domenica 11 ottobre 2009

Eclissi del capitalismo

Articolo sul capitalismo pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Botsuraku.

Botsuraku. L’eclissi del capitalismo
di Cristiano Martorella

1 dicembre 2002. Botsuraku in giapponese significa caduta, rovina, declino, eclissi. Però l’eclissi di cui parliamo qui non è l’eclissi del sole, ma l’eclissi metaforica di una stella altrettanto importante per lo sviluppo umano: il capitalismo (shihonshugi). L’espressione che abbiamo coniato, "eclissi del capitalismo", può apparire esagerata eppure si considererà alla fine quanto sia opportuna.
La crisi economica che attanaglia il Giappone, la seconda potenza economica, da un decennio a partire dal 1993, non è stata mai considerata con la dovuta serietà. I detrattori del modello nipponico hanno sempre esultato indicando questa crisi come la conferma delle loro teorie sull’arretratezza strutturale della società giapponese. Mentre questi analisti si compiacevano delle sventure altrui, sono stati inaspettatamente colpiti da sciagura, morte e terrore. Il simbolo dell’orgoglio economico americano veniva sbriciolato dall’atto orribile del fondamentalismo islamico. I soliti opinionisti dediti al riciclaggio delle idee altrui hanno rispolverato le tesi di Samuel Huntington sullo scontro delle civiltà (1). E così ci siamo ritrovati in un gioco delle parti che divideva il mondo in buoni e cattivi. Ciò ha surrettiziamente nascosto le cause degli eventi e trasformato i discorsi in esercizi di retorica e ideologia (2). I movimenti no global (o secondo altra definizione new global) hanno sposato la bandiera degli oppressi e puntato il dito contro le disuguaglianze cercando di sostenere la necessità di un cambiamento dell’ordine mondiale. La produzione intellettuale di questi movimenti è sorprendente per quantità (3), e sicuramente più convincente dei sostenitori del liberismo economico (ciò è facilitato dal contesto sociale estremamente degradato). Eppure la qualità di questi lavori non è così elevata come si crede. Una mente acuta come quella di Alessandro Baricco si è subito accorta delle debolezze intellettuali dei no global, nonostante non si presenti come un oppositore del movimento (4). La teoria dei no global si fonda sul riconoscimento della sperequazione. I ricchi diventano sempre più ricchi a scapito dei poveri. Perciò propongono un’economia etica che tenga in considerazione i princìpi di equità sociale. Purtroppo i no global non hanno nessuna ricetta per il capitalismo e le loro proposte mancano di una solida comprensione della realtà economica. Molte delle analisi dei no global sono pregiudiziali e non considerano importanti aspetti dell’economia. Essi pensano di eliminare le storture del capitalismo che considerano come la causa del disagio sociale. Ciò che indicano come il colpevole, ossia il capitalismo, è in verità la vittima della storia economica. Il capitalismo non potrebbe essere il nemico perché il capitalismo è un soggetto attualmente in agonia. Quello che stiamo vivendo è il periodo più duro per le aziende che devono sostenere la concorrenza internazionale, la crisi demografica e la diminuzione dei consumi, l’innovazione tecnologica, la scarsità di finanziamenti, e tutto ciò in un contesto di continua instabilità interna ed esterna. La causa autentica di questi eventi è da imputare all’eclissi del capitalismo, alla sua incapacità di creare benessere. Ma per capire l’eclissi del capitalismo e le sue conseguenze bisogna accettare innanzitutto quest’idea. L’eclissi del capitalismo esiste ed è reale. Bisogna abbandonare l’idea che il male sia il capitalismo e che esso sia forte e in salute. Al contrario, le distorsioni del capitalismo sono l’indizio della sua agonia.
