Articolo pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Wakugumi.
Wakugumi
Il nuovo paradigma teorico della filosofia giapponese
di Cristiano Martorella
1. Nuovo paradigma
Nella terminologia filosofica si indica con paradigma (dal greco parádeigma) un insieme di teorie e pratiche che funge da modello nell’organizzazione del sapere scientifico. In inglese il termine è anche reso con la parola framework. In giapponese con wakugumi. In particolare si definisce con rironteki wakugumi un paradigma teorico.
Il termine paradigma ebbe ampia diffusione grazie all’uso che ne fece il filosofo americano Thomas Kuhn. Secondo Kuhn la scienza di un’epoca si rifarebbe a certi paradigmi scientifici finché le teorie non si dimostrano incapaci di produrre spiegazioni. In tal caso il paradigma dominante cade in disgrazia e viene sostituito da un nuovo paradigma. Fu quanto accadde con la teoria geocentrica tolemaica sostituita dalla teoria eliocentrica copernicana.
Kuhn mise in luce anche l’influenza di fattori di natura sociale e psicologica sulle scelte teoriche degli scienziati (1). Inoltre contestava l’idea che fosse possibile un progresso scientifico che conquisti incessantemente una sempre maggiore porzione di verità. Infatti, i paradigmi scientifici si sostituirebbero l’un l’altro e non dipenderebbero esclusivamente dalla teoria, ma piuttosto dal grado di sviluppo della società. Perciò la filosofia della scienza di Thomas Kuhn è anche una concezione alternativa e antitetica all’epistemologia di Karl Popper e all’empirismo logico di Rudolf Carnap (2).
La filosofia giapponese (è però corretto chiamarla nippo-europea considerando le sue origini) trattò presto le complesse questioni di filosofia della scienza affrontate agli inizi del Novecento in Europa e America. Tanabe Hajime scrisse Kagaku gairon (Introduzione alla scienza) (3). Miki Kiyoshi, allievo di Nishida Kitaro, espresse una posizione teorica che riconosceva l’influenza della società nei confronti del sapere scientifico, così come sostenuto da Thomas Kuhn. Secondo Miki le idee e le teorie nascerebbero sotto l’influsso e la spinta delle forze storiche (4). Questo rapido avvicinamento alle problematiche della scienza, e soprattutto il forte sviluppo tecnico del Giappone, posero i filosofi giapponesi nella posizione di poter giudicare i fatti secondo due prospettive differenti. Da una parte la tradizione della saggezza orientale fondata su un sapere intuitivo. Dall’altra parte la scienza occidentale dotata di metodologie e capacità analitiche. Non è sempre detto che queste prospettive siano opposte. Come vedremo più avanti, la filosofia nippo-europea ha costituito una sintesi di queste diverse forme di sapere.
2. Filosofia passata
Unificare la filosofia orientale e la filosofia occidentale in un unico paradigma. Ma è davvero tanto necessario? In realtà ciò non nasce soltanto da un’esigenza intellettuale. La filosofia orientale gode di una sua autonomia e un certo credito, e la filosofia occidentale continua a sussistere nonostante le tante difficoltà. Le questioni filosofiche del pensiero occidentale e di quello orientale possono continuare a rimanere separate. Resta però un ambito che non appare nella ricerca dell’intellettuale: l’esigenza storica. Senza l’unificazione del pensiero occidentale e del pensiero orientale non è concepibile una civiltà planetaria. L’ipotesi dell’affermazione del pensiero occidentale sull’intero pianeta è ben lontana dalla realtà. Quest’ultimo è minato alle sue basi da tendenze irrazionalistiche che si manifestano con intensità sempre più forte nella vita quotidiana. La confusione regna nell’odierno pensiero, incapace di riconoscere i fenomeni storici e culturali, troppo debole per proporre chiavi di lettura efficaci della realtà. Da molte parti si parla di crisi del pensiero occidentale, gettandosi senza criterio nelle braccia di pseudo-sistemi filosofici che si rifarebbero alla saggezza orientale. Oppure ci si barrica in difesa di una presunta superiorità della civiltà occidentale e della sua scienza. Contro tutto ciò si deve ergere una scienza filosofica abbastanza forte da respingere atteggiamenti esasperati e dettati da un’emotività incontrollata che si mascherano dietro nuovi idoli. Per rispondere a questa esigenza storica e sociale bisogna unificare il pensiero sotto un unico paradigma capace di comprendere anche ciò che viene