lunedì 12 ottobre 2009

Kenkyu, la ricerca scientifica

Articolo pubblicato dal sito Nipponico.com.

Kenkyu. Ricerca scientifica e tecnologia
di Cristiano Martorella

20 ottobre 2003. Ricerca scientifica in giapponese si dice kenkyu, parola usata genericamente per indicare uno studio o indagine intellettuale. Attività di ricerca è tradotto kenkyu katsudo, ricerca e sviluppo è kenkyu kaihatsu, mentre istituto di ricerca è kenkyujo. L’argomento è cruciale per l’economia poiché la ricerca scientifica costituisce il volano per l’innovazione, quindi per la razionalizzazione, l’ottimizzazione e lo sviluppo delle imprese. Inoltre in un sistema capitalistico, come spiegato da Joseph Schumpeter, l’innovazione tecnologica è il fattore che permette l’aumento della produzione a costi minori consentendo il profitto. Senza innovazione tecnologica l’azienda è destinata all’usura e all’obsolescenza. Mantenere una produzione industriale usando le stesse macchine e gli stessi materiali è economicamente svantaggioso. Altre scuole di economisti mettono in luce proprio ciò. Secondo la teoria marginalista la produttività si accresce all’inizio del ciclo fino a raggiungere un massimo per poi decrescere (postulato della produttività marginale decrescente). Perciò è necessario un cambiamento che permetta di superare questa tendenza negativa. Nel sistema industriale è l’innovazione tecnologica che garantisce ciò (fu Joseph Schumpeter, come prima anticipato, che studiò e analizzò gli aspetti e i ruoli cruciali delle tecniche applicate nell’economia).
Dopo una simile premessa si comprende perché vi sia tanto interesse per la ricerca scientifica in Giappone. Ronald Dore e Sako Mari furono gli autori del libro più noto sull’argomento (1). In Dentro il Giappone, essi svolgono un’analisi dettagliata e documentata mostrando aspetti ignorati. Ciò che gli autori mettono in risalto, è l’investimento considerevole delle imprese giapponesi per la formazione dei lavoratori. Il sistema educativo ha unicamente il ruolo di fornire una buona preparazione di base e conoscenze generali. La scuola non ha collaborazioni con l’industria e rimane relativamente indipendente. Viceversa le aziende si assumono una forte responsabilità nella formazione dei lavoratori. L’idea di fondo è che la scuola non possa preparare adeguatamente al lavoro essendo troppo teorica. Piuttosto che far perdere tempo agli studenti per acquisire competenze che non useranno mai realmente, si preferisce fornire una preparazione generale. La specializzazione può avvenire soltanto in azienda tramite il lavoro. Pensare di imparare un lavoro attraverso la teoria appresa sui banchi di scuola è decisamente utopico. Invece di costringere la scuola a fare ciò che le è impossibile, meglio scegliere una strada diversa. Questa alternativa è la formazione all’interno dell’azienda. Però questi corsi non sono affidati a specialisti della formazione esterni alla ditta. Piuttosto un ruolo importante è svolto dai colleghi. Soprattutto avviene che si ricorra a sistemi autonomi di verifica gestiti in modo indipendente, insomma un miglioramento autogestito. Secondo Dore e Sako, l’orgoglio di fare bene il proprio lavoro è spesso la più forte delle motivazioni. In conclusione, i successi del Giappone sarebbero stati ottenuti operando in contrasto con quelle che sono ritenute le linee di condotta ideali. Spontaneità e iniziativa individuale avrebbero più importanza della pianificazione. Si tratta di una interpretazione di Dore e Sako oppure si può estendere questo concetto alla intera economia giapponese? I fatti danno ragione ai due autori. Le vicende di Morita Akio, presidente e fondatore della Sony, sono la dimostrazione di questo atteggiamento. Anche la Toyota, il gigante industriale dell’automobile, ha seguito maggiormente le indicazioni della spontaneità e dell’iniziativa individuale teorizzate da manager come Ono Taiichi, Toyoda Kichiro, Ishikawa Kaoru, Imai Masaaki e Tanaka Minoru.
Un testo italiano che si occupa della ricerca scientifica in Giappone è l’opera (2) del bravo Andrea Tenneriello. L’autore, a cui va il merito di aver colmato le tante lacune della disciplina nipponistica nostrana, svolge un’analisi che parte da una precisa ricostruzione storica dal XVI secolo ai tempi odierni. Dopo aver individuato un motivo dello sviluppo nel processo di razionalizzazione operato dai Tokugawa, egli passa allo studio delle politiche che avrebbero favorito la diffusione di scienza e tecnologia. Un ruolo importante fu svolto nel dopoguerra dal Ministry of International Trade and Industry (MITI), in giapponese Tsuho Sangyosho, costituito nel 1949 e divenuto immediatamente determinante (3). Il MITI controllò praticamente le transizioni favorendo le grandi aziende nell’acquisizioni di macchinari e tecnologie dall’estero. Questa situazione permetteva alle imprese giapponesi di fissare obiettivi a lungo periodo, caratteristica che ha influenzato l’economia giapponese verso notevoli investimenti in progetti spesso futuribili e avveniristici. Nel 1996 fu istituita la Japan Science and Technology Corporation (JST), in giapponese Kagaku Gijutsu Shinko Jigyodan, organismo che faceva parte della Science and Technology Agency (Kagaku Gijutsu Cho). Gli obiettivi erano la promozione della ricerca di base, la cooperazione e lo scambio fra enti del governo, le università, l’industria privata e le istituzioni straniere, la diffusione dell’informazione, e infine la divulgazione. Fra i progetti più innovativi ricordiamo gli studi sulle nanomacchine, il vetro superliquido, le neuroscienze, la quantistica, i superconduttori (4).
Secondo Andrea Tenneriello la legislazione per la scienza e la tecnologia del 1995 (Legge n. 130, 15 novembre 1995) avrebbe spinto il Giappone a una profonda riforma degli enti pubblici e delle università a favore di una maggiore flessibilità, apertura e competitività. Ciò dovrebbe portare all’abbandono delle modalità operative del passato.
Vorremmo concludere con alcune considerazioni che allarghino il quadro finora fornito. Nonostante gli investimenti di risorse nella ricerca scientifica, il Giappone risente negativamente delle condizioni internazionali. Innanzitutto c’è da tenere presente che investire solo in ciò che si crede capace di produrre profitto è controproducente. Non si può conoscere qualcosa se prima non lo si studia. Anche in Giappone si assiste a una tendenza nel privilegiare il profitto rispetto alla conoscenza pura. D’altronde l’utilitarismo della scienza giapponese è ben noto ed ha anche avuto vantaggi notevoli evitando sprechi in indagini prive di valore.
L’altro effetto negativo è quello indicato da molti studiosi, fra cui l’economista Paul Krugman, che individuano in un eccesso si informazione l’immobilismo e il blocco dello sviluppo, e quindi (secondo le premesse esposte all’inizio) la recessione economica. Un eccesso di informazioni impedisce di fare una scelta, cioè agire. Questo fenomeno contemporaneo è talmente drammatico che è anche stato la causa del fallimento dell’intelligence americana che avrebbe dovuto sventare gli attacchi terroristici dell’undici settembre 2001. La crisi economica che già si era manifestata prima dell’attacco aveva le stesse cause. Il crollo della new economy fu provocato da investimenti sbagliati in settori scarsamente produttivi. La new economy che doveva creare una industria dell’informazione, non aveva gli strumenti informativi per valutare la validità di un progetto. Per quale motivo? L’eccesso di informazioni non permetteva alcuna valutazione. Questo sbilanciamento non permette il passaggio completo a un’economia dell’informazione e dei servizi che integri l’industria e spinga lo sviluppo. Così si rimane in una fase di transizione con aspetti regressivi e negativi. Ciò che serve è lo sviluppo di strumenti scientifici capaci di ordinare e selezionare l’informazione così da guidare la ricerca. Nemmeno i dirigenti giapponesi si rendono conto di quanto sia grave il problema dell’eccesso di informazioni che è anche causa della disoccupazione dei lavoratori del terziario (in proposito si considerino le ricerche dell’economista Jeremy Rifkin). Però il Giappone ha una speranza. In passato i maggiori risultati sono stati raggiunti spontaneamente dall’iniziativa individuale che ha trascinato interi settori. L’intraprendenza e la fantasia dei giapponesi non vanno sottovalutate. Esse valgono più dei programmi ministeriali.

