Articolo sulle caratteristiche morfologiche delle fiabe giapponesi pubblicato dalla rivista "LG Argomenti".
Cfr. Cristiano Martorella, Le forme della fiaba giapponese. I generi otogibanashi e mukashibanashi, in "LG Argomenti", n.2, anno XXXVIII, aprile-giugno 2002, pp.51-54.
Le forme della fiaba giapponese
I generi otogibanashi e mukashibanashi
di Cristiano Martorella
I fattori che determinano l’importanza straordinaria della fiaba giapponese sono da rintracciare in una serie di motivi ben evidenti: l’antichità delle storie (antropologicamente significative), la preziosità dello stile letterario (universalmente riconosciuta) e l’originalità culturale (tipicamente caratterizzata). Sono due i generi della fiaba giapponese: il mukashibanashi (racconto del “c’era una volta”) e l’otogibanashi (racconto per diletto). Una conoscenza più dettagliata di questi generi permetterà di comprendere meglio la nascita e lo sviluppo della fiaba giapponese.
Il mukashibanashi è la forma più antica e legata alla tradizione orale e popolare della fiaba giapponese. Le caratteristiche del mukashibanashi sono quelle specifiche della fiaba: la presenza di elementi magici o soprannaturali, la sospensione temporale in un luogo e periodo indefinito, la definizione di archetipi. La parola mukashibanashi è composta da mukashi (antichi tempi) e hanashi (racconto). L’espressione mukashimukashi è traducibile come “c’era una volta”, e indica la caratteristica stessa della fiaba, una sospensione temporale, una estraniazione.
L’importanza del mukashibanashi dal punto di vista antropologico è segnalata da una serie di studi di Ozawa Toshio. Molto sofisticato e approfondito è il saggio La cosmologia della fiaba giapponese (Mukashibanashi no kosumoroji) che ne traccia le origini tramite comparazioni fra fonti diverse e lontane sia temporalmente sia geograficamente. Con il medesimo metodo Ozawa presenta le caratteristiche del mukashibanashi nella sua Introduzione alla fiaba giapponese (Mukashibanashi nyumon). Ozawa Toshio non ha soltanto ripreso e immesso nuova linfa negli studi giapponesi per il racconto popolare già avviati da Yanagita Kunio, ma ha applicato un’analisi con un approccio antropologico e psicologico che ricorda Bruno Bettelheim, unendovi il rigore filologico di Max Lüthi. E le citazioni di questi autori non sono casuali poiché Ozawa ha studiato anche a Marburgo, e la sua formazione non è affatto ristretta all’ambito orientale, ma al contrario nasce dalla frequentazione delle opere dei Grimm a cui ha dedicato vari testi. Non deve sorprendere che l’applicazione di un metodo occidentale permetta di scoprire la specificità giapponese. Il pensiero degli intellettuali europei del XVIII e XIX secolo, a cui tutti siamo debitori, presentava il riconoscimento delle culture “altre” alla luce della ragione imparziale.
Ozawa usa il metodo comparativo per individuare la specificità della fiaba giapponese, le caratteristiche, la genesi e l’autonomia come genere letterario. Ad esempio, distingue due versioni della storia del marito serpe nella leggenda di Miwayama e nella fiaba di Kochi. La storia racconta la vicenda di una ragazza che ha una relazione con un bel ragazzo dalle origini misteriose. I genitori della ragazza, preoccupati, lo pungono con un ago rivelando la sua autentica identità, un dio-serpente. Nella versione di Miwayama c’è la presenza di una ossequiosità, un rispetto nei confronti del dio shintoista serpente. Aspetto che manca del tutto nella fiaba di Kochi che elabora gli aspetti letterari depurati dalle implicazioni religiose. Le varianti di questa fiaba sono numerose, ed esistono versioni di Niigata, Iwate, Nagano, Gifu e Nagasaki. Esiste perfino una fiaba simile in Corea. L’archetipo primitivo è costituito dall’antica venerazione del serpente che diventa piacere della letteratura nella trama della relazione fra la serpe e la ragazza.