considerato irrazionale. Il nostro intento è ricondurre l’irrazionale sotto una luce diversa, alla lettura di differenti forme di razionalità. Il concetto più flessibile di razionalità da noi elaborato dovrebbe permetterci di coniugare quindi le due forme di pensiero occidentale e orientale (5). Abbiamo però bisogno di procedere in un modo particolare. Affrontando la filosofia occidentale e la filosofia orientale in maniera tecnica, esse diverrebbero incomunicabili a causa dei diversi linguaggi. Noi conosciamo benissimo entrambe le terminologie e ci rendiamo conto dell’impossibilità di parlare di concetti diversi usando un unico linguaggio. Quel linguaggio filosofico che non esiste ancora. Per risolvere questo problema dobbiamo spogliarci del nostro habitus, non parlare più come filosofi, ma come ingenui pensatori. Dobbiamo raggiungere la massima semplificazione dei temi trattati. Quindi introdurremo pochissimi concetti e li spiegheremo in maniera davvero elementare.
La filosofia giapponese ci fornisce una frase che è la sintesi della riflessione zen: ku soku ze shiki. Abbiamo la seconda parte che corrisponde alla lettura capovolta della stessa frase: shiki soku ze ku La circolarità del pensiero è presente sia nella concezione giapponese, e più in generale orientale, sia nell’ermeneutica filosofica. Costituisce una similitudine molto importante ed è giusto metterlo in luce anche in questo caso.
La traduzione più semplice è: "il vuoto è la forma e la forma è il vuoto"(ku soku ze shiki, shiki soku ze ku). Si tratta di un brano dell’importante Sutra del cuore (6).
La traduzione letterale è: "non c’è cielo senza colore, non c’è colore senza il cielo". Nella lingua giapponese l’ideogramma di cielo indica anche il vuoto, e quello del colore indica le cose sensibili (7). Dunque un’altra possibile traduzione potrebbe essere: "non c’è vuoto senza colore, non c’è colore senza vuoto". Da cui consegue anche: "non c’è il nulla senza le forme sensibili, non ci sono forme sensibili senza il nulla".
Resta un punto da chiarire. Il nulla giapponese (mu) viene identificato nella frase del Sutra del cuore con la "forma". Dunque cosa si intende con nulla?
Tenendo conto del senso giapponese del nulla, un’altra traduzione possibile potrebbe essere: "la forma è il contenuto e il contenuto è la forma". Questo nulla è un principio metafisico. Il nulla sarebbe l’indistinto e l’indeterminato da cui scaturiscono ed emergono le cose sensibili. Perciò alcuni traduttori lo considerano anche come "essere". Per la dottrina zen, questo nulla ha però un valore conoscitivo. Il vuoto mentale (mushin) permette la comprensione delle cose. Dunque la filosofia giapponese considera il nulla come un principio della conoscenza. L’essenza delle cose e la conoscenza coincidono. C’è un’identità fra gnoseologia, logica e ontologia. Ed è possibile grazie alle proprietà del pensiero giapponese che si rifanno alla tradizione orientale, la filosofia del passato.
3. Filosofia presente
Ma il centro della riflessione del Sutra del cuore fa parte anche degli ultimi indirizzi dell’epistemologia contemporanea. Ormai è presente anche nel pensiero occidentale il riconoscimento della necessità di eliminare la distinzione fra la forma e il contenuto. Quando Donald Davidson (8) afferma che si deve abbattere la distinzione fra schema e contenuto non sta forse usando una terminologia diversa per indicare ciò che è affermato anche dalla filosofia giapponese? Vediamo con precisione questa corrispondenza. I giapponesi usano la parola iro (9) per indicare le cose sensibili, più in generale le sensazioni. Davidson usa il termine "contenuto empirico" per indicare l’esperienza sensibile. Il nulla giapponese corrisponde alla conoscenza ultima della realtà, l’essenza dell’essere, la metafisica orientale. Dall’altra parte Davidson parla di "schema concettuale" ossia di un sistema concettuale metafisico. La corrispondenza fra la "metafisica" del nulla e la "metafisica" dello schema concettuale è perfetta. Sia Davidson che la filosofia giapponese si stanno riferendo alla stesso concetto. Ci accorgiamo che la critica al terzo dogma dell’empirismo di Davidson corrisponde ai principi del Sutra del cuore. Inoltre Davidson, sostenuto dagli studi di Sellars, critica il "mito del dato". Anche lo zen ritiene i dati sensibili illusori, e che non si possa fondare una conoscenza perfetta su di essi.