Note

1. Dore, Ronald e Sako, Mari, Dentro il Giappone. Scuola. Formazione professionale. Lavoro, Armando Editore, Roma, 1994. Sako Mari tenne lezioni sull’impresa giapponese alla School of Economics di Londra, mentre Ronald Dore è stato l’autore di celebri saggi sull’economia giapponese e visiting professor all’università di Harvard.
2. Tenneriello, Andrea, La legislazione per la scienza e la tecnologia nel Giappone moderno, Unicopli, Milano, 2001. La prefazione è del giurista Mario Losano che valorizza il ricco testo dotato anche di un adeguato glossario in giapponese. Si veda anche Losano, Mario, Il diritto economico giapponese, Unicopli, Milano, 1984.
3. Si consulti per quanto riguarda il MITI il seguente testo: Johnson, Chalmers, MITI and Japanese miracle, Stanford University Press, Stanford, 1982.
4. Informazioni a livello divulgativo possono essere reperite sulla rivista "Look Japan".

Bibliografia

Dore, Ronald e Sako, Mari, Dentro il Giappone. Scuola. Formazione professionale. Lavoro, Armando Editore, Roma, 1994.
Dore, Ronald, Bisogna prendere il Giappone sul serio, Il Mulino, Bologna, 1990.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Atti del XXV convegno di studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Momigliano, Franco, Economia industriale e teoria dell’impresa. Il Mulino, Bologna, 1975.
Nakayama, Shigeru. 1991. Science, technology and society in postwar Japan, Kegan, New York, 1991.
Schumpeter, Joseph, Il processo capitalistico, Boringhieri, Torino, 1977.
Schumpeter, Joseph, Storia dell’analisi economica, Boringhieri, Torino, 1990.
Tenneriello, Andrea, La legislazione per la scienza e la tecnologia nel Giappone moderno, Unicopli, Milano, 2001.