Il genere otogibanashi deriva dai racconti popolari brevi detti otogizoshi in voga nel periodo Muromachi (1392-1573) e appartenenti alla tradizione orale. Trovarono una diffusione a stampa negli anni tra il 1716 e il 1735, quando Shibukawa Seiemon ne pubblicò una raccolta intitolata Otogi bunko. La parola otogibanashi è composta da hanashi (racconto) e otogi (tenere compagnia). Questi “racconti per diletto” si adattavano bene alle funzioni delle fiabe e divennero uno dei generi più versatili della narrativa per l’infanzia. Fra gli otogibanashi più popolari ricordiamo Issunboshi, giustamente definito come il Pollicino giapponese. Issunboshi significa letteralmente “bonzo d’un pollice”, ed è il nome del minuscolo bambino nato a una anziana coppia. Nonostante mangi tanto, Issunboshi non cresce più di tre centimetri d’altezza. Rattristato decide di lasciare casa e parte per la capitale. Arrivato a un grande palazzo, cerca di attirare le attenzioni di un servitore che rimane meravigliato di vedere un ragazzo tanto minuto. Egli lo porta dalla principessa che lo prende in simpatia e lo tiene a palazzo per compagnia. Un giorno, durante un viaggio, la principessa viene aggredita da un bandito. Issunboshi lo attacca con uno spillo, ma il bandito lo deride e lo inghiotte. Issunboshi non si perde d’animo e trafigge lo stomaco del ladro, poi sale per la gola ed esce dal naso. Il bandito fugge spaventato. La principessa trova un amuleto magico perso dal ladro. Issunboshi può esprimere il suo desiderio e diventa più alto. Raggiunta la statura normale, egli è ora un bel giovane e sposa la principessa.
Altra fiaba celebre è quella di Urashima Taro, il pescatore che salva la tartaruga. La creatura marina si trasforma in una principessa che per ringraziarlo lo trasporta nel suo regno negli abissi. Egli trascorre felicemente diversi giorni nel palazzo incantato, ma provando nostalgia implora di ritornare a casa. La principessa gli dona uno scrigno (tamatebako) chiedendogli di non aprirlo. Urashima Taro fa ritorno al suo villaggio, ma non trova né amici né parenti. Rassegnato apre lo scrigno e improvvisamente diventa vecchio. Il tempo trascorso negli abissi equivaleva a numerosi anni che erano stati racchiusi nello scrigno.
La tipologia della fiaba giapponese presenta diverse matrici, una delle quali è costituita dal “bambino straordinario”. A questo modello si ricollega quello della nascita meravigliosa come nel caso di Kaguya nata da un bambù, Momotaro da un frutto di pesca, Urikohimeko da un melone, etc. Nel caso del bambino, egli rivela presto una forza straordinaria, così come nelle fiabe di Kintaro e di Momotaro, e la capacità di realizzare straordinarie imprese come, ad esempio, sconfiggere gli orchi.
Questa idea che i bambini possano compiere ciò che è impossibile per gli adulti si è conservata nella mentalità giapponese tanto da essere rimasta intatta e rispecchiata negli anime. Nelle più recenti produzioni di cartoons, possiamo individuare adolescenti che guidano robot ed hanno la responsabilità di salvare il mondo (si veda Neon Genesis Evangelion). Il passaggio dal mukashibanashi all’anime è naturale ed è consentito dall’esistenza di questa matrice a livello simbolico e inconscio, il livello più profondo e duraturo. Purtroppo l’ignoranza della cultura e della storia giapponese è causa continua di fraintendimenti. Per fortuna le pubblicazioni e le ricerche, almeno in lingua giapponese, sono abbondanti così da supplire a una corretta indagine. In questo senso i lavori di studiosi come Yanagita Kunio e Ozawa Toshio si rivelano estremamente utili sia per la ricchezza della documentazione sia per lo sforzo teorico.
Bibliografia
Yanagita, Kunio, Nihon no mukashibanashi, Shinchosha, Tokyo,1983.
Yanagita, Kunio, Kodomo fudoki, Iwanami Shoten, Tokyo, 1976.
Ozawa, Toshio, Mukashibanashi no kosumoroji, Kodansha, Tokyo, 1994.
Ozawa, Toshio, Mukashibanashi nyumon, Gyosei, Tokyo,1997.
Ozawa, Toshio, Fiabe giapponesi, Arnoldo Mondadori, Milano,1992.
Orsi, Maria Teresa, Fiabe giapponesi, Einaudi, Tornino, 1998.
Pellitteri, Marco, Mazinga Nostalgia, Castelvecchi, Roma, 1999.
Tyler, Royall, Demoni e mostri del Giappone, Arcana, Milano, 1988.
Kato, Shuichi, Storia della letteratura giapponese, Marsilio, Venezia, 1989.
Bettelheim, Bruno, Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano, 1984.
Articolo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Le forme della fiaba giapponese. I generi otogibanashi e mukashibanashi, in "LG Argomenti", n.2, anno XXXVIII, aprile-giugno 2002, pp.51-54.