Ma l’affermazione di identità fra il nulla e l’esperienza sensibile, lo schema concettuale e i contenuti empirici, finisce per fornire una diversa concezione dello schema concettuale e della metafisica. La metafisica, più in generale l’attività concettuale, non può esistere senza esperienza sensibile. Perciò è impensabile il vuoto senza le cose sensibili e il pensiero senza l’esperienza. Infine tutto ciò che è formale viene riportato al concreto: la forma è l’essere, l’essere è la forma. E ciò corrisponde anche alla nostra proposta di riportare la nozione di schema concettuale in un ambito più concreto, in quello operativo di habit.
La convergenza dello zen giapponese e dell’epistemologia contemporanea non è una coincidenza. C’è una presa di coscienza della confluenza della riflessione filosofica di duemila anni. Si può sperare che dopo qualche millennio di speculazione filosofica sia possibile trovare delle conclusioni comuni a tutti gli uomini di questo pianeta.
4. Filosofia futura
Non ci resta che riconoscere l’esistenza di un cammino comune della filosofia giapponese, europea e americana. Come si coglie dalla nostra trattazione, non sussiste alcun motivo di separazione fra questi indirizzi della filosofia. C’è una sola difficoltà: trovare gli ingegni capaci di unificare tale pensiero. Purtroppo gli istituti culturali non hanno ancora presente questa situazione e non sentono il bisogno di unificare le filosofie di culture diverse. Ma ci sembrerebbe veramente strano che la nostra proposta e lo studio che abbiamo presentato sia un caso singolare nel panorama scientifico. Capiamo le difficoltà che sorgono nel dover possedere un bagaglio di conoscenze che permetta di destreggiarsi con la filosofia giapponese e occidentale, però non possiamo credere di essere gli unici capaci di concepire e pensare qualcosa del genere.
Un ultimo problema va risolto. Quello del realismo opposto al relativismo. Ci si chiede se è possibile conoscere la realtà finale delle cose. Questo punto trova una soluzione nella seguente affermazione di Edmund Husserl:
"L’effettivo processo delle nostre umane esperienze è tale da costringere la nostra ragione a superare le cose date visibilmente e a sostituirvi una «verità scientifica». Piuttosto si può pensare che il nostro mondo visibile sia l’ultimo, "dietro" il quale non ci sarebbe nessun mondo "fisico" ossia che le date cose nella percezione non ammettano una determinazione fisico-matematica, che i dati dell’esperienza escludano qualunque fisica sul tipo della nostra." (10)
La posizione di Husserl coincide con quella della filosofia giapponese, e ciò è testimoniato anche da molti lavori di filosofi giapponesi che hanno visto nella fenomenologia di Husserl un certa corrispondenza. Il vecchio motto di Husserl, "ritornare alle cose così come sono" coincide perfettamente con l’idea giapponese di "mono o aware" (percepire il sentimento delle cose). Come abbiamo visto, la filosofia giapponese è radicalmente fenomenologica e tratta gli argomenti sempre in relazione alle percezioni e alla coscienza. Ma l’idea di Husserl, che si trova anche nel pensiero giapponese, permette di abbandonare qualsiasi opposizione fra realismo e relativismo. Se non esiste una verità ultima e tutto quello che abbiamo sono le percezioni, d’altronde non ha senso parlare di altre realtà. Sia il realismo che il relativismo non sussistono. Si tratta di un problema, come fa notare Husserl, nato dalla nostra concezione della "verità scientifica". Come direbbe Wittgenstein, esso è uno pseudo-problema nato da una cattiva terminologia, dall’uso improprio del linguaggio. Infatti il problema della "realtà ultima delle cose" è soltanto una questione dibattuta dai filosofi che possiedono un linguaggio tecnico capace di amplificare gli errori linguistici. Chi è privo di tale linguaggio è incapace anche di porre la questione.
