lunedì 19 ottobre 2009

Illustratori giapponesi

Articolo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Il pennello, l’inchiostro e il sangue. Illustratori giapponesi controcorrente, in "LG Argomenti", n.2, anno XXXIX, aprile-giugno 2003, pp.59-64.


Il pennello, l’inchiostro e il sangue
Illustratori giapponesi controcorrente
di Cristiano Martorella

In giapponese illustrazione si dice sashie, termine composto dalle parole sashi (inserito) ed e (disegno). Per completezza possiamo ricordare anche il termine soga, meno consueto, che ha identico significato ed etimologia. Comunque il senso è quello di un’immagine inserita fra il testo di un libro.
Se l’illustrazione dei libri giapponesi non presenta problemi dal punto di vista linguistico, ciò non implica che l’argomento sia di facile approccio. Pur essendo stati dedicati alcuni saltuari articoli sugli illustratori giapponesi, manca ancora un lavoro di documentazione e soprattutto di critica d’arte che sia stato pubblicato in Italia. Cerchiamo quindi di porvi rimedio con il massimo impegno perché l’arte degli illustratori giapponesi non rimanga aliena. Però nel tentare questa indagine eviteremo il feticismo dell’informazione e respingeremo la credenza che un cumulo di dati da solo possa permettere la comprensione. Ciò che permette di capire l’arte è la relazione fra l’emozione e l’opera artistica, fra il carattere soggettivo e l’aspetto oggettivo. Soltanto studiando la relazione e dunque l’interazione, si può smuovere il pensiero dal torpore abitudinario delle ricerche subalterne, ovvero quei noiosissimi elenchi di citazioni e sequenze di luoghi comuni che rassicurano il lettore nel sapere quel che già conosceva. Eliminare le incrostazioni dal pensiero è il compito che ci attende.
Kurosaki Gen, nato nel 1966, ha studiato come designer a Kyoto esponendo le sue opere nel 1989 e 1990. Ha vinto la borsa di studio nel 1992 di From A the Art e ha partecipato alla mostra Art Box. Divenne illustratore realizzando le opere Retasu kurabu netto e Chie no mori bunko. Insieme a Nojima Shinji ha dato vita alla breve storia Koorogikun no koi (L’amore del grillo), un dowa per i bambini più piccoli dal gusto malinconico e amaro. Koorogikun no koi è una storia d’una durezza e spietatezza inconcepibile per un pubblico occidentale che stenta a capire i presupposti della pedagogia giapponese. Come rilevò argutamente Luca Raffaelli nel suo Le anime disegnate, l’approccio con l’infanzia è completamente rovesciato. Poiché la tradizione nipponica esalta il magokoro, il vero cuore, o secondo altre parole, umaretsukitaru mama no kokoro, il candido cuore innato ossia la spontaneità, non è accettabile la menzogna nei confronti dei bambini. Mentre la pedagogia occidentale si impegna a corrompere la spontaneità del bambino e a proteggerlo dal mondo raccontandogli un cumulo di menzogne, l’atteggiamento degli educatori giapponesi non è mai ipocrita. Non viene repressa la sessualità già presente nei giovani adolescenti e soprattutto non si giustifica l’esistenza umana con argomenti trascendentali. Se in Giappone avvenisse un cataclisma naturale come un terremoto che provochi il crollo di una scuola e la morte di decine di bambini, nessuno avrebbe la sfrontatezza di affermare che "Dio aveva bisogno di angeli". Lo stesso approccio disincantato si ritrova nelle disgrazie del grillo disegnato da Kurosaki Gen. Il tratto è elementare, semplice, spontaneo come quello di un bambino. Eppure l’utilizzo dello spazio è sapientemente adoperato per rendere gli eventi attraverso un’impressione forte che diventa cinetica con la successione delle tavole. Anche per il libro, come per qualunque mezzo visivo, vale l’effetto autocinetico scoperto da Muzaref Sherif, ossia la costruzione di un percorso elaborato dalla mente sulla base di poche impressioni che emergono rispetto allo sfondo. La psicologia cognitiva ci aiuta nella comprensione dell’arte evidenziando i movimenti delle immagini che un’osservazione superficiale e frettolosa ritiene immobili e bidimensionali, fermandosi alla carta e ignorando l’elaborazione mentale delle immagini. Eppure la fruizione dell’arte avviene proprio a livello cognitivo, ed è la psiche ad essere il soggetto piuttosto che l’opera d’arte