Ritorniamo dunque alla crisi economica giapponese e vediamo che cosa rappresenti per noi. L’aspetto più interessante che riguarda l’economia giapponese è quello esoterico. Infatti difficilmente troverete degli economisti che siano d’accordo e presentino uno stesso quadro dello sviluppo economico del Giappone, specialmente se recente (5). In Giappone hanno proliferato numerosissime sette buddhiste, altrettanto vale per le scuole economiche. E il paragone con la religione non finisce qui. Alcuni presupposti degli economisti si basano su autentici atti di fede, e il loro linguaggio esoterico è compreso soltanto dagli adepti. L’affermazione, ad esempio, che la ripresa economica è dietro l’angolo è soltanto un atto di fede che presume la visione salvifica del libero mercato. La scienza del concreto, l’economia (letteralmente amministrazione della casa, dal greco oikonomía), è divenuta l’ultima e più seguita setta religiosa. Però il Giappone non ci interessa come caso strampalato, piuttosto come la punta di diamante del capitalismo internazionale. Il Giappone non va deriso o commiserato, poiché il Giappone è il nostro futuro. La crisi che si è presentata nel 1993 non era un fenomeno singolare, piuttosto l’inizio di un evento mondiale: l’eclissi del capitalismo.
Negli anni Ottanta il Giappone aveva portato a maturazione il capitalismo fino a raggiungere livelli ineguagliati di ricchezza. Lo sviluppo industriale nipponico aveva oscurato la potenza statunitense. Al massimo della sua fortuna il Giappone conosceva negli anni Novanta una dura recessione. Perché? Molte motivazioni sono state avanzate, la prima e più accreditata è la bolla speculativa. Oggi, comunque, possiamo meglio capire questi fenomeni e afferrare il senso storico degli eventi. Lo sviluppo economico del Giappone era fondato su basi solide: un apparato industriale avanzato, tecnologicamente concorrenziale (se non addirittura senza concorrenti) e una forza lavoro ordinata, organizzata e disciplinata. Che cos’è che non funziona? La risposta può essere fornita soltanto se sappiamo che cos’è il capitalismo (6).
Il capitalismo è quel sistema che ha come obiettivo la valorizzazione del capitale tramite un’attività produttiva o commerciale che crei profitto. In questo sistema ha un ruolo fondamentale e cruciale la moneta che permette la rotazione del capitale, ovvero il passaggio dall’investimento di denaro in un bene che produca altro denaro (secondo lo schema D-M-D’). Pertanto il processo di produzione deve essere organizzato in modo da rendere massimo il profitto e minimo il costo. Se non si realizzasse un profitto l’investimento di capitale non avrebbe senso. Ma come ha origine questo aumento di valore del capitale investito? Esso avviene tramite il lavoro, come intuito da David Ricardo. Secondo Ricardo il lavoro crea un valore aggiunto. Dunque la merce incorpora il lavoro e il valore del lavoro. David Ricardo addirittura pone il lavoro come punto di partenza: la misura del valore non può che essere il lavoro contenuto nelle merci. La moneta d’altronde nasce dalla divisione sociale del lavoro (specializzazione delle attività produttive) e con la nascita dello scambio (libero mercato). La teoria della moneta di David Ricardo ci permette di capire che cosa si nasconda dietro il velo della moneta. La moneta non è altro che una convenzione sostenuta dal sistema sociale del lavoro. Ciò ci permette di sbarazzarci delle suggestioni che suggeriscono una visione della finanza come astrazione. La superficie convenzionale della moneta non deve far dimenticare che il suo valore è fornito dal lavoro. L’altro aspetto essenziale è costituito dal mercato che rende possibile il sistema economico e finanziario. Però il mercato è una funzione dell’organizzazione sociale ed è garantito soltanto dall’esistenza di una complessa e articolata società. L’antropologia ha sviluppato molte intuizioni degli economisti per considerare le differenti relazioni umane: reciprocità, redistribuzione e scambio. Marshall Sahlins, partendo dalla teoria di Karl Polanyi, sostenne tre tipi di reciprocità (generalizzata, bilanciata e negativa). La reciprocità generalizzata nasce da un rapporto istituzionale (per esempio i doveri familiari, il dono, l’ospitalità). La reciprocità bilanciata riguarda scambi simultanei di beni della stessa categoria. La reciprocità negativa è costituita da uno scambio finalizzato ad ottenere un utile (per esempio un baratto vantaggioso). La reciprocità