Articolo sul capitalismo e la politica giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Shihonshugi.
Shihonshugi
Capitalismo e democrazia giapponese
di Cristiano Martorella
22 gennaio 2002. L'economia giapponese e la politica hanno costituito un binomio osservato con estremo sospetto e diffidenza. Fra gli autori che hanno ritenuto di individuare delle anomalie nei rapporti fra politica ed economia ricordiamo Yanaga Chitoshi(1). Secondo Yanaga gli accordi commerciali sarebbero stati orchestrati dallo establishment. Estremamente polemico, spesso fazioso, Karel van Wolferen che accusa il Giappone di aver costituito un'economia di guerra tramite l'alleanza perversa fra politica e business(2). Da un altro punto di vista, Noguchi Yukio aveva individuato la tipicità del sistema economico giapponese con le sue debolezze e virtù: una politica economica che aveva trasformato il libero mercato in un sistema di mobilitazione nazionale con la priorità della produzione rispetto alla competizione interna(3).Sulla base di questi presupposti, vale la pena indagare sulla vera natura della politica e dell'economia giapponese, prima considerate singolarmente (per evitare ogni pregiudizio) e poi nelle loro relazioni.
Incominciamo dall'economia. La parola giapponese shihonshugi traduce il termine capitalismo senza sostanziali differenze. Shihon è il capitale, mentre shihonka sono i capitalisti o borghesi. La parola shihon è composta da due kanji: shi (risorse) e hon (origine, fondamento). Shugi è il suffisso traducibile come -ismo, il quale indica una dottrina o un principio. Non c'è quindi ragione di dubitare cosa intendano i giapponesi per capitalismo. Piuttosto è utile ricordare l'analisi del capitalismo e la sua definizione secondo gli studi classici di economia.Il capitalismo è un principio di organizzazione economica caratterizzato dall'applicazione di capitali in investimenti produttivi, ed esso distingue e separa il lavoro e la proprietà. L'obiettivo del capitalismo è la valorizzazione del capitale (ossia la realizzazione del profitto). Il capitale appare nel processo economico come capitale monetario o sotto forma di mezzi di produzione. Nel sistema capitalistico i mezzi di produzione e i beni prodotti appartengono al capitalista e non spettano ai lavoratori che vendono semplicemente il loro lavoro. Chiariti questi punti, già noti a tutti a larghe linee, si può fare un confronto fra capitalismo occidentale e capitalismo giapponese.
Nel 1979 il libro di Ezra Vogel, intitolato Japan as Number One, pose la questione della diversità del sistema economico giapponese. Al testo di Vogel seguirono altre pubblicazioni sul tema con impostazioni diverse, ma tutte riconoscevano le differenze dell'economia giapponese(4). La diversità fu percepita come un pericolo ed ebbe una trasposizione in fiction grazie alla fantasia di Michael Crichton, autore del thriller Rising Sun, condensato di tutti i timori americani. La crisi economica degli Stati Uniti culminata con il crollo delle azioni a Wall Street nel 1987, ebbe l'effetto di enfatizzare i successi economici giapponesi guardati con sempre maggiore sospetto. Iniziò a circolare l'idea che il sistema economico giapponese non fosse di tipo capitalistico, ma se ne distinguesse. Alcune caratteristiche permettevano di avvicinare il modello giapponese a forme di collettivismo. Si poteva pensare che l'economia nipponica come una terza via fra capitalismo e comunismo. Si riteneva che queste caratteristiche fossero la mancanza di individualismo, la partecipazione dei lavoratori alla vita dell'azienda considerata come una famiglia e la cooperazione fra governo e imprese.In particolare, la collaborazione fra politici e uomini d'affari era considerata antitetica al libero mercato e a un sistema di libera concorrenza. Inoltre si riteneva che il mercato del Giappone, nel periodo preso in considerazione, fosse anomalo a causa di barriere protezionistiche. Questa partecipazione attiva del governo alla vita economica del paese era vista come qualcosa di economicamente e politicamente illiberale che avvicinava il Giappone ai sistemi comunisti. In realtà il Giappone era ben lontano dall'economia comunista, al massimo si trattava di una politica economica keynesiana, così come osservato dagli economisti giapponesi. La divisione non omogenea della proprietà privata, l'esistenza di una classe imprenditoriale e la tendenza al profitto erano tutti fattori tipici del capitalismo. Tuttavia il capitalismo giapponese ha delle caratteristiche che lo definiscono piuttosto come una variante del capitalismo. L'enfasi assunta dal concetto di Qualità Totale (TQC), che ha determinato uno sviluppo industriale atipico e specifico, delinea un'economia particolare.