stessa. Per i maestri della calligrafia giapponese (shodo), le tracce d’inchiostro sul foglio sono soltanto il cadavere dell’opera d’arte, viceversa lo spirito è nell’uomo. Con questa prospettiva possiamo capire come Kurosaki Gen non si limiti a illustrare, piuttosto la sua azione è smuovere la psiche dall’immobilismo della quotidianità. E con quale veemenza vi riesce. Il grillo innamorato sposa l’amata che aveva corteggiato con il canto. Però viene abbandonato per volubilità e senza motivo. Rimasto con il suo pargolo, lavora zappando la terra. Ecco che trova il petrolio e diventa ricco. E immediatamente viene circondato da femmine e perfino dalla moglie che è tornata. Apparentemente felice, il grillo è colpito da un raptus e brucia tutto il denaro guadagnato con il petrolio che gli sembra inutile e corrotto. Gli abitanti del bosco pettegolando lo considerano matto. La moglie lo abbandona nuovamente e il grillo rimasto senza risorse muore di fame. Particolarmente cruda la scena del cadavere del grillo in decomposizione sotto la neve che viene smembrato dalla formiche. Il figlio del grillo suonerà il violino costruito dal padre e con la sua canzone d’amore riuscirà a far piangere le nuvole.
Kurosaki Gen utilizza il paesaggio in modo dinamico, non come uno sfondo, ma come un soggetto, così come nella tradizione inaugurata da Katsushika Hokusai. Grosse macchie di colore in movimento, come lo schizzo di petrolio, riempiono le pagine. Le emozioni dei personaggi si dipingono sulle pagine come stelle nel cielo. Così le note musicali si possono tramutare in gocce di pioggia. Potremmo definire l’arte di Kurosaki Gen come espressionismo minimalista.
Sano Yoko, nata a Pechino nel 1938, studiò arte e disegno al Musashino College, e poi litografia all’Università di Berlino nel 1967. Vincitrice di numerosi premi, fra cui ricordiamo il premio Sankei per la cultura infantile, il premio Kodansha, e il Nankichi Niimi per la letteratura giovanile. Alcune sue opere indimenticabili includono Datte datte no obaasan (La vecchia che diceva ma), Watashi no boshi (Il mio cappello), Ojisan no kasa (L’ombrello del signore) e soprattutto quel capolavoro eccezionale costituito da Hyakumankai ikita neko (Il gatto che visse un milione di volte). La storia de Il gatto che visse un milione di volte è un’altra vicenda che esula dai consueti criteri del pensiero occidentale e mostra quanto siano avanzate le posizioni della pedagogia giapponese. Un gatto che aveva vissuto un milione di vite attraversa diverse vicissitudini, conoscendo re e marinai, perfino il lavoro nel circo. Ha diversi padroni fra cui un’anziana e una bambina. Un giorno incontra una bellissima gattina bianca e s’innamora. Così la corteggia e ottiene il suo amore. Quando la gattina muore, il gatto non vuole più rinascere preferendo la morte eterna. Il racconto di una profondissima sensibilità pone il lettore davanti alla realtà cruda della sofferenza e non gli propone fughe trascendentali, piuttosto ci indica che è proprio la mortalità a renderci umani. Soltanto scoprendo la debolezza e la finitezza dell’esistenza possiamo capire l’autentica natura umana. I giapponesi ritengono che i bambini debbano essere consapevoli di ciò, e non gli venga nascosto nulla. Ciò spiega la difficoltà della critica italiana a confrontarsi con queste opere dove morte e sofferenza non sono occultate al bambino.
La tecnica usata da Sano Yoko in quest’opera è l’acquerello adoperato con estrema libertà e leggerezza. Con un tratto sicuro e veloce che non indugia nella ricerca di un profilo, marca le figure attraverso tonalità di colore dosato a macchie armoniose di arancione, rosa, viola, contrastate da larghe e diluite stesure di grigio-verde e azzurro.
Akaba Suekichi, nato nel 1910 a Tokyo e morto nel 1990, ha illustrato numerose fiabe giapponesi (mukashibanashi) vincendo nel 1980 il premio internazionale Andersen. Fra le sue tavole ricordiamo quelle per Momotaro, Shiroi ryu kuroi ryu (Drago bianco drago nero), Daiku to oniroku (Il carpentiere e l’orco) e Kasajizo. La tecnica grafica di Akaba Suekichi recupera la tradizione nipponica. Le figure sono tracciate con linee nette di inchiostro nero e colpi di pennello grigio o colorato sfumato come nei dipinti degli emakimono.