Non è pensabile qualcosa di diverso da ciò che ci forniscono i nostri sensi. Non abbiamo altro a disposizione. Le nostre costruzioni concettuali non possono controllare le sensazioni. L’intelletto permette di interagire con la realtà, ma il suo potere sulla sensazione non è assoluto. Non possiamo negare la realtà delle sensazioni, anche se sono fallibili e imprecise. L’intelletto non può sostituirsi ai sensi.
Infine il dubbio è alla base di ogni sano pensare. Qualsiasi indagine scientifica e filosofica non può fondarsi su certezza ed esattezza. Il dubbio resta la misura dell’efficacia del pensiero. La correttezza è il risultato dell’interagire fra il dubbio e la conoscenza. Minori sono i dubbi, maggiore è il nostro potere esplicativo. Ma se i dubbi sono completamente annientati, allora essi sono stati sostituiti da una fede e dal fanatismo. Non siamo più filosofi né scienziati ma incantatori.
Vogliamo concludere con un passo di Richard Rorty che abbiamo già citato perché crediamo che l’osservazione del filosofo americano sia in linea con i nostri intenti.
"Ma se potremo giungere a considerare sia la teoria della coerenza sia quella della corrispondenza delle banalità non antagonistiche, allora potremo andare finalmente oltre il realismo e l’idealismo. Potremo raggiungere un punto in cui, per dirla con Wittgenstein, saremo in grado di cessare di fare filosofia come e quando vogliamo." (11)
Il nostro lavoro costituisce un’alternativa, come auspicato da Rorty, che va oltre il realismo e l’idealismo poiché la logica giapponese non assume la verità né come coerenza né come corrispondenza. La filosofia giapponese non elabora costrutti teorici e concettuali sugli oggetti e questo impedisce che sorgano questioni del genere. Abbandonata ogni forma di dualismo, non resta alla filosofia che rinunciare a occuparsi della conoscenza oggettiva delle cose, per puntare la sua attenzione alla comprensione delle azioni sulle cose. Il passaggio da una filosofia speculativa teoretica a una filosofia sperimentale interazionistica sarebbe del tutto naturale. Qualcuno potrebbe chiedersi se sarebbe corretto chiamare ancora filosofia questo genere di attività. La risposta è che nessuno ci obbliga a fare filosofia secondo un modo consuetudinario.
Note
1. Cfr. Kuhn, Thomas, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1978.
2. Popper, Karl, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 1976; Carnap, Rudolf, Significato e necessità, La Nuova Italia, Firenze, 1976.
3. Tanabe, Hajime, Kagaku gairon, Iwanami Shoten, Tokyo, 1918.
4. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.
5. La concezione alternativa della razionalità che abbiamo elaborata ci è servita per spiegare le caratteristica dell’economia giapponese. Cfr. Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia dal punto di vista epistemologico, Tesi discussa alla Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Genova, A.A. 1999-2000.
6. Si può leggere una traduzione in italiano del Sutra del cuore in Hakuin, Veleno per il cuore, Ubaldini, Roma, 1998, pp.143-144.
7. La frase fu al centro della riflessione del dialogo fra Heidegger e il filosofo giapponese Tezuka Tomio. Cfr. Heidegger, Martin, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1990, p.93. Bisogna ricordare che molti filosofi giapponesi studiarono in Germania sotto la guida di Heidegger all’inizio del XX secolo. I rapporti, purtroppo poco noti, fra la filosofia occidentale e giapponese sono dunque già stati stretti in altri tempi. Si consulti Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova, 1998.
8. Davidson, Donald, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994.
9. Nella frase citata è shiki. In giapponese esistono diverse pronunce per lo stesso ideogramma. Iro è la lettura kun yomi e shiki è la lettura on yomi.
10. Husserl, Edmund, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino, 1965, Par.47, Cap.3, Sez.2, p.103.
11. Rorty, Richard, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano, 1986, p.51.