Nel capitalismo occidentale la finalità della produzione è il profitto, e l'innovazione tecnologica è concepita come abbassamento dei costi (grazie a una razionalizzazione del processo di produzione). L'influsso del buddhismo zen che condanna la ricerca del profitto ed esalta l'attività umana, la disciplina e l'autocontrollo, ha avuto un effetto inaspettato. Nel capitalismo giapponese la produzione è posta come obiettivo e la qualità è considerata una variabile interna al processo di fabbricazione. In conclusione, il capitalismo giapponese è una variante del capitalismo che valorizza il capitale nei suoi aspetti produttivi piuttosto che monetari. Ricordiamo che il capitale è per definizione l'insieme di risorse monetarie e materiali.
Questo aspetto del capitalismo giapponese si è rivelato nelle sue debolezze a partire dal 1991, con l'inizio della grave recessione. Infatti la crisi fu innescata proprio dalle debolezze del sistema finanziario e dal tracollo delle banche. Non è un caso. Si è detto che il capitalismo giapponese valorizza il capitale nei suoi aspetti produttivi, ma trascura l'aspetto monetario.
Passiamo adesso alla politica. Si può affermare che la politica giapponese dell'ultimo decennio sia stata ambigua e altalenante. Mentre in passato erano chiare le direttive del paese, la recente instabilità politica ha impedito qualsiasi tipo di programmazione. Cerchiamo di ricapitolare alcuni eventi dell'ultimo decennio. Nel 1992 esplose il caso di corruzione del leader liberaldemocratico Kanemaru Shin. Si trattava di un finanziamento illegale di 500 milioni di yen del presidente della Sagawa Kyubin che fece avviare le indagini rivelando un immenso sistema nazionale di corruzione. Lo scandalo condusse Kanemaru a ritirarsi dalla Dieta. Ma il successivo arresto e processo segnò un durissimo colpo per il Partito Liberaldemocratico (LDP o Jiyuminshuto). La crisi economica e il nuovo contesto internazionale (fine della guerra fredda, crollo dell'Unione Sovietica) fecero emergere nuove esigenze a cui i politici si dimostrarono incapaci di rispondere. Miyazawa Kiichi si dimise dalla carica di premier il 9 agosto 1993, e le elezioni furono indette per il 18 luglio 1993. Esse furono vinte dagli avversari del Partito Liberaldemocratico. Si formò così una coalizione di sette partiti con a capo Hosokawa Morihiro. Si spezzò infine il dominio incontrastato del Jiyuminshuto, partito fondato nel 1955 dall'unificazione delle forze conservatrici (democratici e liberali). La coalizione di Hosokawa, anti-liberaldemocratica e non comunista, raccoglieva fra le sue file il Nihon shakaito (Partito Socialista), il Komeito, il Nihon shinto (Nuovo Partito del Giappone), il Shinseito e lo Shinto Sakigake. Purtroppo Hosokawa fu costretto a dimettersi l'8 aprile 1994 a causa di un'accusa di presunta corruzione. Hata Tsutomu, leader dello Shinseito, fu nominato capo del governo. I socialisti lasciarono però la coalizione. Ma il debole governo di Hata ebbe vita breve e si concluse nel giugno 1994. Gli successe una coalizione inaudita composta da socialisti, liberaldemocratrici e Shinto Sakigake. Il leader socialista Murayama Tomiichi fu eletto premier. La politica di Murayama fu caratterizzata dal pacifismo e dalla riduzione