avviene fra istituzioni simmetriche. La redistribuzione è invece un movimento di beni in condizione di dissimmetria istituzionale. Il flusso avviene verso oppure da un centro. La redistribuzione è per esempio il sistema di tassazione (con un ministero delle finanze posto al centro). Lo scambio è invece un movimento di beni all’interno di un mercato autoregolato fra soggetti diversi. Se nella reciprocità c’è una simmetria, e nella redistribuzione una centralità, invece nello scambio i soggetti sono liberi. Lo scambio di mercato tende a massimizzare i vantaggi secondo un’ipotesi avanzata da Adam Smith (teoria della propensione allo scambio utilitario) e ripresa con forza dalla scuola dei marginalisti. Karl Polanyi descrisse e sottopose a critica l’area istituzionale che comprende gli scambi collegati al commercio, il mercato e la moneta, ritenuto un sistema composto da una terna di parti connesse e inscindibili. Essa viene definita "triade catallattica" riprendendo una definizione dell’economista Richard Wathely. Ciò ci deve far considerare l’importanza delle istituzioni che sottendono il mercato, il quale non è affatto qualcosa di spontaneo. Il mercato, infatti, solo a partire dal XIX secolo e grazie alla rivoluzione industriale viene scorporato (disembedded) dalla società e diviene autoregolato. Questa è l’epoca della nascita del capitalismo (in precedenza si poteva osservare un capitalismo mercantilista, una forma primordiale del capitalismo). Negli anni Ottanta del XX secolo si afferma la dottrina iper-liberista che pone dei limiti al controllo degli stati che perdono definitivamente ogni dominio della vita sociale ormai sottoposta alle esigenze dell’economia (7). Anche l’economia giapponese, sull’onda della competizione con gli Stati Uniti, si converte al liberismo. L’idea di una società giapponese unita e compatta è in realtà un mito che non tiene presente l’evoluzione storica del paese. Si tratta di una visione sostenuta dall’astrazione di un presunto spirito neoconfuciano. Eppure le altre influenze culturali (shintoismo e buddhismo in primo luogo) ebbero una prevalenza ben maggiore del confucianesimo spesso osteggiato da pensatori come Motoori Norinaga (sua è l’espressione spregiativa karagokoro, ossia mentalità cinese). La tendenza giapponese degli anni Novanta a sposare le tesi dell’economia liberista è segnalata, a volte denunciata, dai due fronti opposti della sinistra socialdemocratica e della destra liberaldemocratica. In particolare il premier Koizumi Jun’ichiro si è distinto per la sua convinzione nella necessità di varare riforme liberiste. Però sono soprattutto gli economisti giapponesi a indicare questa svolta del Giappone. Ohmae Kenichi [Omae Ken’ichi], convinto assertore del liberismo ha spronato il suo paese ad adottare cambiamenti a favore del libero mercato. Autore di numerosi testi sulla ristrutturazione dell’economia giapponese è Noguchi Yukio, attento osservatore delle prospettive delle nuove tecnologie. Opposta la posizione di Ito Makoto che denuncia i mali comportati dall’adesione del Giappone alla politica economica liberista (8). Constata l’autentica condizione dell’economia giapponese (si considerino anche le privatizzazioni e l’eliminazione delle barriere protezionistiche) si può riconoscere che la crisi giapponese non è imputabile ai difetti del modello giapponese, piuttosto è l’eclissi del capitalismo che è stato portato in Giappone nella fase più avanzata. In conclusione il Giappone è l’orizzonte dell’eclissi del capitalismo, un fenomeno che coinvolgerà l’intero mondo.
Che cos’è che rende possibile l’eclissi del capitalismo? La questione merita un approccio tecnico che è possibile grazie all’imponente quantità di studi di economisti, storici e sociologi. Perché tale risposta non è stata fornita finora? La divisione, spesso politica, delle differenti scuole economiche ha impedito di mettere insieme i pezzi di questo puzzle.
Cerchiamo di presentare un quadro sintetico, ma completo, delle ragioni dell’eclissi del capitalismo. Due sono le motivazioni fondamentali della svolta storica dell’economia mondiale:

