retta conoscenza, il retto pensiero, la retta parola, la retta azione e la retta condotta di vita. Se ci liberiamo dai ceppi del pensiero, il cambiamento immediato si ripercuoterà nella nostra vita. Per quanto riguarda lo scontro di civiltà, è sufficiente smettere di pensare l’esistenza e la legittimità della guerra santa. Finché crederemo alla logica della guerra non avremo alternative, poiché lo scontro esisterà fino al giorno in cui lo penseremo. La guerra non è una realtà immutabile, ma la proiezione mentale delle paure umane. Combattiamo perché pensiamo che sia inevitabile. Se gli uomini continueranno a concepire le relazioni sociali soltanto in termini di scontro, ebbene non vi sono altre possibilità. L’errore è nell’attaccamento a questo pensiero.
Così Shibayama Zenkei auspica il successo della filosofia giapponese per il benessere e la pace dell’umanità.
"Oggi il mondo intero, in Oriente e in Occidente, sembra attraversare un periodo di convulsa trasformazione, un’epoca di travaglio in cui cerca di dar vita a una nuova cultura. Le tensioni che colpiscono tante parti del nostro pianeta non possono certo avere un’unica causa, ma una delle principali è certamente il fatto che, mentre sono stati compiuti notevoli progressi nell’uso della moderna conoscenza scientifica, noi esseri umani non ci siamo sviluppati abbastanza sul piano spirituale ed etico per vivere in queste nuove condizioni. È quindi assolutamente necessario dar vita a una nuova civiltà, attraverso una più profonda comprensione dell’essere umano e un più alto livello di spiritualità. […] Lo zen rappresenta una cultura spirituale unica in Oriente; possiede una lunga storia e antiche tradizioni e io credo che abbia fondamentali valori universali in grado di contribuire a creare una nuova civiltà spirituale." (7)
Non ci sono molte alternative. Se non si perverrà, come auspicato da Shibayama, alla costituzione di una filosofia che unisca Oriente e Occidente, non vi sarà più una filosofia. E non ci sarà filosofia perché non ci sarà umanità. La filosofia nippo-europea costituisce il primo tentativo di questa filosofia del futuro.
Note
1. Fu Huntington a coniare l’espressione "scontro di civiltà". Cfr. Huntington, Samuel, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York, 1996 (trad. it. Lo scontro di civiltà e la ricostruzione dell’ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997). La sua tesi fu criticata duramente da Fukuyama. Cfr. Fukuyama, Francis, The Great Disruption, Free Press, New York, 1999 (trad. it. La Grande Distruzione, Baldini & Castoldi, Milano).
2. Thich Nhat Hanh, The Heart of Understanding: Commentaries on the Prajna-paramita Heart Sutra, Parallax Press, Berkeley, 1988.
3. Wittgenstein, Ludwig, Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, Einaudi, Torino, 1986, p.58-59.
4. Cfr. Ryle, Gilbert, Lo spirito come comportamento, Einaudi, Torino, 1955.
5. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995, p.103.
6. Ibidem, p.74.
7. Shibayama, Zenkei, Un fiore non parla. Saggi zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1999, p.9.
Bibliografia
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Bareau, André, Vivere il buddismo, Arnoldo Mondadori, Milano, 1990.
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Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori, Relazione del corso di filosofia del linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Genova, 1999.
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