dei prezzi e delle tasse. Importante il riconoscimento dei crimini di guerra nel secondo conflitto mondiale e la presentazione di scuse ufficiali. Posizioni non sempre condivise dai conservatori e causa di tensioni. Nel 1996 Murayama si dimise e fu eletto premier il leader dei liberaldemocratici Hashimoto Ryutaro. Così il Jiyuminshuto riprendeva le redini del potere grazie all'abilità di Hashimoto che aveva saputo recuperare alleanze e dare credibilità al partito. Il governo Hashimoto riprendeva una linea conservatrice contraria alle riforme e favorevole al nazionalismo. Era previsto il risanamento economico e la riforma fiscale. Quest'ultima vedeva l'innalzamento della tassa sui consumi dal 3% al 5%, una tassa molto impopolare simile all'IVA. Però Hashimoto non fu capace di porre rimedio ai gravi problemi dell'economia, e la sua grande abilità di politico non servì a risolvere le difficoltà concrete, ma a conservare la stabilità politica. Piuttosto che a riforme si assistette a restaurazioni come il ripristino dell'Inno Nazionale (Kimigayo) nelle cerimonie scolastiche (normativa annunciata dal Ministero dell'Istruzione nel maggio 1998).Insomma, una tendenza a rispondere alla crisi politica ed economica con una riscoperta dei sentimenti nazionali. Dopo la sconfitta elettorale del 12 luglio 1998, ad Hashimoto successe un altro leader liberldemocratico, Obuchi Keizo, che formò una maggioranza rabberciata. Obuchi non soltanto non ebbe incisività, ma mancò anche dell'abilità di Hashimoto che era un brillante statista. Al governo Obuchi sucesse quello di Mori Yoshiro che non fu particolarmente significativo. Dobbiamo attendere l'elezione a premier di Koizumi Jun'ichiro il 26 aprile 2001 per assistere a cambiamenti significativi.
Anche se leader del Jiyuminshuto, Koizumi era ritenuto un deciso riformatore. Qualche segnale era dato anche dalla formazione del governo. Il Ministro degli Esteri era una donna, Tanaka Makiko, così il Ministro della Giustizia, Moriyama Mayumi. Le donne nel governo erano ben cinque, aspetto non trascurabile se si considerano le polemiche italiana sulla partecipazione femminile nelle istituzioni.La politica economica di Koizumi è liberale e riformista. Egli intende eliminare i vecchi clientelismi, abbattere i privilegi e favorire il libero mercato. Ma alla politica economica riformatrice corrisponde una politica estera conservatrice e nazionalista. Fra i consiglieri di Koizumi figurano Okamoto Yukio, favorevole a una maggiore partecipazione delle forze armate in missione di peacekeeping, e Kitaoka Shin'ichi, esponente della corrente neoconservatrice che si ispira alla linea di Kishi Nobusuke.Dal 1957 al 1960 Kishi Nobusuke fu premier e cercò di attuare un ambizioso programma di politica estera che riassunse in tre principi: centralità dell'ONU, rapporti armoniosi con il mondo, importanza delle relazioni con l'Asia (panasianismo). Kitaoka ritiene che questi principi debbano essere ripresi e aggiornati. Egli suggerisce una più intensa collaborazione economica fra il Giappone e i paesi asiatici, e una maggiore partecipazione a garanzia della sicurezza asiatica. Quest'ultimo punto significa un riarmo del Giappone, ma anche una maggiore influenza nella politica internazionale.