- l’esaurimento dei fattori antagonisti al calo del saggio di profitto;
- il prezzo non più collegato al valore.

Il calo del saggio di profitto è una scoperta di Karl Marx rifiutata dalle altre scuole. Qui la presentiamo in una formulazione che prescinde dalla teoria del plusvalore e utilizza la terminologia dell’economia classica.

s = Gt / (Cc + Cv)

s saggio di profitto
Gt profitto totale
Cc capitale costante
Cv capitale variabile

Il saggio di profitto s esprime il rendimento dell’investimento ed è definito nell’economia classica dal rapporto tra il profitto totale e il costo totale (Gt / Ct). Il capitale costante Cc è la spesa in investimenti costanti come macchinari, materiali, energia, etc. Il capitale variabile Cv è il salario per i lavoratori. La scomposizione del costo totale Ct in capitale costante Cc e capitale variabile Cv permette di desumere che il saggio di profitto è inversamente proporzionale alla composizione organica del capitale (q = Cc / Cv). Eseguiamo i passaggi:

s = Gt / (Cc + Cv)
s = (Gt / Cv) / ((Cc + Cv) / Cv)
s = (Gt / Cv) / (1 + q)

Dunque il saggio di profitto diminuisce all’aumentare della composizione organica del capitale. La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è la condanna per esaurimento del capitalismo. Infatti l’espansione e l’aumento del capitale comporta la diminuzione del rendimento di un investimento. Poiché il capitalismo ricerca un investimento che crei profitto, questa tendenza si rivela fatale. L’investimento non è possibile se non è vantaggioso. Il capitalismo crea le condizioni perché ciò, paradossalmente, non avvenga. Gli investimenti sono sempre meno redditizi. Ovviamente il capitalismo non è entrato in crisi grazie ai fattori antagonisti alla caduta del saggio di profitto:

1) Ritmi di lavoro più veloci e maggiore efficienza;
2) Diminuzione dei costi del lavoro;
3) Diminuzione dei costi dei macchinari e delle materie prime;
4) Utilizzo della manodopera in modo massiccio;
5) Commercio vantaggioso con l’estero.

Come indica anche Joseph Schumpeter è soprattutto la tecnologia a fornire un eccezionale mezzo per attuare i punti 1, 2 e 3. Lo sviluppo industriale è infatti la storia del progresso tecnologico che ha permesso di superare le fasi di stasi del capitalismo.
Grazie alla globalizzazione e alla tecnologia sono diminuiti i costi di produzione e i costi delle materie prime. Eppure è stata la stessa globalizzazione ad esaurire gli effetti positivi dei fattori antagonisti al calo del saggio di profitto. La globalizzazione ha eliminato la diversità e ciò ha comportato il crollo dei meccanismi alla base dello scambio utilitario (il fondamento del libero mercato). La disposizione a vedere il mondo in un’unica maniera ha inaridito le capacità intellettuali e l’indagine scientifica. Gli scienziati sono stati asserviti alle esigenze aziendali e hanno abbandonato la ricerca pura e le invenzioni alternative. I fattori antagonisti al calo del saggio di profitto sono drasticamente indeboliti. Dunque trarre profitto tramite il lavoro e la produzione è nell’economia contemporanea più difficile.
Tuttavia è la seconda motivazione dell’eclissi del capitalismo a spiegarci come sia possibile ancora il profitto. Il prezzo non è collegato più al valore. Questa scoperta è merito dell’economista Oomae Ken’ichi (9). Ed è abbastanza facile constatarlo. Il prezzo di un software non dipende dal lavoro occorso per produrlo. Ciò contraddice la teoria di David Ricardo e Karl Marx sul lavoro e la moneta. Semplicemente si è passati da una società industriale fondata sul lavoro a una società dei servizi fondata sull’informazione. Però la scoperta di Oomae costituisce anche una condanna definitiva del capitalismo. Ora la formula D-M-D’ non è valida perché il prezzo non è più stabilito da meccanismi automatici dettati dall’organizzazione del lavoro. Così la rotazione del capitale non è più la forza propulsiva del capitalismo.
L’eclissi del capitalismo non significa la fine dell’economia, piuttosto una diversa e nuova economia. Questa economia sfrutterà le conoscenze per l’acquisizione di vantaggi commerciali e finanziari. L’informazione diverrà merce e il prodotto più prezioso e ricercato.
I no global hanno in parte ragione e in parte torto. Sono nel giusto nel denunciare le storture del capitalismo che sono sintomi evidenti del suo declino. Ed è sensato ammettere che il mondo che conosciamo debba essere cambiato per rispondere alle esigenze dell’umanità. Sbagliano quando pretendono di trovare soluzioni politiche ai problemi economici scavalcando gli studi scientifici. Sbagliano ponendo la volontà al di sopra della conoscenza e ritenendo che il capitalismo sarà sconfitto dalla moltitudine ribelle. Il capitalismo è una forma economica e sarà abbattuto soltanto da un’altra forma economica. E in verità questo sta già accadendo.