Hasegawa Shuhei, nato a Himeji nel 1955, vinse il premio Subaru per Hasegawakun kiraiya nel 1976 e studiò disegno al Musashino College. Egli fu vittima di un caso di avvelenamento del latte che ha segnato la sua vita. Nella sua opera mostra l’agonia e l’angoscia provati da chi è colpito da handicap. Ancora paura e disagio vengono descritti in Hyuu, la storia di Kentaro, un ragazzo che non riesce a dormire. Il terrore lo fa urlare e la sua voce diventa un vento. Kentaro è ossessionato dal pensiero di crescere, diventare vecchio e morire (una fobia che Sigmund Freud chiamava Todesangst). Il cielo è colorato dalle emozioni di Kentaro che addirittura inghiotte l’amica Kagami. Quando il giorno seguente incontra Kagami a scuola, apprenderà da lei che condivide lo stesso disturbo. Hasegawa Shuhei insegna ai bambini che alcuni sentimenti terrificanti sono comuni e usuali, e non bisogna temere d’essere strani. La condivisione e la solidarietà vincono la paura. L’autore ottiene questo risultato con immagini violente che trasmettono l’autentica sensazione della paura così da affrontarla direttamente.
Baba Noboru, nato a San’nohe nella prefettura di Aomori nel 1927, divenne disegnatore di fumetti nel 1967. La sua serie più famosa è Juichipiki no neko (Undici gatti) pubblicata anche in Svezia, Corea e Stati Uniti. I gatti di Baba Noboru fanno cose che non sapevano di poter fare, e trovano modi non convenzionali per risolvere i problemi. L’apertura al pensiero laterale e creativo è mostrata nella copertina di Juichipiki no neko fukuro no naka (Undici gatti nel sacco) dove sono disegnati dieci gatti. Il bambino che si accorge dell’incongruità pensa che il disegnatore ha sbagliato, poi girando il libro si accorge che sul retro c’è l’undicesimo gatto che si attarda bighellonando. Un procedimento simile a quello operato nei giardini zen, dove un sasso viene nascosto alla visuale dagli altri, facendoci intuire che ciò che noi vediamo comunque esiste ed è presente nonostante l’invisibilità.
Shingu Susumu, nato a Osaka nel 1937, ha studiato a Tokyo specializzandosi in pittura a olio e per sei anni ha approfondito gli studi a Roma. La sua prima mostra di sculture fu alla Galleria Blu di Milano nel 1966. Le sue installazioni mosse dall’energia del vento e dell’acqua sono famose e si possono ammirare anche a Genova, al Porto Antico, dove si trova il Columbus’ Wind realizzato nel 1992. Come illustratore di libri ha dedicato il suo sforzo nel descrivere le forze della natura che forniscono l’energia vitale alle creature dell’ecosistema. In questo senso l’opera più riuscita è Chiisana ike (Lo stagno), una serie di tavole che mostrano la vita in uno stagno dall’alba al tramonto. Altre opere da ricordare sono Kumo (Nuvole), Ichigo (Fragole) e Kippisu no tazuneta chikyu (Il viaggio della Terra di Kippis). Il critico d’arte Rudolf Arnheim ha celebrato la sua arte in The Moving Art of Susumu Shingu, un testo che evidenzia i rapporti con la filosofia orientale e il concetto di natura tipico dei giapponesi.
Tashima Seizo, nato a Osaka nel 1940, studiò arte al Tama College. Pubblicò Shibaten nel 1962 e poi Furuya no mori. Vinse il premio Golden Apple nel 1969 con Chikarataro, il premio Kodansha per la cultura nel 1974, e il premio Nippon per i libri illustrati nel 1988 con Tobe batta (La cavalletta). Tashima Seizo ha illustrato anche alcune fiabe tradizionali giapponesi fra cui Kintaro. Le immagini di questo volume sono molto forti e sottolineano con vigore le scene di lotta del bambino Kintaro che si scontra con un orso e compie altre incredibili imprese grazie alla sua forza.