Dopo queste analisi condotte separatamente su politica ed economia, possiamo ricomporre il quadro. Il Giappone è un paese pienamente democratico nonostante quello che possano dire i suoi detrattori. I partiti e le istituzioni sono determinati dalla volontà dei cittadini tramite le elezioni. I diversi fronti politici (liberaldemocratico, socialdemocratico, comunista, etc.) sono rappresentati nella Dieta. La credenza che l'economia giapponese sia prosperata grazie a un sistema autoritario non corrisponde a un'analisi più profonda dei fatti. Sono state le riforme in senso democratico a favorire l'economia giapponese, a partire dalla Meiji ishin (Riforma Meiji, 1868) fino allo smembramento dei gruppi zaibatsu avvenuto nel dopoguerra. Gli studiosi più attenti hanno riconosciuto questa tendenza del Giappone che lo distingueva da paesi realmente autoritari come la Repubblica Popolare Cinese (stato illiberale e antidemocratico lodato e corteggiato da più parti esclusivamente per i suoi risultati economici e l'apertura del mercato). E non sono caduti nell'errore di confondere facilmente l'individualismo con la democrazia. La posizione più autorevole in tal senso è quella di Ralf Dahrendorf, politologo, economista e sociologo di fama internazionale, che non ritiene corretto inserire il Giappone nel modello autoritario asiatico seguito da nazioni come la Cina, la Malesia, Singapore, etc.(5) Il Giappone sta pagando a caro prezzo il suo assetto democratico. Il protrarsi della crisi economica è dovuta anche alla difesa delle conquiste democratiche e dall'accettazione di un sistema capitalistico. Le crisi cicliche (ciclo di Kitchin, ciclo di Juglar, ciclo di Kondratiev) fanno parte dell'economia capitalista. Soltanto sistemi autoritari e illiberali possono garantire una crescita forzata e costante senza oscillazioni. Non dimentichiamo come Adolf Hitler nel 1936 si vantasse di aver risanato l'economia tedesca. Ma a quale prezzo? Eppure sembra che molti abbiano dimenticato le lezioni del passato. Il capitalismo e la democrazia non sono necessariamente antitetici, ma misurare la democrazia con i valori economici è un errore madornale.
Note
1. Yanaga, Chitoshi, Big Business in Japanese Politics, Yale University Press, New Haven and London, 1969.
2. Van Wolferen, Karel, The Enigma of Japanese Power, Macmillan, London, 1989 (trad. it. Van Wolferen, Karel, Nelle mani del Giappone, Sperling & Kupfer, Milano, 1990).
3. Noguchi, Yukio, Senkyuhyakuyonjunen taisei, Toyo Keizai Shinposha, Tokyo, 1995.
4. Ricordiamo alcuni testi del periodo: Vogel, Ezra, Japan as Number One: Lessons for America, Harvard University Press, Cambrige, 1979; Dore, Ronald, Taking Japan Seriously: A Confucian Perspective on Leading Economic Issues, Stanford University Press, Stanford, 1987 (trad. it. Dore, Ronald, Bisogna prendere il Giappone sul serio. Saggio sulla varietà dei capitalismi, Bologna, il Mulino, 1990); Tatsuno, Sheridan, Created in Japan: From Imitators to World-Class Innovators, Harper & Row, New York, 1990.
5. Cfr. Dahrendorf, Ralf, Quadrare il cerchio. Benessere economico, coesione sociale e libertà politica, Laterza, Bari-Roma, 2000, pp. 80-81.
Bibliografia
Collotti Pischel, Enrica (a cura di), Capire il Giappone, Franco Angeli, Milano, 1999.
Ito, Takatoshi, L'economia giapponese, Egea, Milano, 1995.
Beonio Brocchieri, Paolo, Storia del Giappone, Mondadori, Milano, 1996.
Beasley, William Gerald, Storia del Giappone moderno, Einaudi, Torino, 1975.
Caliccia, Sandra, Economia politica, Edisu, Napoli, 1992.
Sakakibara, Eisuke, Bunmei to shite no Nihongata shihonshugi, Toyo Keizai Shinposha, Tokyo, 1993.
Weber, Max, Storia economica, Donzelli, Roma, 1997.