Note

1. Cfr. Huntington, Samuel, Lo scontro di civiltà e la ricostruzione dell’ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997.
2. Eugenio Scalfari dalle pagine de "La Repubblica" ha definito gli articoli di Oriana Fallaci come un esercizio di retorica. Per l’opera della scrittrice si consulti il celebre pamphlet: Fallaci, Oriana, La rabbia e l’orgoglio, Rizzoli, Milano, 2001.
3. Ricordiamo alcuni libri: Hardt, Michael e Negri, Antonio, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2002; Klein, Naomi, No Logo, Baldini & Castoldi, Milano, 2001.
4. Cfr. Baricco, Alessandro, Next. Piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che verrà, Feltrinelli, Milano, 2002, p.50 e p.59.
5. Per fortuna c’è qualcuno che ha il coraggio di riconoscere questa condizione: Cfr. Glosserman, Brad, Il fattore Koizumi non basta più, in "Limes", n.3 / 2002, pp.115-122. "[…] sulle cause che hanno condotto a questa situazione c’è disaccordo" (p.121).
6. Molti analisti hanno sostenuto che l’economia giapponese peccasse di rigidità e hanno suggerito una forte iniezione di liberismo. In realtà fin dagli anni Ottanta si era applicata in Giappone la ricetta liberista, peggiorando soltanto le condizioni sociali. Cfr. Ito, Makoto, La crisi giapponese, in "La rivista del manifesto", n.19 luglio-agosto 2001.
7. Cfr. Ohmae, Kenichi [Omae Ken'ichi], La fine dello stato-nazione. L’emergere delle economie regionali, Baldini & Castoldi, Milano, 1996.
8. Ito Makoto fornisce un’ampia e attendibile documentazione per sostenere le sue tesi. Cfr. Ito, Makoto, The World Economic Crisis and Japanese Capitalism, Macmillan, London, 2000.
9. Cfr. Ohmae, Kenichi, Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001, p.330.

Bibliografia

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Giddens, Anthony, Sociologia. Un’introduzione critica, Il Mulino, Bologna, 1983.
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Noguchi, Yukio, Senkyuhyakuyonjunen taisei, Toyo Keizai Shinposha, Tokyo, 1995.
Ohmae, Kenichi [Omae Ken'ichi], Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001.
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Polanyi, Karl, Economie primitive arcaiche e moderne, Einaudi, Torino, 1980.
Ricardo, David, Princìpi dell’economia politica e delle imposte, UTET, Torino, 1954.
Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Baldini & Castoldi, Milano, 1997.
Sahlins, Marshall, L’economia dell’età della pietra, Bompiani, Milano, 1980.
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Schumpeter, Joseph, Il processo capitalistico, Bollati Boringhieri, Torino, 1977.
Schumpeter, Joseph, Storia dell’analisi economica, Bollati Boringhieri, Torino, 1990.
Sibilla, Paolo, Introduzione all’antropologia economica, UTET, Torino, 1996.
Tachibanaki, Toshiaki, Nihon no keizai kakusa, Iwanami shoten, Tokyo, 1998.