Maruki Toshi, nata in Hokkaido nel 1912 e morta nel 2000, divenne celebre per i suoi libri di denuncia sui mali della guerra come Hiroshima no pika (Il lampo di Hiroshima) e Okinawa shima no koe (La voce di Okinawa).
Il lampo di Hiroshima non è un libro comune. Le immagini sono terribili e raccapriccianti. Uomini e donne nudi e bruciati che si trascinano nel fango. Fiamme che ardono i bambini. Una violenza inusitata e terrificante che ha un difetto: non essere il prodotto dell’immaginazione ma una storia reale.
Un discorso serio e ponderato sull’arte giapponese non può ignorare i risvolti sociali ed etici che vengono smossi dal genio umano che è capace di rompere le convenzioni per creare. L’arte non è pura contemplazione della bellezza, ciò è piuttosto la fine che l’inizio dell’arte. Come aveva indicato Bruno Munari in Artista e designer, la bellezza viene percepita attraverso l’uso di un certo codice estetico che appartiene alla cultura. Però se è l’artista che produce un proprio codice estetico attraverso l’opera, allora è egli stesso a costruire la società. Così risulta chiaro il motivo dell’accanimento operato dai governi dispotici contro gli artisti. Un concetto simile è molto recepito nella società giapponese che può vantare una dinamica storico-sociale molto articolata. Ed è questo concetto che apre il pensiero alle considerazioni più forti e attuali per il nostro contesto. L’arte è ancora considerata in Giappone come vita autentica, passione, carne e sangue. Tanizaki Jun’ichiro racconta in Manji (La svastica) l’insano ardore che si impossessa della pittrice Kakiuchi Sonoko, Akutagawa Ryunosuke in Jigoku hen (La scena dell’inferno) narra l’avventura del pittore Yoshihide che dipinge una scena infernale vivendola come diretta esperienza, Edogawa Ranpo descrive la vicenda terribile della follia di uno scultore cieco che trasforma le sue vittime in opere d’arte. Insomma, si deve dire che la pittura ha bisogno di pennello, inchiostro e sangue. Perché? La risposta è attualissima e riguarda il dibattito inconcludente che ha coinvolto l’animazione e il fumetto giapponese accusati di traviare i giovani italiani attraverso il sesso e la violenza.
La risposta che noi forniamo è pharmakon. Con la parola greca pharmakon si indicava un preparato che poteva essere sia un veleno sia un medicamento. In effetti la scienza ci insegna che l’antidoto è il veleno stesso in una dose e trattamento diverso. Oggi la violenza è indispensabile come antidoto perché l’emotività è stata snaturata. Come ha indicato con insistenza Umberto Galimberti, il problema dell’individuo contemporaneo è la risonanza emotiva. Non siamo capaci di soffrire e non diamo alcun valore alla morte che addirittura neghiamo. Siamo indifferenti e privi di emozioni rispetto a ciò che dovrebbe sconvolgerci. Tutto ciò in un contesto critico e pedagogico che esalta il piacere senza neppure conoscerlo (e a volte proibendolo quando sembra una devianza). Ecco perché l’arte giapponese con la letteratura, la grafica, i fumetti e l’animazione, è estremamente scandalosa. Considerare correttamente la violenza è indispensabile. L’arte è vita, l’arte è violenta. Se si vuole che la violenza rimanga nei disegni e non travolga le fragili strutture del consesso umano, si dovrà ammettere che la violenza è connaturata nell’esistenza umana. Invece di nasconderla e censurarla dovremmo mostrarla come fanno gli artisti giapponesi. Ecco il pharmakon contro la violenza: la violenza usata come antidoto nella forma sublimata dell’arte. Una conoscenza che i pagani possedevano più chiaramente di noi, ripresa dai romantici, ciò che chiamarono catarsi.
Finché la letteratura giovanile non si emanciperà dal ricatto delle formule del piacere della lettura, l’arte giapponese sarà sempre antagonista e sicuramente più seguita dai giovani che troveranno in essa risposte sincere alle domande della vita.

Bibliografia

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Akaba, Suekichi e Matsui, Tadashi, Daiku to oniroku, Fukuinkan, Tokyo, 1962.
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Hasegawa, Shuhei, Hasegawakun kiraiya, Subaru shobo, Tokyo, 1976.
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Raffaelli, Luca, Le anime disegnate, Castelvecchi, Roma, 1994.
Shingu, Susumu, Chiisana ike, Fukuinkan, Tokyo, 1999.